cronaca italiana

TUTTI I COSTI DEI CONSIGLI REGIONALI – Quanto pesano al cittadino

Ecco quanto ci costano i Consigli Regionali, Regione per Regione

A cura di Carlo Manzo

Lazio ma non solo, anche Sicilia, Sardegna e Lombardia fra le Regioni più sprecone. Tra indennità (stipendi dei consiglieri inclusi rimborsi spese, assicurazioni, benefit) vitalizi, somme destinate ai gruppi consiliari e spese per il personale, ecco quanto pesa, regione per regione, la macchina del Consiglio Regionale

LO SVILUPPO O LO SVILUPPO DELLA CORRUZIONE? Giuseppina Meola

L’avvocato Giuseppina Meola

LO SVILUPPO O LO SVILUPPO DELLA CORRUZIONE?

In occasione della recente conferenza internazionale dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico è stato diffuso il rapporto “Italia. Dare slancio alla crescita e alla produttività”.
Il documento e gli studi che ne costituiscono il prius logico-cronologico evidenziano quanto in Italia il livello di corruzione sia superiore a quello della media dei Paesi OCSE.
Il Presidente Monti è intervenuto sul punto stigmatizzando “l’inerzia non scusabile” di alcune parti politiche, che ha ostacolato l’iter parlamentare del ddl anticorruzione.
Non un fulmine a ciel sereno, ma l’ennesimo tuono in una notte buia e tempestosa per l’italica penisola, bagnata dal mare e affondata dalle falle partitocratiche, politichesi e finanziarie.
Un’Italia corrotta nel corpo e nell’anima. Nell’immagine!
Da questo dato preoccupante, ma non nuovo, si può procedere verso una breve riflessione in termini di raffronto tra la criminalità da strada e quella dei palazzi.
Il delinquente “semplice”, il mero mascalzone, che commette reati comuni, più o meno gravi, è considerato un criminale, è il reo per antonomasia, gode di pessima considerazione da parte della società. Ciò fa sì che la commissione di un reato ordinario tenda ad unire la collettività. La “gente onesta” si compatta per esprimere ad una voce la più dura riprovazione nei confronti di un ladro, di uno stupratore, di un omicida.
D’altra parte, il white collar crime ha una forza disgregante, alienante, rende tutti un po’ più monadi alla ricerca di un clinamen che non accenna a delinearsi.
I reati dei colletti bianchi mettono in discussione la legittimità dell’ordine sociale, la fiducia nelle Istituzioni, nella Giustizia, nel “noi” elevato a sistema!
I colletti bianchi appartengono alla classe dominante; un reato commesso da un colletto bianco è un reato commesso da chi ha potere. E’ il reato nelle mani di chi detiene il potere!
La corruzione e le finitime fattispecie penali inglobano la patologia dell’atto del singolo e macchiano il sistema, sporcano tutto e tutti, colpevoli ed innocenti.
Sono espressione del male delle società avanzate, più del traffico di stupefacenti, più del tanto pubblicizzato “delitto passionale”. Sono l’emblema della perversione del privato convinto che solo influendo con offerte, doni o promesse di doni sia possibile aprire le porte sulle meraviglie del pubblico ad uso e consumo ed abuso del privato.
E’ il reato che sale sul trono, che diviene dittatore della democrazia.
E’ il cancro capace d’infettare fasce sempre più ampie e capace di farlo sempre più velocemente.
L’evoluzione tecnologica nelle strutture deputate agli scambi di moneta e titoli, la moltiplicazione delle transazioni finanziarie, le enormi possibilità di connessioni intersoggettive, lo sviluppo del remote banking fanno sparire il provincialotto che porta il cappone all’impiegato piccolo borghese.
In un mondo che è villaggio globale si assiste anche alla globalizzazione della corruzione.
Ecco perché sentirsi dire che l’Italia è più corrotta della media OCSE disgrega ad un livello maggiore: internazionale, sovranazionale.
Non si può e non si deve cadere vittime della logica da erba sempre più verde nel giardino del vicino, ma, allo stesso tempo, non si può trascurare che sentirsi etichettati quali “cattivoni più cattivi degli altri cattivi” ha un peso in termini di fiducia globale, di capacità di attrarre investitori esteri, di spread.
Nel 2013, sulla base dei dati forniti dal Consiglio d’Europa, dall’OCSE e dalle Nazioni Unite nonché da esperti indipendenti, verrà pubblicata una relazione sulle dimensioni del fenomeno della corruzione e sulle buone pratiche realizzate dagli Stati membri dell’UE per contrastarlo.
L’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione, datata 1999!!!
Quale aderente al Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO), il nostro Paese è stato sottoposto a valutazione, sfociata in un rapporto finale nel quale si rileva che, malgrado la determinata volontà della magistratura inquirente e giudicante di combatterla, la corruzione è percepita in Italia come fenomeno consueto e diffuso, che interessa l’urbanistica, lo smaltimento rifiuti, gli appalti pubblici, la sanità e la pubblica amministrazione. Il rapporto rivolge all’Italia ventidue raccomandazioni, suddivise tra il settore della repressione e quello della prevenzione, ritenendo che la lotta al fenomeno deve diventare una questione di cultura e non solo di rispetto delle leggi.
Siamo al cospetto di una minaccia allo sviluppo, alla democrazia e alla stabilità, attraverso la distorsione dei mercati e l’erosione sia del servizio pubblico sia della fiducia nei funzionari pubblici.
Il prezzo della corruzione è alto (circa l’1% del PIL dell’UE). Ancora più alto se letto in chiave sociale tout-court.
All’aumentare della crisi aumenta la percezione ed il collegamento con il dato che è sotto gli occhi di tutti, coinvolgendo il concetto dinamico di cittadinanza, profondamente intriso dell’idea di progresso economico-capitalistico.
Per i giuristi segna il passaggio dai diritti civili a quelli politici e poi a quelli sociali.
Il taglio socio-politico degli studi permette di convogliare una serie di gravissimi problemi che evidenziano, per esempio, la tendenziale incompatibilità dell’economia di mercato in relazione all’affermazione di effettivi diritti sociali.
Nella nostra tradizione giuridica, il nucleo concettuale di cittadinanza è dato dall’appartenenza. Un soggetto è ascritto ad uno Stato e perciò è titolare di diritti e doveri. Se lo Stato è la fonte esclusiva della produzione giuridica, diviene storicamente il garante dei diritti nel momento in cui, divenendo Stato costituzionale, è esso stesso a positivizzare e porre quei diritti.
Oggi evidentemente la sovranità degli Stati è profondamente in crisi, così come il concetto di garanzia dei diritti medesimi.
I surrogati (holding, banche, furbetti vari) non hanno legittimazione di sorta, non offrono l’idea di appartenenza: non si può essere cittadini di una banca, ergo manca chi tuteli effettivamente il cittadino, sempre più in balia di un meccanismo perverso e malato.
La bilancia del potere tra la politica e l’economia, tra i governi e le multinazionali pende sempre più inequivocabilmente a favore delle grandi corporazioni. Come scriveva Willke, rispetto alla politica esse possiedono il vantaggio di un’opzione strategica aggiuntiva accanto a voice e loyalty, quella di exit verso collocazioni più vantaggiose.
La partita si gioca tra lo scetticismo circa le residue capacità di governo delle istituzioni politiche ed il razionalismo giuridico che mira ad uno Stato costituzionale e cosmopolitico, capace di dare attuazione a rivendicazioni anche etiche.
Ecco dunque, l’importanza di una seria presa di posizione del legislatore italiano sul tema della corruzione, al fine di ripristinare o semplicemente rinsaldare l’asse verticale protezione-obbedienza, allo scopo d’impiegarlo come una bussola nella difficile navigazione dei cittadini irrequieti, sradicati, sfiduciati, quasi “meno cittadini”.

