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Femminicidio

Gli “uomini” che uccidono le donne – con questo ributtante termine “femminicidio” – odiano e uccidono la donna in sé, prima di ucciderla fuori da sé. Ho guardato Matrix ieri sera e non ho trovato nulla di questa fondamentale certezza: una chiave essenziale per affrontare alla radice questa strage, perché di una vera strage italiana, e non solo, si tratta. La parte femminile in un uomo, la migliore e la più “virile”, viene recepita come una minacciosa latenza inconfessabile di terrificante omosessualità, mentre è tutt’altro. È una completezza indispensabile al rapporto tra i due generi, e al rapporto con se stessi. Non se ne parla, o non se ne parla mai abbastanza ché è un argomento scomodo, in uno stato viriloide e fallocrate come il nostro. Quali donne, grandi donne, celebriamo nei monumenti, nelle dediche delle piazze e delle strade? Un’Italia così non può difendere la donna, né portarla sul piano del rispetto simbolico, di cui i potenziali assassini hanno bisogno. Ritengo nonsolo lo stato, ma soprattutto la chiesa responsabile di questo nefasto imprinting culturale. Alla donna non è stata mai concessa una legittimazione dell’autoaffermazione quale istituzione nella società, una piena coscienza di sé, un’autorevolezza significativa. Dove sono i riconoscimenti della chiesa alla donna? La riconoscenza? L’istituzionalizzazione piena e completa? Quando vedo una Merkel che tiene in scacco tutta l’Europa, da un lato dissento radicalmente con le sue scelte e gli interessi faziosi che rappresenta, dall’altro ne sono felice perché si tratta di una donna, comunque. Non avremo mai una donna autorevole come la Merkel in Italia. Forse non ce ne sono in giro di italiane all’altezza di questi ruoli? Ma davvero? O abbiamo solo quelle portate nelle istituzioni da Berlusconi, come la Minetti? Io vedo solo un occultamento dei modelli femminili, quelli veri, indispensabili alla risposta piena a questa strisciante strage quotidiana. Le donne devono farsi sentire, e trovare uomini veri che combattano al loro fianco. Se non ora… quando?

Salvatore Maresca Serra – Roma, 24 maggio 2012

OMOFOBIA e IPOCRISIA

OMOFOBIA e IPOCRISIA  di Salvatore Maresca Serra

<<Non avrai altri jeans all’infuori di me>> era lo slogan di Jesus che tanto fece parlare e generò una reprimenda cattolica appoggiata da magistratura, polizia, quindi Stato perbenista-moralista  a partire dalle pagine dell’Osservatore Romano, nei “lontani anni settanta”. Il 17 maggio 1973, PP Pasolini scrisse sul Corriere della Sera la sua puntuale analisi linguistica del fenomeno, dove configurò uno scenario – a partire dal <<non avrai altri>> – che vedeva lo sgretolarsi del potere della Chiesa prossimo, futuribile sul breve periodo e ineluttabile. Bastavano un jeans e uno slogan, dunque – dopo millenari sviste, corruzioni e falsificazioni –, a spogliare la Chiesa del suo potere mentre rivestiva di azzurro divinizzato gambe cosce e natiche degli italiani inconsapevoli dell’orrenda tragedia in agguato? O piuttosto non era quello slogan l’acme del declino del vaticano solo perché nasceva nel grembo della società borghese, che la Chiesa aveva accolto snaturando se stessa? Pasolini indicava un percorso di valori (ben precisi) da utilizzare: serviva chiedersi – a partire dal Concordato negli anni trenta – quanto il neocapitalismo borghese potesse determinare il declino del papa e compagni, dopo ch’essi avevano accettato il fascismo, poi la repubblica, quindi la società dei consumi e del nuovo capitale liberale. Domande logiche, lecite e linguistiche. Quindi: se lo spirito reazionario degli anni ’70 che strappava i manifesti di Jesus avesse avuto vita breve, come fu – profeticamente – negli anni a seguire. Quello slogan pubblicitario – antesignano del branding – era come un retrovirus Hiv: solo questione di tempo. Poi avrebbe infettato tutto e tutti. Uno tra i Dieci Comandamenti era stato nonsolo vilipeso, nonsolo banalizzato oscenamente per trarre fatturati e colpire l’immaginario innocentemente ludico dei giovani borghesi, e nonsolo aveva eternizzato per un istante la psicologia applicata della comunicazione pubblicitaria, ma era stato usato quale strumento di morte perché già morto. E Jesus stesso sanciva questa morte della religione cattolica e dei suoi comandamenti dopo essere già stato – poco prima – Cristo Super Star, come fosse una stella del firmamento pop. Evidentemente, il vaticano assorbiva coscientizzandola troppo tardi la morte (quale spinta vitalistica) di una collettivizzazione sistemica di una antica-postmoderna fede-antidefe: l’idolatria del Capitale. È anche evidente che le macroscopie della materializzazione e della reificazione – dico io – venivano già da tempo immemorabile precipuamente dalla vendita delle indulgenze, che portarono Lutero ad affiggere a Wittemberg le sue 95 tesi di protesta contro Leone X. Mercoledì 31 ottobre 1517. La riforma innescata dal monaco agostiniano, in Italia fu altrettanto presente come negli altri stati europei, ma qui ebbe particolari caratteristiche. Innanzitutto si affermò nelle classi colte, imbevute dello spirito umanistico e laico del Rinascimento, che vedevano nella riforma, soprattutto legata allo Zwingli e a Calvino, un’affermazione della classe borghese rispetto al tradizionalismo della chiesa romana. Il movimento prese piede anche tra il clero sia con posizioni estremiste sia con posizioni moderate. Probabilmente, Pasolini – nell’articolo del Corriere – non volle approfondire troppo questo aspetto, e parlò come se la borghesia non avesse avuto un suo iter storico nei secoli addietro. Per ciò che riguarda Leone X, nato Giovanni di Lorenzo de’ Medici, di lui gli avversari raccontano che quando divenne papa, a soli trentasette anni, l’11 marzo 1513, abbia detto a suo cugino Giulio: «Poiché Dio ci ha dato il Papato, godiamocelo». Si racconta viaggiasse attraverso Roma alla testa di una stravagante parata, in cui sarebbero apparsi pantere, giullari ed un elefante bianco. Avrebbe fatto servire cene con sessantacinque portate, nelle quali dei ragazzini saltavano fuori dai budini. Alcuni storici sostengono l’omosessualità di Leone X. Guicciardini recita nella sua Storia d’Italia a proposito di Leone X da poco morto: credettesi per molti, nel primo tempo del pontificato, che e’ fusse castissimo; ma si scoperse poi dedito eccessivamente, e ogni dì più senza vergogna, in quegli piaceri che con onestà non si possono nominare – sottintendendo, secondo molti, le pratiche omosessuali. Certo è che era una voce molto diffusa a Roma, come dimostrano molte pasquinate dell’epoca. Una di queste lo definiva “fiorentin, baro, cieco e paticone”, dove paticone indica l’omosessuale passivo. Più o meno tutti conosciamo l’orientamento sessuale dei papi e dei preti, e ciò si contrappone oggi alla decodifica che s’impone di un Parlamento che boccia – tacciandola d’incostituzionalità – la legge sull’omofobia. Già caldeggiata anche dalla Corte Costituzionale, in un’Italia che aggredisce gay, lesbiche e transessuali, dominata così com’è da una destra fascistoide, “retriva” (definisce Leonardo Coen su Facebook) e “da cui non ci può aspettare altro, grazie ai babbei che l’hanno votata”. Nella sostanza, il Parlamento italiano dice che è costituzionale ghettizzare i “diversi” e – simultaneamente – è incostituzionale difenderne i diritti: 100 e più omosessuali (dicono le varie associazioni GLBT tra cui l’ArciGay) parlamentari omofobi (che quindi sono terrorizzati da se stessi) si oppongono ad una legge che equipari i diritti di tutti, senza che gli orientamenti sessuali possano farli discriminare. Visto che finanche papi e preti – storicamente – non hanno incontrato ostacoli e discriminazioni per accedere ai loro alti incarichi nella Chiesa e nella società (anche)  borghese. Vien fatto di domandarsi cosa direbbe oggi PP Pasolini di questa Italia auto-omofoba, xenofoba e celodurista. Un Pasolini che ha pagato con una morte assurda tutto ciò ch’egli è stato, anche – e soprattutto – la sua omosessualità. Destabilizzante, irritante, sconosciuta e imbarazzante per molti, tra cui i suoi assassini. Di conseguenza, visti i fatti di ieri, viene anche da pensare che nel lontano 1973 Pasolini analizzasse il tutto del declino dell’ecclesia da una visione idealistica, profetica ma solo in parte, e comunque una parte troppo sottile e intellettuale per essere profetica del tutto: la Chiesa è presente nella discriminazione degli omosessuali anche oggi. Il potere che Pasolini vedeva in declino è inaffondabile per il patto scellerato tra Stato, Chiesa e politica. Questa è la semplice, banale, goffa e sciocca realtà del Parlamento: non perdere i voti dell’area cattolica manipolata costantemente e inelluttabilmente dalla CEI. Pax e Dico docet. Se Jesus scandiva <<non avrai altri jeans all’infuori di me>>, oggi sembra ascoltare a chiare lettere altri che dicono: <<non avrai altri omofobi all’infuori di noi>>. I rapporti sentimentali, affettivi, familiari sono leciti – per questi omofobi di Stato – solo a patto che a provarli siano due esseri dotati di vagina e membro: una complementarietà assoluta e insostituibile. Loro ne fanno solo una questione di organi sessuali riproduttivi. Funzionali alla sussistenza del sistema politico e religioso, là dove questi due concetti non trovano soluzione di continuità in questa Italia del cazzo. O in questa Italia dell’omosessualità sommersa e quindi laida, atrocemente deforme nella sua oscenità costituzionale, genetica, sporca e sordida: niente spazio dal parlamento e dai pulpiti per la bellezza della verità gridata ai quattro venti. Niente spazio all’orgoglio dell’essere ciò che naturalmnte si è. Niente essere, solo nascondere per godere nel segreto buco del pensiero imploso: il loro “Buco Nero” che tutto risucchia nell’ignominioso atto dell’esistere tra i “normali”, e dove la norma è la pluralità d’ogni cosa e fenomeno della Natura madre che ignorano. È più che mai necessario scandalizzarsi di ciò che ha dato scandalo da sempre: l’ipocrisia. O l’hupokrisis, come affermava Jesus tra i farisei e i sadducei, ma il Cristo quello vero. ὑπόκρισις.

(Per la cronaca, gli slogan “Non avrai altro jeans all’infuori di me” e “Chi mi ama mi segua” furono creati non dal dio mosaico e dal Cristo, ma da Oliviero Toscani e Emanuele Pirella).

Salvatore Maresca Serra

“Orchestra” – Salvatore Maresca Serra

Olio su tela cm 84x139

Olio su tela cm 84×139

Alfredo Meluccio, l’istinto del colore

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Alfredo Meluccio, forse per dar ragione ad André Malraux, diventa pittore
fin da ragazzo non per imitazione della Natura, bensì per amore di altri
pittori, aggirandosi con lo stupore negli occhi per le gallerie degli Uffizi, in
quella magica Firenze dove compie gli studi superiori, ed è grazie a questo
soggiorno che noi oggi possiamo guardare nei suoi dipinti quanto fossero
grandi, già da allora, questo amore, questa passione, questo istinto del colore.
È affatto da giovane che Meluccio si immerge nella bellezza, conservandone
le stimmate per tutta la vita, armonizzandosi anche per gradi tecnici e di
ricerca, speculazione, curiosità, deja vu, proiezione con la sfera psichica del
linguaggio di ciò che chiamiamo Arte. Senza voler perseguire utile altro che
la capitalizzazione interiore di ciò, arricchendosene – senza dubbio – come
farebbe chiunque altri che guardasse oltre la superficie delle cose per
carpirne i segreti, mantenendo intatta la meraviglia di esse per sperimentarne
la sostanza sulla propria pelle. Poi e da solo. E solo per questo.
Per secoli i pittori hanno utilizzato ogni possibile mestiere per sopperire alle
deficienze d’ogni genere e rendere la visione delle proprie opere confacente
ai gusti dei committenti, dei critici, dei mercanti e del pubblico: il mestiere ha
accompagnato la laboriosità indefessa delle botteghe, degli allievi, dei
maestri. Meluccio è un pittore allo stato puro, senza alcun mestiere, senza né
trucchi né tantomeno artifizi, quindi compromessi. I suoi lavori lo rivelano, in
quella nudità dove non sussiste mediazione concettuale o tecnica, ma solo
purezza d’intenti. Il suo obiettivo è sempre centrale: dipingere, ovvero
maneggiare in libertà il colore per sperimentarlo nell’emozione.
Non vi sono altri intenti ed è bene tenerlo presente sempre nella visione delle
sue opere: niente mestiere e solo passione. Diletto allo stato puro, come
affermava Edgar Degas nella Parigi del XIX secolo, quale conditio sine qua
non dell’arte.
Ciò nonostante, Alfredo Meluccio è un affabulatore che talvolta “usa” la
pittura per raccontare storie, ma questa con tutta probabilità è la parte di sé
dove si riveste d’ogni nudità e mette in campo le sue capacità letterarie, che
pur sussistono e scandiscono momenti di racconti di vita, di fantasia e libertà.
Il pittore che non deve sottostare a tutti i costi a coerenze stilistiche si fa
plastico e multiforme, eclettico, a volte contraddittorio, eppure mai
conflittuale: tutto converge comunque sempre in quell’armonia alla quale ci
invita a guardare, oppure ci obbliga quando è impattante nell’estro e diretto.
Come ogni autore Meluccio ha creato un suo mondo di cui è il dominus,
senza vane glorie, senza celebrazione dell’effimero che non sia invece
citazione postmoderna di esso come nell’ultima produzione dove si confronta
col ritratto multiplo femminile, filtrato dalla moda e dalla pubblicità. Di pari
passo, così padrone del suo mondo, Meluccio – quando ne avverte l’esigenza
– non si sottrae al tema sacro, all’uso anche magico del colore, anche
simbolico, spirituale, immergendosi/ci in distese di rossi vermigli e verdi
veronesi, di blu manganesi o gialli cadmi, e così di terre di siena e rossi
veneziani o pompeiani… Conferisce agli incarnati tonalità spesso chiare e
luminose affinché si riflessino dei colori scanditi dagli abiti o dagli sfondi,
una antica maestria alchemico-cromatica che ritroviamo a ritroso nelle tele
dei grandi ch’egli ha studiato e di cui, per puro istinto, si è contaminato.
Meluccio è un pittore interessante e sempre gradevole, dotato di un rapporto
col colore istintuale che fa di lui un’oasi di libertà creativa.