Avv. Giuseppina Meola

I FIORI INNOCENTI DELL’INVERNO – Salvatore Maresca Serra

Salvatore Maresca Serra

TEOCRAZIA O RATIOCRAZIA – EDITORIALE

Quando parliamo di comunicazione globale ci accade di immaginare prevalentemente il globo usufruttuario del progresso, beneficiario della portata, con tutti i suoi popoli, priva d’ogni barriera, quindi libera: con una parola ancora in uso “moderna”. Dimentichiamo spesso (troppo), noi occidentali e tecnologici, proiettati verso la natività digitale, che la nostra post-modernità convive con il corso storico di altre civiltà, globalizzate di fatto ma ancorate a ben altra globalità: la teocrazia.

I  FIORI  INNOCENTI  DELL’INVERNO

Quando parliamo di comunicazione globale ci accade di immaginare prevalentemente il globo usufruttuario del progresso, beneficiario della portata, con tutti i suoi popoli, priva d’ogni barriera, quindi libera: con una parola ancora in uso “moderna”. Dimentichiamo spesso (troppo), noi occidentali e tecnologici, proiettati verso la natività digitale, che la nostra post-modernità convive con il corso storico di altre civiltà, globalizzate di fatto ma ancorate a ben altra globalità: la teocrazia. Accade che il nostro dio è morto, ma lo abbiamo dimenticato nel coma farmacologico a cui lo abbiamo sottoposto, secolarrizzandolo e relativizzandolo, mentre il dio altrui è bello che vivo: sente, reagisce, presenzia la storia e v’interagisce, è capace di motivare ardentemente anche il supremo sacrificio, la vita, e attende i suoi figli martiri nel paradiso con la sua riconoscenza tangibile. Noi non ci scandalizziamo più di niente, chi ha un dio vivo sì. Noi siamo in un corpo inscalfibile perché morto agli dèi e rinato alla neodèa Ragione rivoluzionaria, non abbiamo quindi più il divino dietro o dentro le istituzioni civili, stati e rupubbliche e leggi. Non c’indigniamo neanche se il nostro comatoso dio viene fatto accoppiare e riprodurre biologicamente, o se viene tentato per l’ultima volta sulla croce, o se diventa una pop star in una commedia rock. E, in ogni caso, quello che resta nel laico del religioso è solo un dio d’amore supremo, che si offre al martirio e alla morte di croce, e che predica insegnando la non violenza perché il suo regno ultramondano vale di più di questo, ammesso che (questo) non sia solo il regno della corruzione del pensiero forte, quindi, nel post-moderno, diventato filosoficamente debole per forza di cose. Le nostre verità vacillano ormai da una sponda all’altra della logica come risposta fisiologica agli assoluti mendaci di un passato sorpassato. L’emancipazione dalla fede ci ha resi credenti neopagani, e così i nostri miti sono nostri contemporanei, possiamo ascoltarli ai concerti e magari strappargli un autografo, possiamo addirittura ancora e nuovamente anche accoppiarci, con questi dèi di un olimpo patinato, markettizato, in vendita. Senza dimenticare che il primo dio posto in vendita nell’occidente è stato precipuamente quello che concedeva indulgenze e perdono a pagamento, nell’enorme operazione di marketing di Leone X e dei frati domenicani. A nulla sono valse le proteste e le tesi di Wittenberg: ormai la vendita era irreversibile. Ciò ci ha resi tutti in vendita: puttane ansiose pronte al miglior offerente,  che ha il suo nome nel “profitto”, e la sua identità nella reificazione. E, di profitto in profitto, abbiamo incorporato nel nostro corpo debole le moschee di un dio vivo, le sue comunità di fedeli, le sue culture e subculture sfaccettate, il suo petrolio-sangue indispensabile, abbiamo anche rimosso dalle scuole il nostro povero dio crocifisso, quando ci è stato detto che tenerlo appeso costituiva un atto antipluralistico. Noi occidentali siamo sempre più riproiettati nell’imitazione dell’impero romano: lasciamo convivere le religioni e le culture e gli uomini senza volerli deformare, non c’interessa farlo, e poi perché, cui prodest? Basta che paghino le tasse, siamo protesi a dargli cittadinanza, a immetterli nel corpo civile, a occidentalizzarli depotenziandoli con i diritti, i piaceri industriali, l’infinità dei desideri pubblicitari, e dulcis in fundo con la professione di fede democratica: il libero pensiero.

Noi siamo laici. Pluralisti. Democratici. Liberi.

Ma siamo certi che tutta questa libertà gl’interessi davvero? Siamo altrettanto certi che il loro dio o il loro profeta siano entrambi inclini a prostituirsi anch’essi? Oppure, siamo in condizione di offrirgli una vera libertà? Di esemplificarla? E poi: cos’è la libertà?

Quindi se il mondo multietnico che abbiamo teorizzato con la globalizzazione ci si rivolterà in pancia, con la Medea di Seneca, dovremo dirla tutta: cui prodest scelus, is fecit…

Nel mio romanzo d’esordio – Il Costruttore di Specchi – in uscita l’anno prossimo, ho trattato della comunicazione di massa, della rete, delle religioni, delle verità contrapposte tra esse. Così ho posto una serie di domande a me stesso e al lettore, e tutte vertono su una sola cosa: l’equilibrio del mondo contemporaneo. Quanto è forte? Quanto è fragile? In quanto tempo può modificarsi? In relazione alla comunicazione globale, ho intravisto scenari nei quali le guerre acquisiscono nuove e impensabili armi come un semplice piccì e una connessione internet, a patto che li si sappia usare. Le risposte probabili a questi nodi sono sotto gli occhi di tutti: sono i fatti e non le idee. L’ideazione la fa il mondo, nel suo proprio caos perfetto. Produce fatti alla velocità digitale. E ne conserva all’infinito la memoria, almeno fino a che i server resteranno in vita. Perché di vita si tratta. In un passaggio della trama ho sfiorato anche la profezia Maya. Mi sono chiesto se le condizioni dell’estinzione della specie umana, la più predatrice e assasina di tutte, siano più presenti oggi che in precedenti periodi storici. Al di là delle condizioni cosmiche, delle catastrofi naturali, e del destino dei calendari, caduti nelle mani dei gesuiti. I fatti di questi giorni sembrano indicare che le condizioni per una guerra globale ci sono tutte. Affatto, il progresso tecnologico ha percorso una serie di avanzamenti segmentati ognuno con una sua comune stimmata: il disinteresse verso le multiple implicazioni. Gli effetti della globalizzazione asincroni, la discrasia sistemica dei vecchi poteri inoculata dalla nuova consapevolezza della comunicazione di massa, tra le culture mondiali, tutti gli elementi indispensabili ad uno squilibrio che si pone nella genesi della nuova comunicazione-partecipazione interattive: essi sono gli elementi. È normale che gli elementi vi siano, là quando e dove nasce una nuova cultura del comunicare. Un bigbang dello stare insieme. Insieme nella stessa stanza del mondo: la propria, seduti davanti ad un computer che contiene l’intero mondo.

Ma ormai è obsolescenza anche la stanza. Le guerre si fanno coi telefonini di nuova generazione, camminando, fotografando per tutti, filmando, scrivendo, comunicando.

Se c’è un paradosso lampante è che non siamo affatto nella babele, ma di contro in un linguaggio universale. Ognuno capisce perfettamente il sublinguaggio dell’altro. Ognuno spia le debolezze del sistema altrui. Ognuno cerca di controllarle e metterle a frutto.

È storia di adesso.

La storia di un video che ha compromesso definitivamente la potenzialità di specchiarci gli uni negli altri. Gli specchi si sono rotti. Il progresso si è frammentato in due schegge precise. La dualità riemerge. È il momento dell’assoluto. L’assoluto è forte. Manca di autocritica, e la sua forza – da sempre – è questa. Il divino – nella sua cronica condizione pre-storica – è preistorico. Non ragiona perché la dea Ragione non la conosce. Il divino uccide. Il divino condanna senza appello. Il divino ha ancora un popolo, e non siamo noi.

Non verrà quest’anno la fine del mondo? Chi può dirlo? Non verrà, ne sono certo. Ma le condizioni le abbiamo create noi, e sono lì, tutte pronte per usarle. Se i gesuiti incendiarono o inquinarono ogni possibile residuo delle conoscenze Maya, una cosa – anche senza la speculazione new-age – ci è giunta. E non ci piace.