Salvatore Maresca Serra

 

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È in corso fino al 25 Aprile 2014 una esposizione personale del pittore presso la sala storica ex Dogana dei grani ad Atripalda AV.

L’artista è presente nel pomeriggio

2012 in review

I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2012 per questo blog.

Ecco un estratto:

4,329 films were submitted to the 2012 Cannes Film Festival. This blog had 22.000 views in 2012. If each view were a film, this blog would power 5 Film Festivals

Clicca qui per vedere il rapporto completo.

L’IMBARAZZO DELLA SCELTA – Giuseppina Meola

L’IMBARAZZO DELLA SCELTA – Editoriale di Giuseppina Meola

La  parola del giorno è CHOOSY, l’equivalente dell’italiano schizzinoso.
Ho fatto una breve indagine etimologica ed ho verificato che schizzinoso deriva dalla voce settentrionale schizza, cioè naso schiacciato, schiacciato in una smorfia di disgusto.
Molto probabilmente,  anche sul mio volto si è palesata la schizza, quando ho appreso la notizia del ministro Fornero, che biasima i gusti troppo difficili degli italiani, definendoli, di conseguenza, schizzinosi.
Dopo il primo impatto, ho posto maggiore attenzione sul termine esatto usato dalla titolare del welfare con delega alle pari opportunità, tra l’altro.
La Fornero, che, evidentemente, non è l’ultima arrivata, ha impiegato, volutamente, una parola anglosassone, derivato di “to choose”, cioè scegliere.
Questa osservazione mi ha spostata verso un ulteriore profilo d’indagine: la scelta, la libertà di scelta.
In primis, però, voglio ricordare che l’art. 1 della Costituzione, al suo primo comma, recita “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Andando oltre, l’art. 4, sempre della Costituzione, sancisce: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
In poche battute chiare, precise, secche, inequivocabili, come era proprio dei Padri Costituenti, è enucleato un principio fondamentale del nostro ordinamento: il principio lavorista.
In tale sistema, il lavoro non è una qualsiasi attività dell’uomo, ma è uno strumento di realizzazione della personalità e di adempimento del dovere di solidarietà. È un diritto-dovere.
Urge precisare che il lavoro non è un valore supremo di matrice economicistica. Se così fosse, ci troveremmo nella patologica situazione di considerare un minus habens chi non lavora ancora o non più per ragioni anagrafiche, chi non può lavorare a causa delle proprie condizioni psico-fisiche, per esempio.
Il diritto al lavoro è il primo diritto “sociale”, volto ad assicurare a tutti non solo i mezzi di sussistenza , senza i quali anche il godimento di altri diritti verrebbe di fatto vanificato, ma anche la possibilità di inserirsi nel contesto sociale e sentirsi parte attiva della res-publica.
In una società come quella italiana (o europea o anche del mondo occidentale in generale), nella quale il tasso di disoccupazione è elevato e nella quale si soffre per un lavoro troppo spesso poco gratificante, è ancora più forte il problema non del diritto al lavoro, ma di un diritto diverso, che è quello di avere chances al lavoro.
Non si può parlare di pretesa ad ottenere un lavoro con l’aiuto dello Stato (così non saremmo schizzinosi, ma bimbi o bamboccioni di brunettiana memoria da imboccare addirittura!!!). Si discute di un intervento statale –previsto già a livello costituzionale-, che promuova una forza lavoro competente, qualificata, adattabile, da inserire in un mercato del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici.
Come sosteneva Massimo D’Antona, occorre pensare al lavoro non nell’ottica dei diritti soggettivi, ma avendo quale faro politiche economiche in grado di garantire una tutela che assicuri, a chi cerca o tenta di conservare il lavoro, uguali punti di partenza, non di arrivo.
Questa è meritocrazia.
Questa è uguaglianza sostanziale.
Questo sistema offre la vera possibilità di scelta.
Si deve scegliere perché è sintomatico dell’autodeterminazione: vagliare le offerte in quanto  l’occupazione risponde sia ad esigenze economiche sia alla realizzazione della persona sociale, dell’individuo.
Dovremmo essere lontani dall’idea di un’impresa economica e di un lavoro finalizzati al solo incremento della produzione, creando un clima di ostilità tra gruppi, un modello improntato alla preminenza dell’avere sull’essere.
Non è così.
Siamo vittime delle diseguaglianze che alimentano l’insoddisfazione e le spinte disgreganti. Siamo tenuti in scacco non dalla sana competizione, ma dalla fatica del tirare a campare, del vivere alla giornata, per occupare un angusto lembo di terra che offra non gratificazione personale-profesionale, ma risorse per ridurre, ahimè irrisoriamente, il debito col futuro, anzi il DEBITO DI FUTURO!!!
Quale futuro per un chossy qualunque?
Il futuro di un choosy-ricercatore costretto a lasciare l’Italia, perché questa Italia non finanzia la ricerca? (Forse la Fornero ritiene che questo ricercatore sia choosy-schizzinoso dinanzi ad un piatto di spaghetti, che sa poco di pasta in un falso ristorante italiano nei pressi di Harvard, tanto per dirne una?!?)
Il futuro di un choosy-centralinista che, al posto del microscopio e dei vetrini, come da laurea in biologia, ha cuffie e microfono e mi chiama per propormi un nuovo piano tariffario per rete telefonica fissa e mobile? (Forse la Fornero ritiene che sia io choosy-schizzinosa rispetto ad una vantaggiosa offerta all-inclusive senza canone e internet no-limits?!?)
Il futuro di un choosy-lavoratore dell’Irisbus di Flumeri (AV), che protesta perché la fabbrica chiude, non produce più pullman, ma i bus che circoleranno in Italia saranno comprati all’estero? (Forse la Fornero ritiene che sia choosy-schizzinoso il viaggiatore che sale sul pullman, pretendendo solo il posto accanto al finestrino?!?).
Potrei continuare, ma mi fermo.
Mi fermo anche perché so che ci sono tanti lavoratori che, realmente, attendono la manna dal cielo, non si rimboccano le mani e glissano offerte di lavoro. Ci sono mestieri in via di estinzione, quasi fossero panda. È un allarme lanciato a più riprese dalle associazioni di categoria, soprattutto nell’artigianato. Ci sono, poi, mestieri accettati solo dagli immigrati.
Tutto incontrovertibilmente vero.
Però, è altrettanto incontrovertibile che, in piena crisi, da un Ministro del lavoro mi aspetterei un’osservazione meno qualunquista del choosy quale unica etichetta per i giovani italiani considerati in blocco.
Come sottolineato in apertura, la Chiarissima Professoressa ha impiegato il termine anglosassone e non quello italiano perché, in fondo, sa benissimo che, per tanti, per troppi, non c’è scelta.
Non si può scegliere e se non si può scegliere significa che non c’è varietà. È questa un’assenza che implica mancanza di confronto, di dialogo, di crescita.
Questo è sinonimo di stallo.
In un tempo tanto lontano e tanto, tanto, tanto diverso, al suddito schizzinoso, in luogo del pane mancante, avrebbero consigliato di mangiare brioches.
Poiché quello è un tempo passato, guardando al presente, mi chiedo: ma è il cittadino-commensale ad essere schizzinoso o sono le Istituzioni-chef ad aver sbagliato gli ingredienti ed i tempi di cottura?

Giuseppina Meola

L’ESPERIENZA ADATTA – Isabella Goldmann

Giorgione, Le tre età dell’uomo

EDITORIALE – Isabella Goldmann

Ho un debole per i giovani. Non lo posso negare. Più vado avanti, più mi guardo intorno e più mi convinco che questo mio sentimento, a parole condiviso dai più, non trova diffusa applicazione.

La cosa peggiore che sta accadendo ai ragazzi di oggi è l’aver capito di doversi ricostruire la scala di valori da soli. Noi “adulti” non siamo tutti alla loro altezza, o meglio, gli adulti non sono tutti alla loro altezza.

Io mi chiamo fuori dai peggiori perché l’avere avuto figli, oggi ventenni, mi ha sempre tenuta “on” sul pericolo di dare segnali sbagliati. Ma mi chiamo fuori anche dai migliori perché mi accorgo, ogni volta che mi chiedo se ho fatto abbastanza, che no. Potevo fare di più.

La prima cosa che potevo fare, ancora di più di quanto non abbia fatto, è proteggerli un po’ meno, sostituirmi un po’ meno a loro in molte circostanze. O meglio, vigilarli si, ma un po’ più da lontano. Io sono di Vienna, ma profondamente italiana. Il mix austro-mediterraneo li ha salvaguardati dalla maglia di lana e dagli spaghetti in valigia (oddio, nemmeno poi tanto: ammetto di aver spedito all’estero più di un vaso di pesto fatto in casa e di mozzarelle di bufala anche io…), ma non li ha liberati dalla radice verticale nella casa genitoriale. Da mater italica, tutto sommato lo dico con un certo orgoglio. E qui sbaglio.

I giovani di oggi hanno nel DNA (diverso dal nostro) i geni della libertà molto più di noi post sessantottini. Lo si vede in mille espressioni della loro quotidianità: intanto sono tecnologici, e ciò li aiuta a essere in tutto estremamente più veloci, ma soprattutto hanno una struttura etica consapevole, cosa che noi non avevamo. Noi eravamo etici senza saperlo, perché il fatto era scontato: un giovane è sempre etico, non ha bisogno di dirselo spesso. Oggi loro sono etici per scelta quotidiana ripetuta. Cosa che li rende molto più liberi e forti di noi.

Molto di ciò che accade nel mondo e in Italia potrebbe far rinnegare a un giovane la correttezza delle sue inclinazioni naturali: invece no. Oggi assistiamo da parte loro a un crescendo di abilità sociale, di consapevolezza civica che ci oscura: sanno fare network, hanno codici e sistemi di premio/sanzione immediati e condivisi, sanno viaggiare, sanno costare poco e risparmiare. Ma soprattutto sanno porsi, sanno parlare di sé, sanno spingere le proprie convinzioni, sanno (devono) bussare alle porte molto più di quanto non abbiamo saputo fare noi.

Questo io vedo essere da un lato fortificante, e dall’altro fonte di grande insicurezza. Fanno tutto, ma con un fondo sottile di dubbio, di disillusione, di paura.

Oggi io vorrei solo ricordare a loro che questa paura è un carburante meraviglioso per accendere i motori, e a noi che dobbiamo farci da parte. Di nuovo voglio e devo sottolineare, come spesso ha sostenuto Oscar Wilde, che «solo i giovani hanno l’esperienza adatta a governare il mondo». Oggi più che mai.

Nell’immagine: Tre età dell’uomo, Giorgione (1477 ca-1510). Olio su tela, Palazzo Pitti Firenze

Isabella Goldmann – http://www.megliopossibile.com/

TUTTI I COSTI DEI CONSIGLI REGIONALI – Quanto pesano al cittadino

Ecco quanto ci costano i Consigli Regionali, Regione per Regione

A cura di Carlo Manzo

Lazio ma non solo, anche Sicilia, Sardegna e Lombardia fra le Regioni più sprecone. Tra indennità (stipendi dei consiglieri inclusi rimborsi spese, assicurazioni, benefit) vitalizi, somme destinate ai gruppi consiliari e spese per il personale, ecco quanto pesa, regione per regione, la macchina del Consiglio Regionale

LO SVILUPPO O LO SVILUPPO DELLA CORRUZIONE? Giuseppina Meola

L’avvocato Giuseppina Meola

LO SVILUPPO O LO SVILUPPO DELLA CORRUZIONE?

In occasione della recente conferenza internazionale dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico è stato diffuso il rapporto “Italia. Dare slancio alla crescita e alla produttività”.
Il documento e gli studi che ne costituiscono il prius logico-cronologico evidenziano quanto in Italia il livello di corruzione sia superiore a quello della media dei Paesi OCSE.
Il Presidente Monti è intervenuto sul punto stigmatizzando “l’inerzia non scusabile” di alcune parti politiche, che ha ostacolato l’iter parlamentare del ddl anticorruzione.
Non un fulmine a ciel sereno, ma l’ennesimo tuono in una notte buia e tempestosa per l’italica penisola, bagnata dal mare e affondata dalle falle partitocratiche, politichesi e finanziarie.
Un’Italia corrotta nel corpo e nell’anima. Nell’immagine!
Da questo dato preoccupante, ma non nuovo, si può procedere verso una breve riflessione in termini di raffronto tra la criminalità da strada e quella dei palazzi.
Il delinquente “semplice”, il mero mascalzone, che commette reati comuni, più o meno gravi, è considerato un criminale, è il reo per antonomasia, gode di pessima considerazione da parte della società. Ciò fa sì che la commissione di un reato ordinario tenda ad unire la collettività. La “gente onesta” si compatta per esprimere ad una voce la più dura riprovazione nei confronti di un ladro, di uno stupratore, di un omicida.
D’altra parte, il white collar crime ha una forza disgregante, alienante, rende tutti un po’ più monadi alla ricerca di un clinamen che non accenna a delinearsi.
I reati dei colletti bianchi mettono in discussione la legittimità dell’ordine sociale, la fiducia nelle Istituzioni, nella Giustizia, nel “noi” elevato a sistema!
I colletti bianchi appartengono alla classe dominante; un reato commesso da un colletto bianco è un reato commesso da chi ha potere. E’ il reato nelle mani di chi detiene il potere!
La corruzione e le finitime fattispecie penali inglobano la patologia dell’atto del singolo e macchiano il sistema, sporcano tutto e tutti, colpevoli ed innocenti.
Sono espressione del male delle società avanzate, più del traffico di stupefacenti, più del tanto pubblicizzato “delitto passionale”. Sono l’emblema della perversione del privato convinto che solo influendo con offerte, doni o promesse di doni sia possibile aprire le porte sulle meraviglie del pubblico ad uso e consumo ed abuso del privato.
E’ il reato che sale sul trono, che diviene dittatore della democrazia.
E’ il cancro capace d’infettare fasce sempre più ampie e capace di farlo sempre più velocemente.
L’evoluzione tecnologica nelle strutture deputate agli scambi di moneta e titoli, la moltiplicazione delle transazioni finanziarie, le enormi possibilità di connessioni intersoggettive, lo sviluppo del remote banking fanno sparire il provincialotto che porta il cappone all’impiegato piccolo borghese.
In un mondo che è villaggio globale si assiste anche alla globalizzazione della corruzione.
Ecco perché sentirsi dire che l’Italia è più corrotta della media OCSE disgrega ad un livello maggiore: internazionale, sovranazionale.
Non si può e non si deve cadere vittime della logica da erba sempre più verde nel giardino del vicino, ma, allo stesso tempo, non si può trascurare che sentirsi etichettati quali “cattivoni più cattivi degli altri cattivi” ha un peso in termini di fiducia globale, di capacità di attrarre investitori esteri, di spread.
Nel 2013, sulla base dei dati forniti dal Consiglio d’Europa, dall’OCSE e dalle Nazioni Unite nonché da esperti indipendenti, verrà pubblicata una relazione sulle dimensioni del fenomeno della corruzione e sulle buone pratiche realizzate dagli Stati membri dell’UE per contrastarlo.
L’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione, datata 1999!!!
Quale aderente al Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO), il nostro Paese è stato sottoposto a valutazione, sfociata in un rapporto finale nel quale si rileva che, malgrado la determinata volontà della magistratura inquirente e giudicante di combatterla, la corruzione è percepita in Italia come fenomeno consueto e diffuso, che interessa l’urbanistica, lo smaltimento rifiuti, gli appalti pubblici, la sanità e la pubblica amministrazione. Il rapporto rivolge all’Italia ventidue raccomandazioni, suddivise tra il settore della repressione e quello della prevenzione, ritenendo che la lotta al fenomeno deve diventare una questione di cultura e non solo di rispetto delle leggi.
Siamo al cospetto di una minaccia allo sviluppo, alla democrazia e alla stabilità, attraverso la distorsione dei mercati e l’erosione sia del servizio pubblico sia della fiducia nei funzionari pubblici.
Il prezzo della corruzione è alto (circa l’1% del PIL dell’UE). Ancora più alto se letto in chiave sociale tout-court.
All’aumentare della crisi aumenta la percezione ed il collegamento con il dato che è sotto gli occhi di tutti, coinvolgendo il concetto dinamico di cittadinanza, profondamente intriso dell’idea di progresso economico-capitalistico.
Per i giuristi segna il passaggio dai diritti civili a quelli politici e poi a quelli sociali.
Il taglio socio-politico degli studi permette di convogliare una serie di gravissimi problemi che evidenziano, per esempio, la tendenziale incompatibilità dell’economia di mercato in relazione all’affermazione di effettivi diritti sociali.
Nella nostra tradizione giuridica, il nucleo concettuale di cittadinanza è dato dall’appartenenza. Un soggetto è ascritto ad uno Stato e perciò è titolare di diritti e doveri. Se lo Stato è la fonte esclusiva della produzione giuridica, diviene storicamente il garante dei diritti nel momento in cui, divenendo Stato costituzionale, è esso stesso a positivizzare e porre quei diritti.
Oggi evidentemente la sovranità degli Stati è profondamente in crisi, così come il concetto di garanzia dei diritti medesimi.
I surrogati (holding, banche, furbetti vari) non hanno legittimazione di sorta, non offrono l’idea di appartenenza: non si può essere cittadini di una banca, ergo manca chi tuteli effettivamente il cittadino, sempre più in balia di un meccanismo perverso e malato.
La bilancia del potere tra la politica e l’economia, tra i governi e le multinazionali pende sempre più inequivocabilmente a favore delle grandi corporazioni. Come scriveva Willke, rispetto alla politica esse possiedono il vantaggio di un’opzione strategica aggiuntiva accanto a voice e loyalty, quella di exit verso collocazioni più vantaggiose.
La partita si gioca tra lo scetticismo circa le residue capacità di governo delle istituzioni politiche ed il razionalismo giuridico che mira ad uno Stato costituzionale e cosmopolitico, capace di dare attuazione a rivendicazioni anche etiche.
Ecco dunque, l’importanza di una seria presa di posizione del legislatore italiano sul tema della corruzione, al fine di ripristinare o semplicemente rinsaldare l’asse verticale protezione-obbedienza, allo scopo d’impiegarlo come una bussola nella difficile navigazione dei cittadini irrequieti, sradicati, sfiduciati, quasi “meno cittadini”.

Avv. Giuseppina Meola

THE GAY AFTER, ovvero la differenza fra scopare ed avere uno scopo – Enrico Maria Troisi

Lo psichiatra Enrico Maria Troisi

 

Doc3, Rai3, “Prima di tutto” (in ultima serata!?), documento del 19.9 su una famiglia gay che risale la china della conquista del diritto di cittadinanza grazie alla disobbedienza civile di tanti uomini e donne italiani. La salute ed il sorriso di due figli, e il loro diventare uomini, questo era/è l’unico scopo della coppia, oltre alla realizzazione di se stessa. Guardavo, con invidia e nostalgia la coppia e i due figli, avuti dall’utero di una splendida statunitense, coniugata e già mamma, ma, nello stesso tempo, ero attraversato da una profonda inquietudine. Quella di essermi lasciato convincere a non avere più pregiudizi, ora che valori e schemi tradizionali sembrano solo stereotipi. devo provare a falsificare la prova che quella improbabilitá sia normale, come testimoniato dal film. Solo così la considererò un dato incontrovertibile. Per esempio, la coppia gay del documentario è sufficientemente ricca e colta, ha una cospicua rete di fiducia e due famiglie benestanti alle spalle, con regole tradizionali ma senza riserve. Cioè, se puoi contare su danaro, cultura, amici e una robusta famiglia, puoi rovesciare il tavolo. Sennò sarai perlomeno malamente discriminato. Ma queste sarebbero anche le variabili che condizionano la vita di una famiglia tradizionale. Quindi potrebbe essere la poca e maldistribuita ricchezza, materiale e non, a determinare l’anomalia di un’unione gay con figli? In un epoca in cui le differenze di ruolo, sesso ed età tendono ad annullarsi mentre quelle economiche vengono magnificate, parrebbe proprio di sì.

Enrico Maria Troisi

I FIORI INNOCENTI DELL’INVERNO – Salvatore Maresca Serra

Salvatore Maresca Serra

TEOCRAZIA O RATIOCRAZIA – EDITORIALE

Quando parliamo di comunicazione globale ci accade di immaginare prevalentemente il globo usufruttuario del progresso, beneficiario della portata, con tutti i suoi popoli, priva d’ogni barriera, quindi libera: con una parola ancora in uso “moderna”. Dimentichiamo spesso (troppo), noi occidentali e tecnologici, proiettati verso la natività digitale, che la nostra post-modernità convive con il corso storico di altre civiltà, globalizzate di fatto ma ancorate a ben altra globalità: la teocrazia.

I  FIORI  INNOCENTI  DELL’INVERNO

Quando parliamo di comunicazione globale ci accade di immaginare prevalentemente il globo usufruttuario del progresso, beneficiario della portata, con tutti i suoi popoli, priva d’ogni barriera, quindi libera: con una parola ancora in uso “moderna”. Dimentichiamo spesso (troppo), noi occidentali e tecnologici, proiettati verso la natività digitale, che la nostra post-modernità convive con il corso storico di altre civiltà, globalizzate di fatto ma ancorate a ben altra globalità: la teocrazia. Accade che il nostro dio è morto, ma lo abbiamo dimenticato nel coma farmacologico a cui lo abbiamo sottoposto, secolarrizzandolo e relativizzandolo, mentre il dio altrui è bello che vivo: sente, reagisce, presenzia la storia e v’interagisce, è capace di motivare ardentemente anche il supremo sacrificio, la vita, e attende i suoi figli martiri nel paradiso con la sua riconoscenza tangibile. Noi non ci scandalizziamo più di niente, chi ha un dio vivo sì. Noi siamo in un corpo inscalfibile perché morto agli dèi e rinato alla neodèa Ragione rivoluzionaria, non abbiamo quindi più il divino dietro o dentro le istituzioni civili, stati e rupubbliche e leggi. Non c’indigniamo neanche se il nostro comatoso dio viene fatto accoppiare e riprodurre biologicamente, o se viene tentato per l’ultima volta sulla croce, o se diventa una pop star in una commedia rock. E, in ogni caso, quello che resta nel laico del religioso è solo un dio d’amore supremo, che si offre al martirio e alla morte di croce, e che predica insegnando la non violenza perché il suo regno ultramondano vale di più di questo, ammesso che (questo) non sia solo il regno della corruzione del pensiero forte, quindi, nel post-moderno, diventato filosoficamente debole per forza di cose. Le nostre verità vacillano ormai da una sponda all’altra della logica come risposta fisiologica agli assoluti mendaci di un passato sorpassato. L’emancipazione dalla fede ci ha resi credenti neopagani, e così i nostri miti sono nostri contemporanei, possiamo ascoltarli ai concerti e magari strappargli un autografo, possiamo addirittura ancora e nuovamente anche accoppiarci, con questi dèi di un olimpo patinato, markettizato, in vendita. Senza dimenticare che il primo dio posto in vendita nell’occidente è stato precipuamente quello che concedeva indulgenze e perdono a pagamento, nell’enorme operazione di marketing di Leone X e dei frati domenicani. A nulla sono valse le proteste e le tesi di Wittenberg: ormai la vendita era irreversibile. Ciò ci ha resi tutti in vendita: puttane ansiose pronte al miglior offerente,  che ha il suo nome nel “profitto”, e la sua identità nella reificazione. E, di profitto in profitto, abbiamo incorporato nel nostro corpo debole le moschee di un dio vivo, le sue comunità di fedeli, le sue culture e subculture sfaccettate, il suo petrolio-sangue indispensabile, abbiamo anche rimosso dalle scuole il nostro povero dio crocifisso, quando ci è stato detto che tenerlo appeso costituiva un atto antipluralistico. Noi occidentali siamo sempre più riproiettati nell’imitazione dell’impero romano: lasciamo convivere le religioni e le culture e gli uomini senza volerli deformare, non c’interessa farlo, e poi perché, cui prodest? Basta che paghino le tasse, siamo protesi a dargli cittadinanza, a immetterli nel corpo civile, a occidentalizzarli depotenziandoli con i diritti, i piaceri industriali, l’infinità dei desideri pubblicitari, e dulcis in fundo con la professione di fede democratica: il libero pensiero.

Noi siamo laici. Pluralisti. Democratici. Liberi.

Ma siamo certi che tutta questa libertà gl’interessi davvero? Siamo altrettanto certi che il loro dio o il loro profeta siano entrambi inclini a prostituirsi anch’essi? Oppure, siamo in condizione di offrirgli una vera libertà? Di esemplificarla? E poi: cos’è la libertà?

Quindi se il mondo multietnico che abbiamo teorizzato con la globalizzazione ci si rivolterà in pancia, con la Medea di Seneca, dovremo dirla tutta: cui prodest scelus, is fecit…

Nel mio romanzo d’esordio – Il Costruttore di Specchi – in uscita l’anno prossimo, ho trattato della comunicazione di massa, della rete, delle religioni, delle verità contrapposte tra esse. Così ho posto una serie di domande a me stesso e al lettore, e tutte vertono su una sola cosa: l’equilibrio del mondo contemporaneo. Quanto è forte? Quanto è fragile? In quanto tempo può modificarsi? In relazione alla comunicazione globale, ho intravisto scenari nei quali le guerre acquisiscono nuove e impensabili armi come un semplice piccì e una connessione internet, a patto che li si sappia usare. Le risposte probabili a questi nodi sono sotto gli occhi di tutti: sono i fatti e non le idee. L’ideazione la fa il mondo, nel suo proprio caos perfetto. Produce fatti alla velocità digitale. E ne conserva all’infinito la memoria, almeno fino a che i server resteranno in vita. Perché di vita si tratta. In un passaggio della trama ho sfiorato anche la profezia Maya. Mi sono chiesto se le condizioni dell’estinzione della specie umana, la più predatrice e assasina di tutte, siano più presenti oggi che in precedenti periodi storici. Al di là delle condizioni cosmiche, delle catastrofi naturali, e del destino dei calendari, caduti nelle mani dei gesuiti. I fatti di questi giorni sembrano indicare che le condizioni per una guerra globale ci sono tutte. Affatto, il progresso tecnologico ha percorso una serie di avanzamenti segmentati ognuno con una sua comune stimmata: il disinteresse verso le multiple implicazioni. Gli effetti della globalizzazione asincroni, la discrasia sistemica dei vecchi poteri inoculata dalla nuova consapevolezza della comunicazione di massa, tra le culture mondiali, tutti gli elementi indispensabili ad uno squilibrio che si pone nella genesi della nuova comunicazione-partecipazione interattive: essi sono gli elementi. È normale che gli elementi vi siano, là quando e dove nasce una nuova cultura del comunicare. Un bigbang dello stare insieme. Insieme nella stessa stanza del mondo: la propria, seduti davanti ad un computer che contiene l’intero mondo.

Ma ormai è obsolescenza anche la stanza. Le guerre si fanno coi telefonini di nuova generazione, camminando, fotografando per tutti, filmando, scrivendo, comunicando.

Se c’è un paradosso lampante è che non siamo affatto nella babele, ma di contro in un linguaggio universale. Ognuno capisce perfettamente il sublinguaggio dell’altro. Ognuno spia le debolezze del sistema altrui. Ognuno cerca di controllarle e metterle a frutto.

È storia di adesso.

La storia di un video che ha compromesso definitivamente la potenzialità di specchiarci gli uni negli altri. Gli specchi si sono rotti. Il progresso si è frammentato in due schegge precise. La dualità riemerge. È il momento dell’assoluto. L’assoluto è forte. Manca di autocritica, e la sua forza – da sempre – è questa. Il divino – nella sua cronica condizione pre-storica – è preistorico. Non ragiona perché la dea Ragione non la conosce. Il divino uccide. Il divino condanna senza appello. Il divino ha ancora un popolo, e non siamo noi.

Non verrà quest’anno la fine del mondo? Chi può dirlo? Non verrà, ne sono certo. Ma le condizioni le abbiamo create noi, e sono lì, tutte pronte per usarle. Se i gesuiti incendiarono o inquinarono ogni possibile residuo delle conoscenze Maya, una cosa – anche senza la speculazione new-age – ci è giunta. E non ci piace.