Non siamo preparati a lottare contro un dio. Non lo saremmo mai. Certo, abbiamo ghigliottinato l’ancien régime con la nostra dea Ragione per procedere poi ad affermare libertà, fraternità e uguaglianza. Ancor prima i papi hanno riconquistato il santo sepolcro strappandolo con la guerra giusta di Agostino agli “orribili musulmani”. E, tra santa e giusta, ci è sembrato che fosse la giustizia ad uscirne vittoriosa. Abbiamo anche assegnato una patria a Sion, prima durante e dopo la shoah. La nostra sentinella, il nostro avamposto nel mondo di Maometto. L’abbiamo dotata di termonucleari. Abbiamo puntualmente derubricato ogni sua inadempienza ai trattati ONU territoriali con la Palestina. Abbiamo così forse parteggiato per il dio degli eserciti, ma il sincretismo religioso ci è sembrato una soluzione ideale per affermare con Giovanni Paolo II che, in fondo, Dio è Uno. Soltanto uno. Gli immensi e indecodificabili intrecci dei capitali ebraici non ci sono sembrati mai nemici, e nel nostro immaginario l’escalation nucleare bellica di Israele non ci ha mai visti veramente turbati, a differenza di quella iraniana, o della presunta e posticcia irachena; entrambe minacce insopportabili che hanno turbato e turbano i popoli a cui apparteniamo. Avevamo un trattato di non proliferazione nucleare che ci metteva al riparo. Credevamo. E, se non bastava, le false prove di Tony Blair ci hanno permesso di rimuovere il dittatore Saddam Hussein e di bombardare democrazia intelligente come pacco regalo ai civili. Se guardiamo attentamente l’Iraq di allora e quello di oggi, i risultati civili sono lampanti. La difficoltà connaturata alla nascita e crescita della democrazia ci fa dire che poi, tutto sommato, se scoppiano ogni santo giorno i corpi e le vite di centinaia d’innocenti è tutto sotto controllo, tutto regolare, storico, plausibile, giusto, il prezzo è giusto. È sempre la dea Ragione che ci anima e ci esenta dal poter anche pensare che ogni cultura forse trova il suo naturale equilibrio da sola. E che, forse, la nostra valorosa  e sanguinaria democrazia ha solo dato la stura a infinite e interminabili lotte tra etnie e fedi e politiche diverse, che nella libertà hanno trovato il loro campo aperto di battaglia. Ormai non riusciamo più a tenere il conto dei morti, mentre non ci sfugge mai quello dei nostri soldati, che abbiamo mandato lì per istruire sul posto alla pace, al non confliggere, alla stabilità della politica, alla cultura delle elezioni e dei governi autonomi democratici. In Afghanistan abbiamo cercato in lungo e in largo Osama Bin Laden, con azioni militari degne di un film di fantascienza, penetrando finanche il sottosuolo e le caverne con le nostre bombe magnifiche e magnificenti. Mentre i droni hanno dimostrato tutta la loro impagabile intelligenza sterminando decine di migliaia di civili d’ogni età. Abbiamo isolato i talebani rendendoli inoffensivi politicamente. Abbiamo posto alla presidenza un uomo pulito e fuori da ogni logica del crimine… Se non siamo del tutto riusciti a smantellare le coltivazioni dell’oppio, forse è perché abbiamo una forma di partecipazione umana al dramma economico di quei poveri contadini, o chissà, forse ci saranno altre ragioni. Ragioni, ragioni, ragioni. Sono tutte ragioni. Abbiamo ragione, sì: noi abbiamo sempre ragione. I torti non sono mai i nostri. Basterebbe leggere anche superficialmente Noam Chomsky per rendersene conto. Se anche è stato un insuccesso il nostro in Afghanistan, con migliaia di nostri concittadini giovani soldati, a volte rimasti uccisi, da sporadici attentati, ci siamo tolti gli schiaffi dalla faccia quando Osama lo abbiamo preso, ammazzato a casa sua, sbattuto sulle pagine dei giornali di tutto il mondo e sulla rete di tutti. La Ragione ci ha dato ancora una volta ragione. Ad libitum, ancora “forse”. E, se tutto si compie in stagioni pre-elettorali o elettorali, neanche ci sogniamo di analizzarle, le ragioni. Sogniamo d’essere fatti della stessa sostanza della realtà, scriverebbe oggi in una nuova tempesta William Sheakspeare. E avrebbe anch’egli ancora ragione. Netanyahu minaccia Obama di spostare i voti degli ebrei nell’Ohio e in Florida a Romney se non scenderà affianco ad Israele in guerra all’Iran? Questo potrebbe farci ipotizzare che dietro il filmaccio che insulta Maometto vi possa essere una strategia compulsiva a latere ebraica anti-islamica, e che potrebbe anche essere concordata con Romney? Sono “ragioni” queste?, mi domando. E perché dovrebbero interessarci più di tanto? Non è forse dotata di automatismo asettico e impersonale la Ragione che “anima” noi occidentali? Abbiamo questione etiche che ci tolgono il sonno? Abbiamo capacità di scegliere concrete? Noi, per esempio italiani, abbiamo avuto qualche chance di scelta per l’avvento di un governo di tecnici?, e di un presidente del consiglio che proviene da Bilderberg – http://www.bilderbergmeetings.org/index.php, Goldmann Sachs – http://www.goldmansachs.com/, Trilateral – http://www.trilaterale.it/, Moody’s – http://www.moodys.com/ e chi più ne ha ne metta? La ragione dovrebbe fornirci una risposta: infatti è “No!” Ma quanto è razionale questa risposta? Quanto è democraticamente plausibile che un presidente della repubblica che occulta i suoi dialoghi con un indagato, e sospettato da molti di mafia può anche decidere chi deve governare il paese? Ed è accettabile? Se non gli interessa lasciare in eredità ai suoi successori un fulgido esempio di trasparenza, ci domandiamo perché – se tanto gli sta a cuore la democrazia quella vera – vuole lasciare tutto il suo conflitto di competenza, invece? Troppo potere ai magistrati impegnati nella lotta alla Mafia? Isolarli ancora di più è democraticamente corretto? Non coincide forse col deprivarli d’ogni scudo delle istituzioni dello stato? E perché il presidente minimizza enfaticamente il boom del Movimento 5 Stelle? Non è forse il fenomeno più interessante e problematico che emerge nel paese? Un presidente della repubblica italiana non dovrebbe essere invece un acuto osservatore e ratificatore delle realtà che si fanno strada dal basso verso la politica? Non dovrebbe non perdere mai l’occasione d’essere il primo a prenderne atto in nome di tutti i cittadini? In nome della Storia? E non dovrebbero i nostri media centrare – visto che sono veramente bravi – il vortice attorno a cui si rende possibile il fenomeno Grillo? Non è forse la rete e la comunicazione globale quel medium affrancato dalla istuzionalizzazione data dalla televisione ai fatti che dovrebbe farci toccare con mano che, quando si parla di rinnovamento, bisogna non uscire mai nel ragionare dal “del veicolo oltre che della sostanza”? Non potrebbe essere che solo chi ha in mano e tiene stretto il veicolo mondiale nuovo della partecipazione può avere un futuro, da qui a qualche breve anno? E questo non dovrebbe determinare una nuova consapevolezza anche nei partiti e nei media dell’establishment mainstream? E, da qui a qualche anno, non saranno forse defunti realmente quelli di cui Beppe Grillo dice “vi seppelliremo”, con la loro clientela storica? Siamo troppo vecchi per scorgere il nuovo del rinnovamento, in Italia? Probabilmente, chi dovrebbe accusare il dovere (ché così accade coi doveri) verso se stesso e i suoi elettori di cavalcare l’onda del vero rinnovamento parla di rottamare senza sapere di cosa parla. Non sono stati i trasportati dai carri, ma le ruote la grande rivoluzione del genere umano, perché potevano salirci tutti, sulle ruote. La ruota contemporanea è destinata a far girare il mondo intero, come abbiamo visto. E si chiama internet. Può creare una democrazia liquida? Voi che dite? Diretta? Voi che dite? È così difficile fare una previsione a breve? La “maledetta primavera che fretta c’era” scritta da molti su Twitter di cinque giorni fa, primavera o non primavera, non si è affermata nella e con la rete e con i cellulari? Allora, al di là della sostanza, quanto vale la nuova ruota?  Le prime elezioni di Obama, e quelle di adesso, dove corrono?, sui fili del telegrafo? E non è stato il petrolio a cambiare il mondo dal secolo scorso in pochi anni definitivamente?