Non siamo preparati a lottare contro un dio. Non lo saremmo mai. Certo, abbiamo ghigliottinato l’ancien régime con la nostra dea Ragione per procedere poi ad affermare libertà, fraternità e uguaglianza. Ancor prima i papi hanno riconquistato il santo sepolcro strappandolo con la guerra giusta di Agostino agli “orribili musulmani”. E, tra santa e giusta, ci è sembrato che fosse la giustizia ad uscirne vittoriosa. Abbiamo anche assegnato una patria a Sion, prima durante e dopo la shoah. La nostra sentinella, il nostro avamposto nel mondo di Maometto. L’abbiamo dotata di termonucleari. Abbiamo puntualmente derubricato ogni sua inadempienza ai trattati ONU territoriali con la Palestina. Abbiamo così forse parteggiato per il dio degli eserciti, ma il sincretismo religioso ci è sembrato una soluzione ideale per affermare con Giovanni Paolo II che, in fondo, Dio è Uno. Soltanto uno. Gli immensi e indecodificabili intrecci dei capitali ebraici non ci sono sembrati mai nemici, e nel nostro immaginario l’escalation nucleare bellica di Israele non ci ha mai visti veramente turbati, a differenza di quella iraniana, o della presunta e posticcia irachena; entrambe minacce insopportabili che hanno turbato e turbano i popoli a cui apparteniamo. Avevamo un trattato di non proliferazione nucleare che ci metteva al riparo. Credevamo. E, se non bastava, le false prove di Tony Blair ci hanno permesso di rimuovere il dittatore Saddam Hussein e di bombardare democrazia intelligente come pacco regalo ai civili. Se guardiamo attentamente l’Iraq di allora e quello di oggi, i risultati civili sono lampanti. La difficoltà connaturata alla nascita e crescita della democrazia ci fa dire che poi, tutto sommato, se scoppiano ogni santo giorno i corpi e le vite di centinaia d’innocenti è tutto sotto controllo, tutto regolare, storico, plausibile, giusto, il prezzo è giusto. È sempre la dea Ragione che ci anima e ci esenta dal poter anche pensare che ogni cultura forse trova il suo naturale equilibrio da sola. E che, forse, la nostra valorosa  e sanguinaria democrazia ha solo dato la stura a infinite e interminabili lotte tra etnie e fedi e politiche diverse, che nella libertà hanno trovato il loro campo aperto di battaglia. Ormai non riusciamo più a tenere il conto dei morti, mentre non ci sfugge mai quello dei nostri soldati, che abbiamo mandato lì per istruire sul posto alla pace, al non confliggere, alla stabilità della politica, alla cultura delle elezioni e dei governi autonomi democratici. In Afghanistan abbiamo cercato in lungo e in largo Osama Bin Laden, con azioni militari degne di un film di fantascienza, penetrando finanche il sottosuolo e le caverne con le nostre bombe magnifiche e magnificenti. Mentre i droni hanno dimostrato tutta la loro impagabile intelligenza sterminando decine di migliaia di civili d’ogni età. Abbiamo isolato i talebani rendendoli inoffensivi politicamente. Abbiamo posto alla presidenza un uomo pulito e fuori da ogni logica del crimine… Se non siamo del tutto riusciti a smantellare le coltivazioni dell’oppio, forse è perché abbiamo una forma di partecipazione umana al dramma economico di quei poveri contadini, o chissà, forse ci saranno altre ragioni. Ragioni, ragioni, ragioni. Sono tutte ragioni. Abbiamo ragione, sì: noi abbiamo sempre ragione. I torti non sono mai i nostri. Basterebbe leggere anche superficialmente Noam Chomsky per rendersene conto. Se anche è stato un insuccesso il nostro in Afghanistan, con migliaia di nostri concittadini giovani soldati, a volte rimasti uccisi, da sporadici attentati, ci siamo tolti gli schiaffi dalla faccia quando Osama lo abbiamo preso, ammazzato a casa sua, sbattuto sulle pagine dei giornali di tutto il mondo e sulla rete di tutti. La Ragione ci ha dato ancora una volta ragione. Ad libitum, ancora “forse”. E, se tutto si compie in stagioni pre-elettorali o elettorali, neanche ci sogniamo di analizzarle, le ragioni. Sogniamo d’essere fatti della stessa sostanza della realtà, scriverebbe oggi in una nuova tempesta William Sheakspeare. E avrebbe anch’egli ancora ragione. Netanyahu minaccia Obama di spostare i voti degli ebrei nell’Ohio e in Florida a Romney se non scenderà affianco ad Israele in guerra all’Iran? Questo potrebbe farci ipotizzare che dietro il filmaccio che insulta Maometto vi possa essere una strategia compulsiva a latere ebraica anti-islamica, e che potrebbe anche essere concordata con Romney? Sono “ragioni” queste?, mi domando. E perché dovrebbero interessarci più di tanto? Non è forse dotata di automatismo asettico e impersonale la Ragione che “anima” noi occidentali? Abbiamo questione etiche che ci tolgono il sonno? Abbiamo capacità di scegliere concrete? Noi, per esempio italiani, abbiamo avuto qualche chance di scelta per l’avvento di un governo di tecnici?, e di un presidente del consiglio che proviene da Bilderberg – http://www.bilderbergmeetings.org/index.php, Goldmann Sachs – http://www.goldmansachs.com/, Trilateral – http://www.trilaterale.it/, Moody’s – http://www.moodys.com/ e chi più ne ha ne metta? La ragione dovrebbe fornirci una risposta: infatti è “No!” Ma quanto è razionale questa risposta? Quanto è democraticamente plausibile che un presidente della repubblica che occulta i suoi dialoghi con un indagato, e sospettato da molti di mafia può anche decidere chi deve governare il paese? Ed è accettabile? Se non gli interessa lasciare in eredità ai suoi successori un fulgido esempio di trasparenza, ci domandiamo perché – se tanto gli sta a cuore la democrazia quella vera – vuole lasciare tutto il suo conflitto di competenza, invece? Troppo potere ai magistrati impegnati nella lotta alla Mafia? Isolarli ancora di più è democraticamente corretto? Non coincide forse col deprivarli d’ogni scudo delle istituzioni dello stato? E perché il presidente minimizza enfaticamente il boom del Movimento 5 Stelle? Non è forse il fenomeno più interessante e problematico che emerge nel paese? Un presidente della repubblica italiana non dovrebbe essere invece un acuto osservatore e ratificatore delle realtà che si fanno strada dal basso verso la politica? Non dovrebbe non perdere mai l’occasione d’essere il primo a prenderne atto in nome di tutti i cittadini? In nome della Storia? E non dovrebbero i nostri media centrare – visto che sono veramente bravi – il vortice attorno a cui si rende possibile il fenomeno Grillo? Non è forse la rete e la comunicazione globale quel medium affrancato dalla istuzionalizzazione data dalla televisione ai fatti che dovrebbe farci toccare con mano che, quando si parla di rinnovamento, bisogna non uscire mai nel ragionare dal “del veicolo oltre che della sostanza”? Non potrebbe essere che solo chi ha in mano e tiene stretto il veicolo mondiale nuovo della partecipazione può avere un futuro, da qui a qualche breve anno? E questo non dovrebbe determinare una nuova consapevolezza anche nei partiti e nei media dell’establishment mainstream? E, da qui a qualche anno, non saranno forse defunti realmente quelli di cui Beppe Grillo dice “vi seppelliremo”, con la loro clientela storica? Siamo troppo vecchi per scorgere il nuovo del rinnovamento, in Italia? Probabilmente, chi dovrebbe accusare il dovere (ché così accade coi doveri) verso se stesso e i suoi elettori di cavalcare l’onda del vero rinnovamento parla di rottamare senza sapere di cosa parla. Non sono stati i trasportati dai carri, ma le ruote la grande rivoluzione del genere umano, perché potevano salirci tutti, sulle ruote. La ruota contemporanea è destinata a far girare il mondo intero, come abbiamo visto. E si chiama internet. Può creare una democrazia liquida? Voi che dite? Diretta? Voi che dite? È così difficile fare una previsione a breve? La “maledetta primavera che fretta c’era” scritta da molti su Twitter di cinque giorni fa, primavera o non primavera, non si è affermata nella e con la rete e con i cellulari? Allora, al di là della sostanza, quanto vale la nuova ruota?  Le prime elezioni di Obama, e quelle di adesso, dove corrono?, sui fili del telegrafo? E non è stato il petrolio a cambiare il mondo dal secolo scorso in pochi anni definitivamente?

Non ragionare della tecnologia, non investire nella ricerca, non curare la scuola pubblica significa trascinare un popolo nella stessa propria morte cerebrale. Quello che ha fatto l’ultimo governo Berlusconi agli italiani vale esattamente in termini negativi: dobbiamo interrogarci sulla quantificazione oggettiva del valore di ciò che Berlusconi non ha fatto in questi anni. Ed è presto fatta la stima: la risposta è la posizione dell’Italia nell’Europa, con un governo di tecnici. In parole povere, il massimo possibile del peggio che Berlusconi e la sua inconsapevole (ma non incolpevole) ignoranza ha prodotto. Quella stessa che gli fa pronunciare goo-gle al posto di gu-gh-l…

La stessa inaccettabile ignoranza muove Mario Monti verso l’attacco allo statuto dei lavoratori. Anche qui la questione resta la pronuncia dei nomi: statuto dei lavoratori ha un suono civile, sanguinoso, storico, patriottico, italiano-puro in assoluto; per Mario Monti statuto dei lavoratori ha un suono cachettico da prolasso neuronale, amorale e immorale al contempo, sordido e subdolo come tutte le cose che pronuncia, anche sorpassando Berlusconi nella cacofonia etica di un italiano-spurio senza patria e storia. E, se abbiamo un governo senza storia né patria, che storia è questa? Dobbiamo chiederlo a Napolitano? Ad ABC? O piuttosto non possiamo domandarlo al nostro cuore ché alla Ragione? Quanto populismo vi è stato nell’inneggiare a un presidente non politico? Molti hanno ravvisato in questo uno slancio civile di onestà perché super partes. Li ho visti, li ho ascoltati per strada, nei luoghi che frequento, ovunque. Erano prevalentemente persone di mezza età, o anziani, dicevano in coro “sa il fatto suo”, “è uno onesto”, “basta politici, ci voleva Monti”, “un dono dell’onestà di Napolitano al Paese”… Ma ora siamo al redde rationem, e i dati ci dicono cosa ha fatto Monti per noi tutti, questa volta chiediamo alla ragione.

Ognuno può e deve rispondersi, ma non con un cor duplex.

Monti è super partes?… O non piuttosto è super partners?… I suoi naturali partners, per colpa o per ignoranza, siamo noi. I cittadini. Ripeto: la Ragione nel nostro mondo è solo un automatismo. Non ci vede protagonisti. Non abbastanza da sopravvivere ai soprusi. Non abbastanza da avere anche noi un dio che ci fa scendere in piazza e fare la rivoluzione. Magari un dio non preistorico, ma dentro la storia. Lo stato, per molti, è una entità distinta dalla nostra, con soluzione di continuità. Perché la soluzione è stata resa troppo facile, e quel po’ di benessere che ci hanno fatto introiettare si è reso efficace per rinunciare nonsolo all’identità, ma al pensiero. Si sa: i cani alle mense dei potenti non pensano: aspettano solo quell’osso a cui attribuiscono anche funzioni taumaturgiche che gli verrà lanciato, tra oscene risate, nell’orgia del baccanale politico. E siamo all’osso ormai. E, molti tra noi, sono stati cani. Molti ancora lo sono e lo resteranno.

Se c’è una menzogna è giudicare populista la ribellione del cittadino. La sua voce che si vuol far passare per isterica, per demenziale, per comica o capocomica o capofallica. Va da sé che siamo tutti teste di cazzo per i potenti, e da tali ci trattano. Quando la Merkel e Monti, come un suono e una meccanica eco, dicono “c’è il pericolo di nuovi populismi e disgregazioni nell’Europa”, stanno dicendo “guardate, che c’è il pericolo che le teste di cazzo si sveglino, che comincino davvero a ragionare, perché gli ossi stanno finendo, e questi vanno verso il potere”…

Grillo e Berlusconi sono come la Terra e la Luna. Grillo raccoglie da terra quello il senno di Berlusconi, nell’ampolla sulla Luna, ha seminato gettandolo. I cittadini morti-macerati nella terra ora fioriscono, e danno frutti. Sono semi figli d’altri semi gettati da sempre perché non valgono nulla per il politico medio. La politica non può permettersi programmi e ideazioni lungimiranti, la società civile sì! Se Monti e Casini e Fini e altri s’inventano un nuovo degasperismo e si riempiono la bocca di statismo, di una attenzione alle nuove genrazioni, è solo perché non vedono che le nuove generazioni sono già qui. Non potrebbero: la sete di potere li rende ciechi, stolti, inutili, dannosi, perniciosi, ottusi, idioti. Sine baculo. Il solo potere che gli rimane si regge solo su se stesso, nel palazzaccio che dice Renzi, sfortunatello, ma che non distingue dalla sua casa. E se si rivolge ai mentecatti-delusi di Berlusconi è perché attua un autentico neopopulismo nel definirsi “giovane”. Renzi ha perso il suo treno: non sarà mai giovane quanto lo è la storia. Perché finge di non vederla. Lo dico con simpatia, ma in realtà dico la cosa peggiore che posso perché non posso altro: fingere e peggiore ch’essere davvero ciechi. Il sogno di Renzi è essere qualcuno. E chi sogna questo è perché sente di non esserlo, e profondamente. Chi oggi “è” non ambisce ad una società verticale. La piramide lascia il posto ad uno scenario liquido, paritario e paritetico alla sua propria interscambiabilità e al suo rinnovarsi di continuo. È tardi per tornare indietro, anche per Renzi che proclama il mandato dei cittadini nella politica limitato. Ma sa bene che le sue ambizioni sono lungimiranti, se in realtà non fossero anacronistiche. Quando dico “sfortunatello” non è per dileggiarlo, ma perché appartiene ad un mondo in disfacimento. Ed è tardi per tornare indietro. Se anche ce la facesse, se raccoglierà il consenso che merita la sua intelligenza, o la sua furbizia, la sua problematica diventerebbe insopportabile. Il partito ritorna ab ovo usque ad mala. E mi sembra che siamo alla frutta. Quelli che sopravviveranno saranno sauri nei musei di scienze naturali del giurassico, da qui a poco. La sola forma futuribile è il movimento delle opinioni. Le strutture partitiche piramidali, i dirigenti, i moduli molecolari dell’architettura gerarchica territoriale, dal basso all’alto e viceversa sono fantasmi per buona metà o tre quarti. L’opinione in rete li scardinerà del tutto: frammenti di un passato obsoleto.

Avremo sempre più rapidamente un contrapporsi di obsolescenze paradossali nel mondo. Superata e a-funzionale sarà la democrazia come l’abbiamo immaginata finora. Le sue anime conservatrici repubblicane o la destra, quelle progressiste o la sinistra con tutta probabilità e in breve si ritroveranno disarticolate da una società civile a cui non interessa minimamente né stare a destra né a sinistra, e che – dove c’è ancora – ha capitalizzato già da tempo la fregatura del centro.

Il paradosso emergerà dal contrasto stridente tra un mondo evoluto e democratico e un altro che giudichiamo medievale, perché fanatico, teocratico, che ignora del tutto la libertà, i diritti, la secolarizzazione del clero, lo stato laico. E quindi la nostra dea Ragione. Eppure il loro dio cammina nuovamente su gambe giovani, e forse, per questo, “innocenti”.

E la loro primavera non a caso rischia di fiorire in inverno, il nostro inverno.

E non è quella che avevamo immaginato.

Salvatore Maresca Serra – Roma, 17 Settembre 2012

BUONI PROPOSITI – Isabella Goldmann

L’architetto Isabella Goldmann

LA GIOIA DELLA FINITEZZA – Editoriale

Inutile nasconderlo: il vero nuovo anno inizia dopo la lunga pausa estiva dal lavoro. E come tutti gli inizi, è accompagnato da nuovi ferrei propositi.

Che fine sono destinati a fare? Possiamo fornire molte risposte, a seconda del tempo che concediamo a ogni proposito per finire nel cestino.Secondo una ben nota ricerca della Università di Hertfordshire, tornati dalle vacanze ci presentiamo generalmente alla nuova vita con cinque gettonatissime convinzioni lapidarie: che riusciremo a perdere peso, a fare più esercizio fisico, a smettere di fumare, a fare tutto il lavoro previsto nei tempi giusti senza ridursi all’ultimo momento, e a lavorare sostanzialmente meno. Tutto questo perché fortissimamente lo vogliamo, e abbiamo deciso stavolta di impegnarci davvero.Non ci riesce quasi nessuno anche se, immancabilmente, ogni anno ci riprova. Il motivo per cui solo in terzo degli stakanovisti riesce (parzialmente) nell’intento è perché ha messo in pratica una furbizia che, a pensarci bene, è il segreto di ogni successo: la politica dei piccoli, anzi, piccolissimi passi.

Devo perdere 5 chili? Entro questa settimana voglio perdere un etto. Se ci riesco, faccio una festa (magari non a base di lasagne…). E via di questo passo.
Devo leggere 840 fascicoli entro lunedi? (oddio, se mi trovo in questo stato, forse i problemi sono più di uno, e di varia natura…): ne leggo tre al giorno, e gli altri…pazienza. Il segreto sta nel scegliere i tre giusti ogni giorno, ossia quelli che tra tutti, portano il beneficio maggiore.

Come diceva Oscar Wilde, «i buoni propositi sono inutili tentativi di interferire nelle leggi scientifiche». Ma lo diceva solo perché quando facciamo un buon proposito, questo di solito è gigantesco e quasi inarrivabile.

Se ci persuadessimo finalmente di non essere un dio (per molti questo potrebbe rappresentare un problema), scopriremo la gioia della finitezza, ossia la sorpresa di avere un limite. Nulla di più rassicurante.

Dietro il concetto di limite si declina l’essenza tutta della Natura nella sua espressione più nobile. Tutta l’evoluzione, a qualunque cosa si riferisca, si basa sull’allontanamento o estensione del limite, ma non nella sua negazione. In parole povere, dato un obiettivo importante, questo va frammentato in obiettivi consecutivi di breve periodo, molto piccoli e ravvicinati. Da accompagnare sempre con un piccolo premio. Piccolo, e possibilmente virtuale: un sorriso, un buon film, una bella telefonata, un bagno caldo.

Non basta? Allora è questo il territorio su cui dobbiamo lavorare di più: scoprire che un premio, per essere considerato tale, non è necessario che sappia di cioccolato, che abbia il tacco 12 o che contenga le ultime app.

Isabella Goldmann

Ecco la lista segreta degli abusi edilizi. Da vip a calciatori passando per Ama, Acea e Comune – Oggi querele contro Francesco Barbato per l’interrogazione parlamentare

In seguito all’interrogazione parlamentare del deputato Idv Francesco Barbato, vi riproponiamo il contenuto di un aricolo apparso su La Repubblica, che denuncia migliaia di abusi edilizi nella capitale. In questi giorni Barbato ha interrogato sulla presenza di un ristorante addirittura presente negli scavi archeologici di Paestum. Il risultato è una minaccia di querela da parte del sindaco di Capaccio. Dal sito di Francesco Barbato http://www.francobarbato.com/fb/it/1028-scavi-paestum-le-prime-reazioni-alla-mia-interrogazione

“In seguito alla mia interrogazione parlamentare in cui ho denunciato la presenza di un ristorante all’interno degli scavi, dove peraltro il canone di locazione è irrisorio, il sindaco di Capaccio ha risposto definendolo un ritornello già sentito. “Si tratterebbe solo di un abuso risalente agli anni ottanta per il resto è tutto regolare, farò querela al deputato Barbato e dei soldi che otterrò di risarcimento farò beneficenza” come riportato da La città di Salerno. Sarà la magistratura ad accertare la regolarità del caso, nel frattempo spero che l’opinione pubblica si renda conto che siamo stanchi di privilegi e abusi di potere.”

Ecco la lista segreta degli abusi edilizi. Da vip a calciatori passando per Ama, Acea e Comune

ROMA – C’è chi si è costruito un box nel parco di Veio, chi ha ampliato la terrazza vista fontana di Trevi, ci sono preti, vip, calciatori. Il quotidiano ‘La Repubblica’ pubblica oggi una “lista nera” di abusi edilizi nella Capitale, dal centro ai parchi pubblici. Una lista di nomi, tra cui comparirebbe anche il Comune di Roma, che avrebbero fatto abusi edilizi in aree con vincoli strettissimi. Secondo quanto scrive ‘Il Corriere della Sera’, due settimane fa un blitz della polizia giudiziaria all’ufficio condono di Roma avrebbe portato al sequestro di cinquemila pratiche.
La lista “segreta”, scrive ‘La Repubblica’, è contenuta in due cd creati dalla società Gemma Spa all’epoca del condono edilizio del 2003 e sequestrati due settimane fa all’Ufficio condono edilizio. All’interno dei due cd sono contenute tutte le 85 mila richieste di condono che arrivarono allora, le foto aeree di quegli abusi e la valutazione sulla possibilità di concedere o meno il condono. I cd, scrive ‘La Repubblica’, sono stati consegnati dalla società Gemma ad Alemanno nel giugno scorso e scorrendo quelle liste, secondo il quotidiano romano, si trovano 12mila casi di abusi che Gemma ha considerato non condonabili. Solo, fa notare ‘Repubblica’, per quegli immobili il Comune di Roma non ha proceduto nè all’abbattimento nè all’acquisizione. Tant’è che, secondo il quotidiano romano, la procura di Roma si è accorta che qualcosa non va e pochi giorni fa ha sequestrato, negli archivi di Gemma, 5000 pratiche fuori termine. Vuole capire perché non sono state notificate ai proprietari.
Ma vediamo chi si celerebbe dietro queste “liste nere”. Scrive ‘La Repubblica’: “Tra chi ha provato a fare il furbo chiedendo il condono per una struttura costruita ampiamente dopo il 31 marzo 2003 – i cosiddetti “fuori termine”, circa 3.712 pratiche – spunta il nome di Luigi Cremonini, l’imprenditore modenese leader nel commercio della carne e proprietario di tre catene di ristoranti, che dal giorno alla notte si è costruito una terrazza modello villaggio vacanze in uno dei punti più pregiati di Roma, di fronte alla fontana di Trevi. O come Federica Bonifaci, figlia del costruttore Bonifaci (anche editore del Tempo) che ha dato un’”aggiustatina” alla sua casa ai Parioli. Di vip o anche solo di personaggi e istituzioni in vista nell’elenco ce ne sono a volontà. Si va da Maria Carmela d’Urso, alias Barbara d’Urso al calciatore nerazzurro ed ex laziale Dejan Stankovic, da Luciana Rita Angeletti, moglie del rettore della Sapienza Luigi Frati, all’Istituto figlie del Sacro Cuore di Gesù”.
“Le congregazioni religiose hanno una certa dimestichezza col cemento – scrive ancora ‘La Repubblica’ – Nella lista nera figurano le Suore Ospedaliere della Misericordia, la Procura Generalizia delle Suore del Sacro Cuore, quella delle missionarie di Madre Teresa di Calcutta e la Famiglia dei Discepoli della diocesi romana. Non mancano i templi dove la Roma bene ama riunirsi per celebrare i suoi riti di socialità. Il Parco dè Medici sporting club, il country club Gianicolo, il Tennis Club Castel di Decima, la discoteca Chalet Europa nel parco di Monte Mario. E nemmeno le ville mono e bifamiliari con piscina dell’alta borghesia, cresciute come gramigna nel parco di Veio, ai lati di via della Giustiniana, la strada più abusata di Roma. Ancora, scorrendo la lista balzano agli occhi decine di società immobiliari, alcuni distributori di carburante della Esso e la sede centrale della “Fonte Capannelle Acque Minerali” nel parco dell’Appia Antica. L’aspetto più buffo o forse drammatico è che nell’elenco dei più furbi tra i furbi compaiono anche molte aziende comunali di servizio, come l’Ama, l’Acea e addirittura Risorse per Roma, la municipalizzata che da gennaio ha il compito di occuparsi proprio delle pratiche di condono“.
Poi, secondo ‘La Repubblica’, ci sono gli abusi edilizi nei parchi pubblici, su cui grava un vincolo ambientale strettissimo. Secondo il quotidiano romano, ad essersi reso artefice di un abuso edilizio, sarebbe stato anche il Comune di Roma che avrebbe poi chiesto a se stesso un condono pur sapendo fosse impossibile ottenerlo. “La manovra serviva a ‘legalizzare’ – si legge – un’opera abusiva in via del Fontanile di Mezzaluna, in pieno parco del Litorale romano dove i limiti all’edificazione sono strettissimi”. Tra gli altri nomi presenti nella lista di questi abusi nei parchi, si legge su ‘Repubblica’, ci sono “Tosinvest spa, la finanziaria della potentissima famiglia Angelucci, i signori delle cliniche private nonché editori di Libero e il Riformista. A nome di Tosinvest spa ci sono tre domande di condono per una struttura aziendale nel parco dell’Appia Antica. In quello di Veio c’è un abuso a nome di Acea Spa, il colosso dell’energia e dell’acqua per metà pubblico (proprietà appunto del comune di Roma), in parte nelle mani del costruttore Francesco Caltagirone“.

L’articolo riprende La Repubblica del 11 marzo 2011

 

ASPETTO IL SOLE – Maria Pia Monicelli

Aspetto il sole

Mi ritrovo in un gioco all’abbaglio, un diversivo per gli dei, gli stessi che demolimmo addobbati da giganti.

La giostra nuova reclama cavalieri adusi al luccichio dei ferri e non dei lustrini che mascherano bombe.

Aspetto il sole!

La maschera di latta si scioglie al sole cocente della verità e non sotto la luce fredda della retorica.

Siamo una società asociale, un nucleo frammentato di gente votata alla sodomia.

Ci piace gracchiare come cornacchie ma al primo ostacolo vero diventiamo struzzi addormentati.

La mia impotenza reclama una breccia. I miei ideali, le mie ragioni, devono uscire, volare insieme a quelle di altri candidati all’utopia, fuori da questa gabbia di matti! Fuori dal delirio di onnipotenza di una classe dirigente del nulla.

Non sono votata al suicidio e grazie ad un pizzico di follia neanche ad essere il bullone di una macchina da guerra. Non mi piace l’isolamento ma neanche essere parte di una folla assente: sono un essere umano!

Potrei svegliarmi come un automa, mettermi in fila all’idiozia che supera ogni cattiveria, o morire da aliena caduta su questo suolo inquinato dove la salvezza appartiene soltanto ai morti. Alla prossima alba, me ne renderò conto, intanto annaffio l’unica piantina rimasta sul balcone e aspetto il sole.

Maria Pia Monicelli

PAPE SATAN, PAPE SATAN “ALEPPO” – Enrico Maria Troisi

PAPE SATAN, PAPE SATAN “ALEPPO”.
Ho preso in prestito deformandole, le famose parole pronunciate all’indirizzo di Virgilio e Dante da Pluto, guardiano del quarto cerchio nel Canto VII della Commedia, : “Pape Satàn, pape Satàn aleppe”. Secondo una delle tante interpretazioni la frase, molto oscura, potrebbe derivare dall’Arabo. Abbūd Abū Rāshid, primo traduttore arabo della Divina Commedia interpretò questi versi come la trasformazione fonetica di una espressione araba, traducendoli in arabo come Bāb al-shaytān. Bāb al-shaytān. Ahlibu (“La porta di Satana. La porta di Satana. Proseguite nella discesa”). I versi pronunciati successivamente da Virgilio in risposta alla oscura minaccia del Guardiano, tendono a rassicurare l’ormai terrorizzato Dante: Non ti noccia / la tua paura; ché, poder ch’elli abbia / non ci torrà lo scender questa roccia. Il richiamo all’inferno della guerra civile in Siria mi è sembrato perfetto. La Commedia sembra calzar bene ad Assad e a pennello per i Ribelli. Pluto incita, sfida i Poeti ad affrontare il terrore e Virgilio esorta ancora Dante al coraggio. Mi ha colpito la determinazione del tiranno Assad nell’ordinare la distruzione della sua gente e della sua terra, e la forza, altrettanto cieca, che ne ha ricavato il popolo in rivolta. Tutto in Siria finisce, davanti ai nostri occhi, in una colossale ed irrefrenabile autodigestione. Diceva Alfieri che “…Nelle repubbliche vere amavano i cittadini prima la patria, poi la famiglia, quindi sè stessi: nelle tirannidi all’incontro, sempre si ama la propria esistenza sopra ogni cosa…(De La Tiranide)”. Se le idee camminano sulle gambe degli uomini, è forse lo smisurato amore per sé che spinge Assad ad ordinare il massacro indiscriminato della sua gente, pur sapendo che non c’è alcun futuro per il suo regime, ma soprattutto per sè. Ed allora l’amore si converte in odio. Ma altrettanto, i combattenti sono animati da un desiderio di autodistruzione che si afferma sfruttando la catena di trasmissione della vendetta, e non si giustifica con la conquista di diritti negati, di legalità, di democrazia. Tutta questa autodistruttività azzera le gerarchie familiari e calpesta la morale: non ci sono bambini da risparmiare, o giovani o donne o anziani. Ovunque cadono tonnellate di esplosivo e si consumano stragi. Ragioni geo-strategiche impediscono ai soliti sceriffi di intervenire, mentre L’Europa è distratta da una guerra finanziaria senza precedenti, l’ONU è del tutto impotente, Papi e Ayatollah non riescono a tappare ll vaso di Pandora, nè invocano più la pace. Questa mi sembra una guerra civile diversa dalle altre. Più morbosa, più “sacrificale”, più “emotiva”, meno “tattica”, totale. La rete e i filmati catturati qua e là testimoniano di una carneficina senza logica se non quella della distruzione come fine, non come mezzo. Cosa accadrà ancora varcata la porta…?