Non ragionare della tecnologia, non investire nella ricerca, non curare la scuola pubblica significa trascinare un popolo nella stessa propria morte cerebrale. Quello che ha fatto l’ultimo governo Berlusconi agli italiani vale esattamente in termini negativi: dobbiamo interrogarci sulla quantificazione oggettiva del valore di ciò che Berlusconi non ha fatto in questi anni. Ed è presto fatta la stima: la risposta è la posizione dell’Italia nell’Europa, con un governo di tecnici. In parole povere, il massimo possibile del peggio che Berlusconi e la sua inconsapevole (ma non incolpevole) ignoranza ha prodotto. Quella stessa che gli fa pronunciare goo-gle al posto di gu-gh-l…

La stessa inaccettabile ignoranza muove Mario Monti verso l’attacco allo statuto dei lavoratori. Anche qui la questione resta la pronuncia dei nomi: statuto dei lavoratori ha un suono civile, sanguinoso, storico, patriottico, italiano-puro in assoluto; per Mario Monti statuto dei lavoratori ha un suono cachettico da prolasso neuronale, amorale e immorale al contempo, sordido e subdolo come tutte le cose che pronuncia, anche sorpassando Berlusconi nella cacofonia etica di un italiano-spurio senza patria e storia. E, se abbiamo un governo senza storia né patria, che storia è questa? Dobbiamo chiederlo a Napolitano? Ad ABC? O piuttosto non possiamo domandarlo al nostro cuore ché alla Ragione? Quanto populismo vi è stato nell’inneggiare a un presidente non politico? Molti hanno ravvisato in questo uno slancio civile di onestà perché super partes. Li ho visti, li ho ascoltati per strada, nei luoghi che frequento, ovunque. Erano prevalentemente persone di mezza età, o anziani, dicevano in coro “sa il fatto suo”, “è uno onesto”, “basta politici, ci voleva Monti”, “un dono dell’onestà di Napolitano al Paese”… Ma ora siamo al redde rationem, e i dati ci dicono cosa ha fatto Monti per noi tutti, questa volta chiediamo alla ragione.

Ognuno può e deve rispondersi, ma non con un cor duplex.

Monti è super partes?… O non piuttosto è super partners?… I suoi naturali partners, per colpa o per ignoranza, siamo noi. I cittadini. Ripeto: la Ragione nel nostro mondo è solo un automatismo. Non ci vede protagonisti. Non abbastanza da sopravvivere ai soprusi. Non abbastanza da avere anche noi un dio che ci fa scendere in piazza e fare la rivoluzione. Magari un dio non preistorico, ma dentro la storia. Lo stato, per molti, è una entità distinta dalla nostra, con soluzione di continuità. Perché la soluzione è stata resa troppo facile, e quel po’ di benessere che ci hanno fatto introiettare si è reso efficace per rinunciare nonsolo all’identità, ma al pensiero. Si sa: i cani alle mense dei potenti non pensano: aspettano solo quell’osso a cui attribuiscono anche funzioni taumaturgiche che gli verrà lanciato, tra oscene risate, nell’orgia del baccanale politico. E siamo all’osso ormai. E, molti tra noi, sono stati cani. Molti ancora lo sono e lo resteranno.