Enrico Maria Troisi

LE OPINIONI IMPEDISCONO AI FATTI DI ESISTERE? Enrico Maria Troisi


Angelo di Carlo, 54 anni, si è dato fuoco davanti a Montecitorio il 12 agosto, nella calcolata (?) indifferenza dei media, ed è morto ieri. Lascia 160 euro in eredità al figlio superstite. La notizia è stata filtrata, trattenuta, o altro, per cui Angelo di Carlo non s’è mai ucciso fin quando non è morto! Un dramma privato (il Di Carlo risulta vedovo, disoccupato) sfociato in un martirio pubblico non merita alcuna riflessione, nè un approfondimento, nè niente, fin quando non sia accertata l’adesione dell’uomo ad una qualsiasi delle sigle sindacali o ai gruppi di attivisti che popolano il panorama della rappresentanza politica italiana (non certo i Partiti). Anzi “guarda e passa”, come nella ritirata dell’Armir: quando devi salvare la pelle metti a riposo la coscienza. Angelo di Carlo non ha neanchè la dignità di diventare una statistica. Deve essergli andato tutto Murphynianamente storto nella vita, come, ahimè, nella morte. Si dirà che “era instabile”, “impulsivo”, “fanatico”, “oltranzista”, “coerente” e pure “depresso”. O tutto,al contrario, che il suo gesto è Anomico, per dirla alla Durkheim, o frutto di un calcolo sbagliato: non c’erano sufficienti media è la benzina aveva troppi ottani! Si sprecheranno esegesi psico-sociologiche, da sbattersi in faccia fra i professionisti della politica per attribuirsi, secondo le convenienze, colpe, responsabilità e meriti dell’attuale situazione. Ma un fiore ed un fondo di solidarietà potrebbero significare molto, ma molto di più di una prima pagina di sdegno…..

Enrico Maria Troisi

http://roma.repubblica.it/cronaca/2012/08/19/news/si_diede_fuoco_davanti_a_montecitorio_e_morto_il_disoccupato_ustionato-41170172/

Risposta a Salvatore Spoto:

Caro Salvatore Spoto, la scelta concernente l’immagine che accompagna il breve articolo di Enrico Maria Troisi riguarda solo la redazione di questo blog, quindi me personalmente e inequivocabilmente (…). Tengo a sottolineare che tale immagine è apparsa – molto prima di questo articolo del Prof. Troisi (psichiatra e criminologo, che ci onora della sua presenza nella redazione) – su tutti i media internazionali, e ha fatto il giro della rete, evidentemente non essendo sottoposta ad alcuna censura o a qualsivoglia critica del genere che lei menziona – “paura ed emotività”. Ritengo che siano ben altre le immagini che vadano sottoposte a tale critica, e non questa che – a prescindere dall’uso che l’informazione ne ha fatto, istituzionalizzandola quale “documento” al pari delle stesse che, in altra epoca, e che lei ricorderà perfettamente anche meglio di me, data la sua professionalità che ben conosco, documentarono per esempio la tragica storia di Jan Palach. Quando dico “ben altre”, mi riferisco esattamente a ultimissime immagini che Il Messaggero, per il quale mi risulta lei ha collaborato per anni e anni, ha pubblicato, e che risultano essere solo il frutto di una tecnica di comunicazione da tempo in uso che degrada la professionalità che – giustamente – si vorrebbe salvaguardare, delle testate e dei giornalisti. Purtroppo non sempre le cose vanno così, e – per quanto mi riguarda – preferisco il valore documentale, anche se drammatico quanto la realtà lo è, e che quindi afferisce eticamente alla stessa, e non alla spettacolarizzazione gratuita e volgare, intellettualmente parlando, dei fatti. Per chi non se ne rende conto abbastanza, da smuovere nel suo proprio piccolo le coscienze, i fatti recentissimi che hanno provocato una serie di suicidi in Italia vanno riportati così come sono, a mio parere, e chi vuole vederci una spettacolarizzazione morbosa farebbe bene a valutare quelle “ben altre” di cui parlo, e che pubblico qui di seguito, allo scopo di documentare quanto affermo, al solo titolo di esempio. Se i “colleghi” di cui lei parla nei due commenti sono interessati sia agli aspetti deontologici che a quelli minimal retorici, e per caso fanno parte anch’essi de Il Messaggero, allora farebbero buon uso del loro tempo a interrogarsi su cosa spinge Il Messaggero a pubblicare queste foto, in un clima tanto drammatico e spietato che stiamo vivendo, dove anche la sola tentazione a pensare di vendere qualche copia in più, usando questi mezzi, diventa esecrabile, e – conoscendola personalmente e stimandola al punto di averla invitata a far parte d questa redazione, come da lei espresso in un commento al post STOP IT, quindi rispondendo a un suo desiderio liberamente espresso in pubblico – sarei molto curioso di conoscere il suo illuminato e puntuale pensiero nel merito. La redazione ha già provveduto a rimuovere il banner con la sua foro, egregio Salvatore Spoto. Evidentemente, la diversità di vedute, tra me e lei, è tale che questa azione risulta gradita ad entrambi, e nonsolo a lei. Per il resto, la lascio alla risposta del Prof. Troisi, che non voglio – in questo momento – surrogare né sostituire. Per ciò che lei intravede come un vero e proprio attacco alla categoria di cui fa parte. Mi esprimerò senz’altro dopo Enrico Maria Troisi, avendo io personalmente deciso di pubblicare il suo articolo. E non ritenendolo affatto un attacco alla categoria dei giornalisti, ma una puntuale precisazione di quanto viene sistemicamente occultato da molta (non tutta, ovviamente) “stampa”, come una volta si usava dire, ma che oggi verrebbe definita meglio, là e dove ce ne sia il bisogno, “protesi dei partiti politici”… intelligenti pauca. Intanto la saluto e la ringrazio dei suoi commenti.

Salvatore Maresca Serra

Milano dice sì alle Unioni civili. Pisapia: da oggi ci sono più diritti

Milano, 27 lug. (Adnkronos) – L’Associazione Radicale Certi Diritti “saluta con favore l’approvazione del registro sulle unioni civili” da parte del Consiglio comunale di Milano, avvenuta nella notte, una misura che “rende la città più accogliente, laica ed europea”. Lo comunica l’associazione. “Un estenuante dibattito consiliare – prosegue – ha trasformato una delibera asciutta sul modello torinese in una più articolata, che prevede un autonomo registro delle unioni civili riferito però all’articolo 4 del Dpr 223 del 1989 che parla di famiglia anagrafica”. “A parte la scelta eccessivamente burocratica – continua l’associazione – rimane integro il cuore del provvedimento che impegna il Comune a garantire ‘condizioni non discriminatorie” di accesso ai suoi servizi e nelle materie di propria competenza. L’Associazione Radicale Certi Diritti, insieme ad altre realtà milanesi, aveva quasi completato una raccolta firme su una delibera basata sul modello torinese, che ha certamente contribuito ad accelerare i tempi dell’approvazione del registro”.

“Salutiamo con favore – continua l’associazione – la scelta di lasciare al Consiglio comunale la titolarità della materia poiché questo ha permesso di sviluppare un vasto dibattito nelle istituzioni e in città. Da Milano rilanciamo ora la battaglia per il matrimonio egualitario che consenta a tutti i cittadini, a prescindere dal loro orientamento sessuale, il pieno accesso all’istituto del matrimonio civile e che permetta cosi’ di sanare la più odiosa delle discriminazioni contenute nel nostro ordinamento giuridico”.

Il primo commento del sindaco di Milano Giuliano Pisapia subito dopo l’approvazione del Consiglio comunale che ha visto una lunga trattativa è stato: “Da oggi a Milano ci sono più diritti”.

Bonus al dirigente in galera da mesi

IL CASO ALLA REGIONE MOLISE

Gratifica da 13.099 euro. Peccato che il dirigente Elvio Carugno sia in galera proprio con l’accusa di avere rubato soldi regionali

 di Gian Antonio Stella

«Bravo», gli ha detto la Regione Molise. E gli ha dato un bonus di 13.099 euro in aggiunta allo stipendio. Peccato che Elvio Carugno sia in galera. Carugno è accusato di avere rubato soldi regionali. Il che conferma come la distribuzione dei «premi» messi a bilancio sotto la voce «merito» avvenga con criteri a pioggia che col merito non hanno niente da spartire.

Il tema è una ferita che sanguinada tempo. Basti ricordare la denuncia che fece qualche anno fa, alla vigilia dell’ultimo governo Berlusconi, l’allora ministro per la Funzione pubblica, Luigi Nicolais. Il quale ammise che «il tentativo di misurare l’efficienza di chi dirige gli uffici pubblici», avviato dal governo D’Alema nel lontano 1999 con la legge 286 che prevedeva una ricompensa aggiuntiva per i dirigenti sulla base del raggiungimento o meno degli obiettivi fissati, non aveva dato «i risultati sperati». Un eufemismo.

Ex ministro Nicolais

La prova era nei numeri: su 3.769 altissimi funzionari addetti alla macchina statale, quelli premiati col massimo bonus possibile erano 3.769. Come se fossero tutti purosangue. Tutti bravissimi, puntualissimi, rigorosissimi. Senza un solo somaro, un ronzino, un brocco che meritasse un minimo di castigo… Come se tutti gli obiettivi prefissi fossero stati raggiunti.
Mai più, giurarono allora i responsabili della cosa pubblica. Mai più. Fatto sta che, anche al di là dell’impegno personale di questo o quel ministro (ricordate la battaglia scatenata su questi temi dal contestatissimo Renato Brunetta?), ciò che è accaduto in questi giorni in Molise dimostra quanta strada ci sia ancora da fare.

Dice tutto la lettera protocollata il 6 luglio scorso e firmata dalla Direzione generale della Regione Molise e inviata al Servizio di gestione risorse umane. Oggetto: «Erogazione indennità di risultato dirigenza anno 2011». Messaggio: «In riferimento all’erogazione di cui all’oggetto, si partecipa che, avendo acquisito per le vie brevi le dovute informazioni da parte del nucleo di valutazione in merito ai termini di conclusione dei procedimenti di valutazione dei direttori di area e di servizio, rilevato che a tutt’oggi i medesimi procedimenti non sono ancora conclusi, si rimette alle opportune valutazioni della signoria vostra la plausibilità di procedere all’anticipazione dell’erogazione dell’indennità di risultato… ».

Totale dell’importo dei premi, in questi tempi di crisi, di assunzioni bloccate, di appelli quotidiani al pubblico impiego: 805.046 euro e 57 centesimi. Da dividere, come anticipazione del 60% degli incentivi per i risultati raggiunti nell’anno passato, tra 68 dirigenti. Per capirci: tutti quelli della Regione. Come se anche in questo caso, nella scia dello scandalo denunciato da Luigi Nicolais, non ci fosse nessuno ma proprio nessuno da lasciare a secco.

Si dirà: sono integrazioni in qualche modo dovute. Ma è vero solo in parte. La Regione, accusano le opposizioni, poteva fissare un minimo molto basso e un massimo molto alto, scelta evitata stabilendo bonus che vanno in genere da 11 a 13 mila euro. Poteva dare degli obiettivi precisi e non così generici (tipo «organizzazione degli uffici») da lasciare spazio a ogni interpretazione. Di più: il nucleo di valutazione, composto da tre persone, è dominato da due membri di squisita nomina partitica: il sindaco di Santa Maria del Molise e il vicesindaco di Petacciato. Tutti e due appartenenti al Pdl del governatore Michele Iorio.

La decisione di spendere così quegli 805 mila euro ha mandato su tutte le furie il capogruppo in consiglio regionale del Molise dell’Italia dei valori, Cosmo Tedeschi: «In un periodo difficile come quello che stiamo attraversando questa somma poteva, anzi doveva essere spesa per interventi più urgenti e, soprattutto, utili alla comunità». Lo sconcerto, tuttavia, non riguarda solo i dipietristi e la sinistra.

Tra i dirigenti, infatti, vengono premiati anche i dirigenti della Sanità che, come spiegano i dati di pochi giorni fa, è tra le più sgangherate e indebitate, sul pro capite, della Penisola. Un dato per tutti: 2.939 euro di spesa per abitante, inferiore solo a quelle della Basilicata e del Lazio.

Di più: riferisce un’agenzia Agi di qualche settimana fa che «il Molise ha anche il primato per spesa pubblica primaria delle Pubbliche Amministrazioni, che Bankitalia ha rilevato in 4.100 pro capite nel triennio 2008-2010 contro i 3.300 euro della media nazionale».

Ma non basta. Tra i dirigenti benedetti dalle gratifiche, con 11.718 euro di bonus supplementare (ripetiamo: è solo il 60%, poi deve arrivare il resto) c’è anche chi come Antonio Guerrizio è stato messo sotto inchiesta per una brutta storia di soldi spariti dalle casse, già parzialmente restituiti. E soprattutto Elvio Carugno, in galera da mesi con le accuse di peculato aggravato e continuato. Pochi giorni fa l’ennesima richiesta di andare almeno agli arresti domiciliari gli è stata respinta: secondo i giudici potrebbe scappare, magari in Venezuela dove sarebbe finito in parte, probabilmente a una donna più o meno misteriosa, il milione di euro circa, stando alle indagini, scomparso dalle pubbliche casse.

Domanda: l’arresto è del 4 aprile, come mai tre mesi non sono bastati alla Direzione generale per depennare l’attuale carcerato dalla lista dei dirigenti meritevoli della massima gratifica? Non sarà il caso di rivederle tutte, queste regole?

Marco Travaglio sulla trattativa Stato-Mafia e le intercettazioni di Napolitano (19Lug2012)

Marco Travaglio sulla trattativa Stato-Mafia e le intercettazioni di Napolitano (19 Luglio 2012)

 

Web: esperto, Facebook e Twitter dannosi per il digiuno di Ramadan

Kuwait, 24 lug. – Adnkronos/Aki – Navigare nei social network danneggia il digiuno durante il mese sacro del Ramadan. Ne e convinto il presidente della Lega degli studiosi di sharia del Consiglio di cooperazione del Golfo, Ujayl al-Neshmi, secondo cui chattare con persone dellaltro sesso su Twitter, Facebook e gli altri luoghi dincontro virtuali “non puo portare a qualcosa di buono”. “Ce un modo di scrivere che non ha un obiettivo in se, ma il cui unico scopo e quello di contattare chi conosciamo o chi non conosciamo per niente, e questo genere di scrittura non porta a nulla di buono”, ha spiegato Neshmi, secondo quanto riferisce il sito Islah News. “Se questo scambio avviene poi tra maschi e femmine, allora e proprio vietato, poiche e una via verso limmoralita”, ha aggiunto, precisando che “questo tipo di contatti rovina il digiuno”. Tuttavia i social network possono essere impiegati in modi diversi. Ad esempio, ha sottolineato lesperto, “ci si puo rivolgere a Twitter e Facebook per chiedere spiegazioni su una questione religiosa, scientifica, sociale o educativa, e questo e auspicabile, se il contatto avviene con un esperto di questioni religiose e islamiche”. In tal caso, nulla vieta i contatti anche tra persone di sesso opposto.

Sicilia, l’Ue «congela» 600 milioni

Sicilia, crollano Pil e lavoro, l’Ue «congela» 600 milioni

Stime di previsione contenute nell’ultimo report di Diste Consulting e Fondazione Curella sul 2012

PALERMO – Si va verso il crac finanziario o no? Una risposta (in negativo) per la Sicilia arriva dall’ultimo report Diste. Il dato, allarmante, è che nella regione crollano Pil e occupati mentre l’Unione Europea congela 600.000 milioni di fondi comunitari legati al ciclo di programmazione 2007-2013. Sulla base delle stime di previsione contenute nell’ultimo Report Sicilia elaborato da Diste Consulting e Fondazione Curella relative al primo semestre 2012, si delinea nell’Isola una fase recessiva piu’ grave rispetto al resto del Paese, con effetti pesanti sul mercato del lavoro. Nel corso del 2012 l’economia siciliana potrebbe registrare infatti, una flessione del prodotto interno lordo attorno al 2,4 per cento, un risultato peggiore rispetto a quanto prefigurato per l’economia italiana (-1,9 per cento).

PARTE DEBOLE DEL SISTEMA – «Una situazione complessa – afferma Pietro Busetta, presidente della Fondazione Curella – nella quale si intrecciano fattori economici strutturali e politici. Certamente non sarà facile uscire da questa crisi che e’ strutturale e che durerà per molti anni. La Sicilia deve trovare delle nicchie per riuscire a mantenere i livelli di reddito conseguiti fino ad adesso. Stiamo assistendo alla crisi del sistema occidentale. E noi siamo la parte debole di tale sistema». «Secondo le nostre stime – evidenzia Alessandro La Monica presidente Diste Consulting – la caduta del prodotto interno lordo provocherà nell’anno la perdita di circa 35 mila occupati. Per cui in Sicilia siamo passati dal dato record di 1 milione 502 mila e 700 unità lavorative del 2006 fino 1 milione 397 mila e 950 unità delle stime 2012, determinando una perdita nel sessennio di quasi 105 mila posti di lavoro, come cancellare dal mercato del lavoro – sottolinea Alessandro La Monica – una città delle dimensioni di Siracusa».

DISOCCUPAZIONE ALTISSIMA – Dalle analisi contenute in questo trentasettesimo Report Sicilia emerge che nel corso dell’anno il numero dei disoccupati è destinato a salire in misura abnorme. Si stima una crescita a oltre 306 mila unità (da 240 mila e 700 del 2011), equivalente ad un tasso di disoccupazione che potrebbe raggiungere il 18,0 per cento (10,5 per cento il dato dell’Italia), il livello massimo dal 2004. Al forte aumento della disoccupazione contribuiranno, oltre a coloro che hanno perso un precedente impiego e a chi e’ alla ricerca di una prima occupazione, anche i massicci rientri nel mercato del lavoro di persone che in precedenza avevano cessato la ricerca perché scoraggiate dalle difficoltà incontrate. Secondo le statistiche, il soggetto che nel corso dell’intervista dichiara di non essere alla ricerca di un lavoro non e’ considerato, ovviamente, disoccupato. Si tratterebbe per lo più di studenti e casalinghe spinti dalla necessità di reintegrare redditi famigliari erosi per vari motivi dalla crisi. Le drastiche misure di aggiustamento della finanza pubblica, gli annunci di nuovi tagli di posti di lavoro correlati a ristrutturazioni aziendali sono destinati a frenare ulteriormente la già debole spesa di consumo. Si stima perciò una contrazione – la quinta consecutiva – del 2,8 per cento, che riporta il livello dei consumi delle famiglie siciliane indietro di quindici anni.

LENTEZZA DELLA SPESA – Le inquietudini sulle prospettive di domanda penalizzano massicciamente anche gli investimenti, attesi scendere del 5,8 per cento a causa di consistenti ripiegamenti sia della spesa in macchinari e attrezzature sia di quella in costruzioni. In questo contesto si inserisce la vicenda della spesa relativa ai fondi comunitari legai al ciclo di programmazione 2007-2013, divenuta un caso nazionale ed europeo di inefficace programmazione e gestione poco trasparente dei fondi strutturali: si veda l’intervista rilasciata dal ministro della coesione territoriale, Fabrizio Barca, lo scorso 14 luglio, così come le numerose inchieste giornalistiche svolte da diversi quotidiani nazionali all’indomani della decisione di congelamento di 600.000 milioni di pagamenti già anticipati dalla Regione da parte del commissario Ue per gli Affari regionali Johannes Hahn. Al tradizionale dato sulla lentezza della spesa (ad esempio il comitato di sorveglianza del Fesr accertava alla fine di aprile che lo stato di avanzamento finanziario in termini di pagamenti effettuati era di poco meno dell’8%), si aggiunge il sistematico spiazzamento delle risorse comunitarie, programmate per obiettivi strutturali e straordinari, verso obiettivi ordinari di spesa corrente. La corretta ed efficiente gestione delle risorse comunitarie è strettamente connessa alla grave situazione del bilancio regionale, le cui voci di spesa risultano ulteriormente aumentate evidenziando una situazione seria di effettiva insostenibilità delle future gestioni, come ha ricordato il procuratore generale d’appello nel ‘Giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione relativo al 2011’, presentato a fine giugno 2012. Agli aspetti specifici, già ricordati nei due punti precedenti, si aggiungono le difficoltà che ha attraversato l’attuazione del ciclo di programmazione 2007-2012 in Italia e, in particolare, nell’attuazione del Fesr.

VINCOLI PESANTI – La difficoltà ad attuare il cofinanziamento nazionale, la rimodulazione continua dei fondi Fas, il percorso avviato del federalismo fiscale e, non ultima, la crisi economica globale hanno determinato una serie di vincoli che hanno comportato la sostanziale ridefinizione degli obiettivi strategici ed operativi. Le iniziative intraprese dal governo Monti negli ultimi mesi hanno riproposto una nuova stagione per la politica di coesione: il piano d’azione-coesione dell’autunno 2011 che prevede anche un accentramento delle risorse non utilizzate a livello locale per finalità di carattere sociale, con particolare riferimento destinate al Mezzogiorno.

Soft porno, epidemia e parodia

TENDENZE LETTARIE

Soft porno, è epidemia

Dopo il successo della trilogia di E.L. James fioriscono le rivisitazioni hard dei grandi classici. Ed è boom di parodie.

di Bruno Giurato

Quella del 2012 rischiadi passare alla storia come l’estate del porno chic e del sadomaso per signora. Il successo della trilogia di E.L. James, le famose 50 sfumature di grigio, e poi di nero e di rosso è inarrestabile. Alla faccia delle polemiche.
Il libro originale (50 sfumature di grigio) ha venduto, solo nell’ultima settimana, 25 mila copie. Il ‘nero’ segue in classifica al secondo posto. il ‘rosso’ si trova al quarto. La valanga sadomaso per ora lascia spazio solo all’ultimo romanzo di Andrea Camilleri,Una lama di luce, che resiste in terza posizione.
LE 50 SFUMATURE SI FANNO FILM. Ed è arrivato anche l’annuncio del film derivato dalla trilogia, con relativo toto attori: per la protagonista femminile ad alto tasso di morbosità si parla di Amanda Seyfried o Kristen Stewart, ma in corsa ci sono anche Kaya Scodelario e Ashley Greene, mentre per il protagonista maschile (il miliardario tenebroso Christian Grey) si fanno i nomi di Channing Tatum,Chris Pine, Ryan Gosling, Chris Hamsworth o Robert Pattinson. E proprio Pattinson ha portato avanti una sincera autocandidatura per il protagonista, tanto che in un’intervista a Mtv ha dichiarato che del libro della James, ne leccherebbe le pagine. Contento lui…

Ora anche Harmony diventa hard

Dietro pseudonimo di E.L: James nasconde Erika Leonard autrice del bestseller sfumature grigio.

Dietro pseudonimo di E.L: James nasconde Erika Leonard autrice del bestseller sfumature grigio.

Il successo della trilogia firmata E.L. James ha definitivamente sdoganato il soft porno e il sadomaso: le scene hard non sono più roba per youporn-addicted, ma fanno la loro parata trionfale alla luce del sole, o meglio sotto l’ombrellone. Basti dire che perfino le collane storiche di letteratura rosa virano e accendono  più o meno timidamente le luci rosse. Un esempio è Harmony, collana che per una vita abbiamo considerato emblema di soap literature quasi da nonne, che ha inaugurato la raccolta Passion, che promette di mostrare «il lato piccante dell’amore» con titoli come: Tocco proibitoTravolgente piacere.
HOLMES E WATSON IN VERSIONE SEXY. L’ondata hard ha coinvolto pure i grandi classici della letteratura, per ora solo di quella inglese: l’editore Total Ebound sta implementando una collana dal nome Clandestine Classics, vale a dire una riscrittura di grandi romanzi, da Jane Eyre a Orgoglio e Pregiudizio in versione finalmente esplicita: ci saranno inediti amplessi tra Jane e Mr. Rochester, e il legame tra Sherlock Holmes e il fido Watson potrebbe rivelarsi qualcosa di più di una semplice amicizia.
BEATRICE SI CONCEDE A DANTE. Una tendenza, quest’ultima, che potrebbe inorridire alcuni affezionati della letteratura classica pensando al possibile scempio che potrebbe essere fatto di alcuni capovalori letterari di tutto il mondo: dalla versione porno della liason tra Achille e Patroclo, all’amplesso amoroso esplicito tra Beatrice e Dante, che tanto ha incuriosito intere genereazioni di studenti.

Largo alle parodie made in Italy

Ma non finisce qui. Vista la serializzazione del mummy porn come fenomeno di costume, la parodia, lo sfottò, la goliardia diventano in certi casi legittima difesa. E in questo caso abbiamo un paio di esempi tutti (meritoriamente) italiani: il 3 agosto è  prevista l’ uscita dell’ebook di Rossella Calabrò 50 sbavature di Gigio (Sperling & Kupfer), nel quale l’oscuro Mr Gray si trasforma in un casalingo signor Gigio, cioè in un comune marito medio, che alla richiesta della protagonista di spaventarla un po’ risponde con un: «Perché hai il singhiozzo? Aspetta: BU! Ecco. Passato?».
SE NON LE PRENDI SEI OUT.  E invece lo scrittore Ottavio Cappellani ha virato su un umorismo perfido-surreale. La sua parodia 50 sfumature di minchia, dopo essere apparsa su Facebook in una imperdibile versione d’essai in dialetto siciliano, è stata pubblicata in italiano su Libero e ora è in arrivo l’ebook. All’interno ci si trova la signora che si sente alla moda perché il marito le dà schiaffoni da sempre. La madre di famiglia che graffia col cacciavite la macchine del marito, dietro insistenza di lui che vuole provare un nuovo gioco erotico. La moglie che si mette a fare ginnastica e sedute di beauty farm per onorare il contratto sadomaso, ma i figli tocca tenerli al marito. E dulcis in fundo la signora catanese che sull’onda della rabbia sociale per il default siciliano racconta: «Mi sono rappresentata a casa travestita da Fornero e me la sono fatta esodare». E se non è mummy porn questo…

Martedì, 24 Luglio 2012

 

Mafia: Di Pietro, da Pm accuserei Napolitano


(ASCA) – Roma, 21 lug – ”Se fossi ancora pubblico ministero farei una requisitoria chiedendo la condanna politica del presidente della Repubblica sulla base di una prova documentale, la prova principe. Da parte di Giorgio Napolitano c’e’ una confessione extragiudiziale di reato politico”.

Lo afferma il presidente dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, nel corso di un’intervista a Il Fatto Quotidiano.

”Prima solleva il conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo, perche’ le intercettazioni indirette delle sue conversazioni con Nicola Mancino comporterebbero una ‘lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica’. Poi -sostiene Di Pietro-, in occasione del ventennale della strage di via D’Amelio, manda un messaggio ai familiari delle vittime in cui dichiara solennemente che ‘non c’e’ alcuna ragion di Stato che possa giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilita”.

Delle due l’una. E poi che manchi una norma che regoli le intercettazioni indirette del Capo dello Stato e’ all’ordine del giorno fin dal 1997, quando il ministro della Giustizia Flick sollevo’ la questione per un caso analogo che riguardava l’allora presidente Scalfaro. Napolitano ha avuto sette anni di tempo per sollecitare il Parlamento a intervenire. Non solo, poteva sollevare conflitto d’attribuzione contro la Procura di Perugia che, a quanto pare, lo ha indirettamente intercettato al telefono con Bertolaso. Non lo ha fatto, salvo cambiare idea con Palermo”.

”A questo punto siamo autorizzati a sospettare -dice Di Pietro- che quelle intercettazioni, che fanno cosi’ paura, contengano giudizi pesanti sui pubblici ministeri di Palermo.

In un paese normale, se non fosse Re Giorgio, ci sarebbe stata, non dico una rivolta popolare, ma almeno una rivolta del mondo dell’informazione. E invece sono tutti, o quasi, appecoronati e conniventi con il sistema di potere che sostiene la grande coalizione del governo Monti”.

Trattativa Stato-mafia: Così si cercò un nuovo patto

PALERMO – L’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, quello sul «carcere duro» per i mafiosi varato all’indomani della strage di Capaci, c’entra, ma fino a un certo punto. O meglio, da un certo punto in poi, e solo per un pezzetto. La trattativa è cominciata prima, ed è continuata dopo. Aveva obiettivi più ampi e complessi. Serviva a stabilire un nuovo patto di convivenza tra lo Stato e Cosa nostra, come quello che aveva resistito fino al 1992.