Se c’è una menzogna è giudicare populista la ribellione del cittadino. La sua voce che si vuol far passare per isterica, per demenziale, per comica o capocomica o capofallica. Va da sé che siamo tutti teste di cazzo per i potenti, e da tali ci trattano. Quando la Merkel e Monti, come un suono e una meccanica eco, dicono “c’è il pericolo di nuovi populismi e disgregazioni nell’Europa”, stanno dicendo “guardate, che c’è il pericolo che le teste di cazzo si sveglino, che comincino davvero a ragionare, perché gli ossi stanno finendo, e questi vanno verso il potere”…

Grillo e Berlusconi sono come la Terra e la Luna. Grillo raccoglie da terra quello il senno di Berlusconi, nell’ampolla sulla Luna, ha seminato gettandolo. I cittadini morti-macerati nella terra ora fioriscono, e danno frutti. Sono semi figli d’altri semi gettati da sempre perché non valgono nulla per il politico medio. La politica non può permettersi programmi e ideazioni lungimiranti, la società civile sì! Se Monti e Casini e Fini e altri s’inventano un nuovo degasperismo e si riempiono la bocca di statismo, di una attenzione alle nuove genrazioni, è solo perché non vedono che le nuove generazioni sono già qui. Non potrebbero: la sete di potere li rende ciechi, stolti, inutili, dannosi, perniciosi, ottusi, idioti. Sine baculo. Il solo potere che gli rimane si regge solo su se stesso, nel palazzaccio che dice Renzi, sfortunatello, ma che non distingue dalla sua casa. E se si rivolge ai mentecatti-delusi di Berlusconi è perché attua un autentico neopopulismo nel definirsi “giovane”. Renzi ha perso il suo treno: non sarà mai giovane quanto lo è la storia. Perché finge di non vederla. Lo dico con simpatia, ma in realtà dico la cosa peggiore che posso perché non posso altro: fingere e peggiore ch’essere davvero ciechi. Il sogno di Renzi è essere qualcuno. E chi sogna questo è perché sente di non esserlo, e profondamente. Chi oggi “è” non ambisce ad una società verticale. La piramide lascia il posto ad uno scenario liquido, paritario e paritetico alla sua propria interscambiabilità e al suo rinnovarsi di continuo. È tardi per tornare indietro, anche per Renzi che proclama il mandato dei cittadini nella politica limitato. Ma sa bene che le sue ambizioni sono lungimiranti, se in realtà non fossero anacronistiche. Quando dico “sfortunatello” non è per dileggiarlo, ma perché appartiene ad un mondo in disfacimento. Ed è tardi per tornare indietro. Se anche ce la facesse, se raccoglierà il consenso che merita la sua intelligenza, o la sua furbizia, la sua problematica diventerebbe insopportabile. Il partito ritorna ab ovo usque ad mala. E mi sembra che siamo alla frutta. Quelli che sopravviveranno saranno sauri nei musei di scienze naturali del giurassico, da qui a poco. La sola forma futuribile è il movimento delle opinioni. Le strutture partitiche piramidali, i dirigenti, i moduli molecolari dell’architettura gerarchica territoriale, dal basso all’alto e viceversa sono fantasmi per buona metà o tre quarti. L’opinione in rete li scardinerà del tutto: frammenti di un passato obsoleto.

Avremo sempre più rapidamente un contrapporsi di obsolescenze paradossali nel mondo. Superata e a-funzionale sarà la democrazia come l’abbiamo immaginata finora. Le sue anime conservatrici repubblicane o la destra, quelle progressiste o la sinistra con tutta probabilità e in breve si ritroveranno disarticolate da una società civile a cui non interessa minimamente né stare a destra né a sinistra, e che – dove c’è ancora – ha capitalizzato già da tempo la fregatura del centro.

Il paradosso emergerà dal contrasto stridente tra un mondo evoluto e democratico e un altro che giudichiamo medievale, perché fanatico, teocratico, che ignora del tutto la libertà, i diritti, la secolarizzazione del clero, lo stato laico. E quindi la nostra dea Ragione. Eppure il loro dio cammina nuovamente su gambe giovani, e forse, per questo, “innocenti”.

E la loro primavera non a caso rischia di fiorire in inverno, il nostro inverno.

E non è quella che avevamo immaginato.

Salvatore Maresca Serra – Roma, 17 Settembre 2012

Ecco la lista segreta degli abusi edilizi. Da vip a calciatori passando per Ama, Acea e Comune – Oggi querele contro Francesco Barbato per l’interrogazione parlamentare

In seguito all’interrogazione parlamentare del deputato Idv Francesco Barbato, vi riproponiamo il contenuto di un aricolo apparso su La Repubblica, che denuncia migliaia di abusi edilizi nella capitale. In questi giorni Barbato ha interrogato sulla presenza di un ristorante addirittura presente negli scavi archeologici di Paestum. Il risultato è una minaccia di querela da parte del sindaco di Capaccio. Dal sito di Francesco Barbato http://www.francobarbato.com/fb/it/1028-scavi-paestum-le-prime-reazioni-alla-mia-interrogazione

“In seguito alla mia interrogazione parlamentare in cui ho denunciato la presenza di un ristorante all’interno degli scavi, dove peraltro il canone di locazione è irrisorio, il sindaco di Capaccio ha risposto definendolo un ritornello già sentito. “Si tratterebbe solo di un abuso risalente agli anni ottanta per il resto è tutto regolare, farò querela al deputato Barbato e dei soldi che otterrò di risarcimento farò beneficenza” come riportato da La città di Salerno. Sarà la magistratura ad accertare la regolarità del caso, nel frattempo spero che l’opinione pubblica si renda conto che siamo stanchi di privilegi e abusi di potere.”