In passato il garante dei boss era stato Giulio Andreotti, ma all’inizio degli anni Novanta appariva usurato e non più affidabile. Nel suo governo era arrivato a lavorare perfino Giovanni Falcone, direttore generale del ministero della Giustizia chiamato dal Guardasigilli socialista Claudio Martelli che nell’87 era stato beneficiato dai voti pilotati dalla mafia. Aveva tradito, Andreotti. E per questo Riina, Provenzano e gli altri padrini decisero di voltare pagina. Non prima di decapitare definitivamente il suo potere uccidendo Salvo Lima, l’eurodeputato che gli faceva da luogotenente in Sicilia. Era il 12 marzo 1992. La trattativa per ridefinire l’accordo tra la politica e la mafia nella Seconda Repubblica cominciò allora.

È il quadro disegnato dalla Procura di Palermo nella richiesta di rinvio a giudizio per il reato di «minaccia o violenza a un corpo politico dello Stato»; in questo caso il governo, ricattato dai mafiosi per ottenere «benefici di varia natura», tra cui la modifica di alcune leggi, la revisione del maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino, un migliore trattamento per i detenuti. La minaccia avevano già cominciato a metterla in pratica con l’omicidio Lima: una «strategia di violento attacco frontale alle istituzioni».

Subito dopo quel delitto uno degli imputati di oggi – l’allora ministro democristiano Calogero Mannino, uno dei successivi bersagli già designati – si attivò per salvarsi la vita. E attraverso contatti con investigatori e uomini dei servizi segreti cercò di individuare gli interlocutori giusti per «aprire la trattativa e sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra» per scongiurare altri attentati. Poi arrivò la strage di Capaci in cui saltò in aria Falcone con sua moglie e gli uomini della sicurezza, e «su incarico di esponenti politici e di governo», i carabinieri del Ros (Subranni, Mori e De Donno) contattarono l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, «agevolando così l’instaurazione di un canale di comunicazione con i capi di Cosa nostra, finalizzati a sollecitare eventuali richieste».

Nel frattempo ci furono il cambio di governo(e di ministro dell’Interno, da Scotti a Mancino) e la strage di via D’Amelio che tolse di mezzo Paolo Borsellino, informato dei contatti tra i carabinieri e Ciancimino. Non dagli stessi carabinieri, però, che avevano ritenuto di lasciarlo all’oscuro. L’ipotesi, già avanzata dalla Procura di Caltanissetta nella nuova inchiesta su quella strage «anomala», è che Borsellino avrebbe rappresentato un ostacolo alla trattativa.

Nella ricostruzione dei pubblici ministeri di Palermo, lo Stato fu vittima di un’estorsione. E di fronte al ricatto di altri morti, gli uomini delle istituzioni aprirono un negoziato con gli estorsori. Capita spesso, nelle terre di mafia. Quando si paga il «pizzo» chi subisce la richiesta e paga è «parte lesa», ma chi fa da intermediario e diventa latore delle minacce (o addirittura sollecita le richieste dei taglieggiatori) viene considerato complice del racket. Allo stesso modo, gli esponenti del governo ricattato restano le potenziali vittime, mentre gli anelli intermedi della catena sono ritenuti corresponsabili insieme ai mafiosi. Che abbiano agito per la ragion di Stato, nell’inchiesta penale non conta; anche un reato commesso con le migliori intenzioni resta tale.

Ecco perché sono finiti sul banco degli imputati Mannino, i carabinieri e infine Marcello Dell’Utri: una vecchia conoscenza di Cosa nostra che, secondo l’accusa, subito dopo l’omicidio Lima «si propose come interlocutore di Cosa nostra» e in seguito, quando il suo amico e capopartito Silvio Berlusconi diventò presidente del Consiglio nel 1994, «agevolò materialmente la ricezione della minaccia».

L’indagine palermitana si ferma a questo punto, quando un nuovo quadro politico fu raggiunto e – forse – anche un nuovo equilibrio politico-mafioso. In mezzo avvennero le stragi del 1993 a Firenze, Milano e Roma, con le pressioni per alleggerire il «41 bis» e il «segnale di distensione» lanciato dal ministro della Giustizia Giovanni Conso, succeduto a Martelli, che non rinnovò il «carcere duro» per oltre trecento detenuti. Tra cui pochi o pochissimi esponenti di spicco di Cosa nostra, ma questo è un dettaglio. Era un segnale, per l’appunto, e come tale doveva essere interpretato.

Su questo punto la Procura ritiene che Conso non abbia detto la verità quando ha riferito i motivi per cui prese quella decisione, ed è stato messo sotto inchiesta per false informazioni al pm, insieme all’ex direttore generale delle carceri Adalberto Capriotti. Come le vittime del racket che negano il ricatto. Nei loro confronti l’indagine è stata stralciata, e rimane sospesa in attesa dell’esito del processo principale. Rientra invece nella richiesta di rinvio a giudizio un altro ex ministro accusato di aver mentito, Nicola Mancino. Il quale, avendo deposto al processo contro il generale Mori per la mancata cattura di Bernardo Provenzano (una delle cambiali pagate alla mafia nella trattativa, secondo l’accusa), risponde di una presunta falsa testimonianza: avrebbe detto bugie sui reali motivi dell’avvicendamento al Viminale e sulle informazioni ricevute da Martelli riguardo ai contatti tra i carabinieri e Ciancimino, avvenuti tramite il figlio dell’ex sindaco, Massimo. Quest’ultimo imputato, nel ruolo di «postino» tra suo padre e Provenzano, di concorso in associazione mafiosa.

Questa è il mosaico composto dalla Procura palermitana. Ora si va davanti a un giudice. Per stabilire se si tratta di una ricostruzione sorretta da prove sufficienti per celebrare un processo, solo un’ipotesi non riscontrabile, o pura fantasia su quel che accadde in Italia, vent’anni fa. Al tempo delle stragi di mafia.

Stato-Mafia, chiesto processo per Dell’Utri, Mancino e Provenzano

La Procura di Palermo ha chiuso le indagini sulla trattativa Stato-mafia. I pm hanno firmato la richiesta di rinvio a giudizio dei 12 indagati tra cui figurano lex ministro Calogero Mannino, lex presidente del Senato Nicola Mancino, e il senatore Marcello DellUtri. La richiesta, che è stata vistata dal procuratore capo Francesco Messineo, sarà trasmessa nelle prossime ore al Gip.Annunci GooglePaga Meno i Tuoi DebitiCome Uscire dal Tunnel dei Debiti Non Chiedendo più Finanziamenti!www.AgenziaDebiti.it/paga-MenoMalattia di ParkinsonInformazione e ricerca scientifica Scopri le ultime novitàwww.parkinson.itLe richieste di rinvio a giudizio riguardano anche i capimafia Totò Riina, Giovanni Brusca, Antonio Cinà, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano.Poi uomini delle istituzioni e politici: lex generale Antonio Subranni, lex colonnello dei Ros Giuseppe De Donno, lex generale del Ros Mario Mori, lex ministro Calogero Mannino e il senatore Marcello dellUtri.Tutti, tranne Mancino, sono accusati di attentato a un corpo politico. Mancino risponde invece di falsa testimonianza.Tra i primi a commentare la richiesta dei giudici è stato proprio Nicola Mancino. “Dopo la comunicazione della conclusione delle indagini sulla cosiddetta trattativa fra uomini dello Stato ed esponenti della mafia, ho chiesto inutilmente al Pubblico ministero di Palermo di ascoltare i responsabili nazionale dellordine e della sicurezza pubblica capi di gabinetto, direttori della Dia, capi della mia segreteria, prof. Arlacchi, ad esempio, i soli in grado di dichiarare se erano mai stati a conoscenza o se mi avessero parlato di contatti fra gli ufficiali dei carabinieri e Vito Ciancimino e, tramite questi, con esponenti di Cosa Nostra. A questo punto ho rinunciato al proposito di farmi di nuovo interrogare e di esibire documenti. . “Preferisco farmi giudicare da un giudice terzo – aggiunge nella nota -. Dimostrerò la mia estraneità ai fatti addebitatimi ritenuti falsa testimonianza, e la mia fedeltà allo Stato”.Tutti, tranne Mancino, sono accusati di attentato a un corpo politico

viaStato-Mafia, chiesto processo per DellUtri, Mancino e Provenzano – Adnkronos Cronaca.

Creato il primo automa derivato da cellule del cuore di un topo. Prossimo passo l’uso di tessuti umani

L‘aspetto è in tutto e per tutto quello di una medusa, ma i suoi geni sono quelli di un topo. I progressi nella biomeccanica marina, nella scienza dei materiali e dell’ingegneria dei tessuti, hanno infatti permesso a un team di ricercatori statunitensi del California Institute of Technology (Caltech) e dell’Università di Harvard di creare il primo automa derivato da cellule del cuore di un topo che pulsano in un foglio di silicone. La medusa artificale è una sorta di fiore con otto petali e nuota e pulsa nell’acqua con movimenti molto simili a quella della sua omologa naturale, se stimolata elettricamente.

L’idea nasce dalla caparbietà di Kit Parker, a capo del team di ricerca, che lavora da tempo alla creazione di modelli artificiali di tessuto cardiaco umano per la generazione di organi e il test di farmaci: «Il cuore è una pompa che “spinge” il sangue in tutto il corpo, così le meduse si muovono nell’acqua attraverso un movimento di pompaggio. La loro morfologia di base è quindi molto simile al muscolo cardiaco e costruire un medusoide é un modo per comprendere le leggi fondamentali della propulsione biologica, per affinare sempre di più l’ingegneria dei tessuti biologici», spiega Parker.

I bioingegneri americani hanno creato la struttura del medusoide facendo crescere un singolo strato di muscolo cardiaco murino su un foglio di polidimetilsilossano modellato. Un campo elettrico applicato alla struttura causa una contrazione muscolare e comprime il medusoide, che poi torna elasticamente alla sua forma originaria grazie al silicone.

Prossima tappa del team, che ha pubblicato la ricerca su “Nature Biotechnology” è ora quella di costruire un medusoide a partire da cellule di cuore umano. Prima però si cercherà di far evolvere ulteriormente l’androide, permettendogli di girare e muoversi in una direzione particolare, incorporando anche un semplice “cervello” così che possa rispondere all’ambiente in cui si muove e replicare comportamenti più avanzati, come dirigersi verso una sorgente di luce in cerca di energia o di cibo

ANCORA LEI – Sandro Capodiferro

Ancora Lei

Seduto su di un divano di certezze, guardo le immagini da uno schermo colorato mentre volute di fumo accecano i miei occhi: un provvidenziale fastidio per non vedere e fingermi distratto. Nel silenzio del mio salotto asettico e piatto, mi trovo ad ascoltare la voce di un anonimo cronista che riporta la notizia assurdamente declamata tra le tante che impegnano i neuroni per il solo tempo di una frazione di secondo, quasi a fiaccarne la gravità nella scusante di un palinsesto tiranno. Un’altra lei a riempire un minuto scarso di comunicazione, a ritagliare sulle coscienze dei più l’ennesima reazione di salvifico sconforto, mentre intorno a me tutto tace come in attesa di una ribellione che non arriva, se non dentro di me. Questo ambiente che mi accoglie descrive tutto ciò che mi accomuna ad un genere, ad una stirpe, a un modo di essere solo fortuitamente cromosomico. E’ maschile una tenda bianca e ritta sugli attenti, un mobile d’acciaio freddo e lucido. Lo è un frigorifero semivuoto convinto della sua astinenza da un proprietario pigro che spaccia tutto questo per essenziale e utile; è virile una tavola di vetro dove non mangi mai perché un tappeto ha tutto ciò che può servirti ad essere più maschio durante il tuo letale pasto a ventre gonfio e irsuto. E’ così che ci si uccide di soli carboidrati e proteine proclamandosi asciutti e troppo impegnati; si riempiono le vene di insalubri sostanze fatte transitare per gozzi voraci e mal rasati, si iniettano gli alveoli polmonari di nebbia argentea e puzzo di bruciato, rigettandone con maschia decisione pezzi di vita, sprezzanti del pericolo. Quella notizia già non è più nulla e quella lei galleggia nei pensieri di chi dorme consapevole e appagato di quanto tutto questo faccia da sempre drammaticamente parte del gioco. Ma quale è gioco? E’ quello della vita ed è la sua per giunta. Non è un discorso dal quale lasciarsi annoiare nel ripetersi continuo di una storia millenaria fatta di tante lei che nell’anonimato di un istante hanno svettato, celebri un minuto, per esser dimenticate il successivo. E allora guardo ancora la mia stanza e provo a disegnarla nello spazio di un pensiero come se tutte quelle vittime fossero qui. Vedo lo sguardo attento dai mille toni d’espressione, arguto, indagatore, vero, forte ma anche scettico, disilluso, coinvolgente, freddo, colato via in una riga di rimmel che lascia traccia liquida delle proprie emozioni. Ascolto nell’aria le parole giuste, salaci, spontanee o programmate, perfide o dolcissime, di conforto, d’ira o d’amore, pronunciate da bocche morbide e taglienti mentre i denti mordono la patina vivida di un rossetto che ne accentua il lucido pensiero. Seguo intorno a me i gesti di mani capaci di essere ali per librarsi in volo oppure forti strumenti di precisione durante le innumerevoli attività delle quali sono in grado; mani che accarezzano e ora graffiano la mia anima, lucide di smalto, bagnate di saliva. Raccolgo tutto questo intorno a me e me lo metto addosso per ricordare la lei che sono anch’io come lo siamo stati tutti e ancor lo siamo. Fin dalla nascita virile che per prima ha ucciso questa lei, perché essere maschi e non evolvere in uomini è come aver sedato nel cloroformio degli istinti più terreni quella parte femminile che sostiene ogni nostro gesto. Non capire questa nostra comune radice è una bugia della quale fare scempio, è la codarda ipocrisia che è divenuta necessaria per non sentirsi poco più di nulla a confronto di quelle tante lei per le quali una dimensione non ha mai fatto la differenza, un lavoro è sempre stato soltanto una delle tante facce della vita, un amore è diventato il luogo dove essere e non soltanto comparire per sparire impaurite. Sul mio divano ora mi rivesto di me, lavando via il rimmel di quegli occhi, il rosso delle bocche e il brillio di quelle unghie, confondendoli con le mie cromie di nulla come di sottomarca, dolce amica, portando te che ridi in un ricordo di quanto poveri son gli uomini quando per esser come te ti uccidono eliminando la fonte del confronto, illudendosi così di non averne, sodomizzati dall’effimera illusione di un possesso contro natura, come la vile assuefazione alla cronaca che ancora una volta parla di te.

Sandro Capodiferro