Ecco la lista segreta degli abusi edilizi. Da vip a calciatori passando per Ama, Acea e Comune

ROMA – C’è chi si è costruito un box nel parco di Veio, chi ha ampliato la terrazza vista fontana di Trevi, ci sono preti, vip, calciatori. Il quotidiano ‘La Repubblica’ pubblica oggi una “lista nera” di abusi edilizi nella Capitale, dal centro ai parchi pubblici. Una lista di nomi, tra cui comparirebbe anche il Comune di Roma, che avrebbero fatto abusi edilizi in aree con vincoli strettissimi. Secondo quanto scrive ‘Il Corriere della Sera’, due settimane fa un blitz della polizia giudiziaria all’ufficio condono di Roma avrebbe portato al sequestro di cinquemila pratiche.
La lista “segreta”, scrive ‘La Repubblica’, è contenuta in due cd creati dalla società Gemma Spa all’epoca del condono edilizio del 2003 e sequestrati due settimane fa all’Ufficio condono edilizio. All’interno dei due cd sono contenute tutte le 85 mila richieste di condono che arrivarono allora, le foto aeree di quegli abusi e la valutazione sulla possibilità di concedere o meno il condono. I cd, scrive ‘La Repubblica’, sono stati consegnati dalla società Gemma ad Alemanno nel giugno scorso e scorrendo quelle liste, secondo il quotidiano romano, si trovano 12mila casi di abusi che Gemma ha considerato non condonabili. Solo, fa notare ‘Repubblica’, per quegli immobili il Comune di Roma non ha proceduto nè all’abbattimento nè all’acquisizione. Tant’è che, secondo il quotidiano romano, la procura di Roma si è accorta che qualcosa non va e pochi giorni fa ha sequestrato, negli archivi di Gemma, 5000 pratiche fuori termine. Vuole capire perché non sono state notificate ai proprietari.
Ma vediamo chi si celerebbe dietro queste “liste nere”. Scrive ‘La Repubblica’: “Tra chi ha provato a fare il furbo chiedendo il condono per una struttura costruita ampiamente dopo il 31 marzo 2003 – i cosiddetti “fuori termine”, circa 3.712 pratiche – spunta il nome di Luigi Cremonini, l’imprenditore modenese leader nel commercio della carne e proprietario di tre catene di ristoranti, che dal giorno alla notte si è costruito una terrazza modello villaggio vacanze in uno dei punti più pregiati di Roma, di fronte alla fontana di Trevi. O come Federica Bonifaci, figlia del costruttore Bonifaci (anche editore del Tempo) che ha dato un’”aggiustatina” alla sua casa ai Parioli. Di vip o anche solo di personaggi e istituzioni in vista nell’elenco ce ne sono a volontà. Si va da Maria Carmela d’Urso, alias Barbara d’Urso al calciatore nerazzurro ed ex laziale Dejan Stankovic, da Luciana Rita Angeletti, moglie del rettore della Sapienza Luigi Frati, all’Istituto figlie del Sacro Cuore di Gesù”.
“Le congregazioni religiose hanno una certa dimestichezza col cemento – scrive ancora ‘La Repubblica’ – Nella lista nera figurano le Suore Ospedaliere della Misericordia, la Procura Generalizia delle Suore del Sacro Cuore, quella delle missionarie di Madre Teresa di Calcutta e la Famiglia dei Discepoli della diocesi romana. Non mancano i templi dove la Roma bene ama riunirsi per celebrare i suoi riti di socialità. Il Parco dè Medici sporting club, il country club Gianicolo, il Tennis Club Castel di Decima, la discoteca Chalet Europa nel parco di Monte Mario. E nemmeno le ville mono e bifamiliari con piscina dell’alta borghesia, cresciute come gramigna nel parco di Veio, ai lati di via della Giustiniana, la strada più abusata di Roma. Ancora, scorrendo la lista balzano agli occhi decine di società immobiliari, alcuni distributori di carburante della Esso e la sede centrale della “Fonte Capannelle Acque Minerali” nel parco dell’Appia Antica. L’aspetto più buffo o forse drammatico è che nell’elenco dei più furbi tra i furbi compaiono anche molte aziende comunali di servizio, come l’Ama, l’Acea e addirittura Risorse per Roma, la municipalizzata che da gennaio ha il compito di occuparsi proprio delle pratiche di condono“.
Poi, secondo ‘La Repubblica’, ci sono gli abusi edilizi nei parchi pubblici, su cui grava un vincolo ambientale strettissimo. Secondo il quotidiano romano, ad essersi reso artefice di un abuso edilizio, sarebbe stato anche il Comune di Roma che avrebbe poi chiesto a se stesso un condono pur sapendo fosse impossibile ottenerlo. “La manovra serviva a ‘legalizzare’ – si legge – un’opera abusiva in via del Fontanile di Mezzaluna, in pieno parco del Litorale romano dove i limiti all’edificazione sono strettissimi”. Tra gli altri nomi presenti nella lista di questi abusi nei parchi, si legge su ‘Repubblica’, ci sono “Tosinvest spa, la finanziaria della potentissima famiglia Angelucci, i signori delle cliniche private nonché editori di Libero e il Riformista. A nome di Tosinvest spa ci sono tre domande di condono per una struttura aziendale nel parco dell’Appia Antica. In quello di Veio c’è un abuso a nome di Acea Spa, il colosso dell’energia e dell’acqua per metà pubblico (proprietà appunto del comune di Roma), in parte nelle mani del costruttore Francesco Caltagirone“.

L’articolo riprende La Repubblica del 11 marzo 2011

 

LE OPINIONI IMPEDISCONO AI FATTI DI ESISTERE? Enrico Maria Troisi


Angelo di Carlo, 54 anni, si è dato fuoco davanti a Montecitorio il 12 agosto, nella calcolata (?) indifferenza dei media, ed è morto ieri. Lascia 160 euro in eredità al figlio superstite. La notizia è stata filtrata, trattenuta, o altro, per cui Angelo di Carlo non s’è mai ucciso fin quando non è morto! Un dramma privato (il Di Carlo risulta vedovo, disoccupato) sfociato in un martirio pubblico non merita alcuna riflessione, nè un approfondimento, nè niente, fin quando non sia accertata l’adesione dell’uomo ad una qualsiasi delle sigle sindacali o ai gruppi di attivisti che popolano il panorama della rappresentanza politica italiana (non certo i Partiti). Anzi “guarda e passa”, come nella ritirata dell’Armir: quando devi salvare la pelle metti a riposo la coscienza. Angelo di Carlo non ha neanchè la dignità di diventare una statistica. Deve essergli andato tutto Murphynianamente storto nella vita, come, ahimè, nella morte. Si dirà che “era instabile”, “impulsivo”, “fanatico”, “oltranzista”, “coerente” e pure “depresso”. O tutto,al contrario, che il suo gesto è Anomico, per dirla alla Durkheim, o frutto di un calcolo sbagliato: non c’erano sufficienti media è la benzina aveva troppi ottani! Si sprecheranno esegesi psico-sociologiche, da sbattersi in faccia fra i professionisti della politica per attribuirsi, secondo le convenienze, colpe, responsabilità e meriti dell’attuale situazione. Ma un fiore ed un fondo di solidarietà potrebbero significare molto, ma molto di più di una prima pagina di sdegno…..

Enrico Maria Troisi

http://roma.repubblica.it/cronaca/2012/08/19/news/si_diede_fuoco_davanti_a_montecitorio_e_morto_il_disoccupato_ustionato-41170172/

Risposta a Salvatore Spoto:

Caro Salvatore Spoto, la scelta concernente l’immagine che accompagna il breve articolo di Enrico Maria Troisi riguarda solo la redazione di questo blog, quindi me personalmente e inequivocabilmente (…). Tengo a sottolineare che tale immagine è apparsa – molto prima di questo articolo del Prof. Troisi (psichiatra e criminologo, che ci onora della sua presenza nella redazione) – su tutti i media internazionali, e ha fatto il giro della rete, evidentemente non essendo sottoposta ad alcuna censura o a qualsivoglia critica del genere che lei menziona – “paura ed emotività”. Ritengo che siano ben altre le immagini che vadano sottoposte a tale critica, e non questa che – a prescindere dall’uso che l’informazione ne ha fatto, istituzionalizzandola quale “documento” al pari delle stesse che, in altra epoca, e che lei ricorderà perfettamente anche meglio di me, data la sua professionalità che ben conosco, documentarono per esempio la tragica storia di Jan Palach. Quando dico “ben altre”, mi riferisco esattamente a ultimissime immagini che Il Messaggero, per il quale mi risulta lei ha collaborato per anni e anni, ha pubblicato, e che risultano essere solo il frutto di una tecnica di comunicazione da tempo in uso che degrada la professionalità che – giustamente – si vorrebbe salvaguardare, delle testate e dei giornalisti. Purtroppo non sempre le cose vanno così, e – per quanto mi riguarda – preferisco il valore documentale, anche se drammatico quanto la realtà lo è, e che quindi afferisce eticamente alla stessa, e non alla spettacolarizzazione gratuita e volgare, intellettualmente parlando, dei fatti. Per chi non se ne rende conto abbastanza, da smuovere nel suo proprio piccolo le coscienze, i fatti recentissimi che hanno provocato una serie di suicidi in Italia vanno riportati così come sono, a mio parere, e chi vuole vederci una spettacolarizzazione morbosa farebbe bene a valutare quelle “ben altre” di cui parlo, e che pubblico qui di seguito, allo scopo di documentare quanto affermo, al solo titolo di esempio. Se i “colleghi” di cui lei parla nei due commenti sono interessati sia agli aspetti deontologici che a quelli minimal retorici, e per caso fanno parte anch’essi de Il Messaggero, allora farebbero buon uso del loro tempo a interrogarsi su cosa spinge Il Messaggero a pubblicare queste foto, in un clima tanto drammatico e spietato che stiamo vivendo, dove anche la sola tentazione a pensare di vendere qualche copia in più, usando questi mezzi, diventa esecrabile, e – conoscendola personalmente e stimandola al punto di averla invitata a far parte d questa redazione, come da lei espresso in un commento al post STOP IT, quindi rispondendo a un suo desiderio liberamente espresso in pubblico – sarei molto curioso di conoscere il suo illuminato e puntuale pensiero nel merito. La redazione ha già provveduto a rimuovere il banner con la sua foro, egregio Salvatore Spoto. Evidentemente, la diversità di vedute, tra me e lei, è tale che questa azione risulta gradita ad entrambi, e nonsolo a lei. Per il resto, la lascio alla risposta del Prof. Troisi, che non voglio – in questo momento – surrogare né sostituire. Per ciò che lei intravede come un vero e proprio attacco alla categoria di cui fa parte. Mi esprimerò senz’altro dopo Enrico Maria Troisi, avendo io personalmente deciso di pubblicare il suo articolo. E non ritenendolo affatto un attacco alla categoria dei giornalisti, ma una puntuale precisazione di quanto viene sistemicamente occultato da molta (non tutta, ovviamente) “stampa”, come una volta si usava dire, ma che oggi verrebbe definita meglio, là e dove ce ne sia il bisogno, “protesi dei partiti politici”… intelligenti pauca. Intanto la saluto e la ringrazio dei suoi commenti.

Salvatore Maresca Serra

Milano dice sì alle Unioni civili. Pisapia: da oggi ci sono più diritti

Milano, 27 lug. (Adnkronos) – L’Associazione Radicale Certi Diritti “saluta con favore l’approvazione del registro sulle unioni civili” da parte del Consiglio comunale di Milano, avvenuta nella notte, una misura che “rende la città più accogliente, laica ed europea”. Lo comunica l’associazione. “Un estenuante dibattito consiliare – prosegue – ha trasformato una delibera asciutta sul modello torinese in una più articolata, che prevede un autonomo registro delle unioni civili riferito però all’articolo 4 del Dpr 223 del 1989 che parla di famiglia anagrafica”. “A parte la scelta eccessivamente burocratica – continua l’associazione – rimane integro il cuore del provvedimento che impegna il Comune a garantire ‘condizioni non discriminatorie” di accesso ai suoi servizi e nelle materie di propria competenza. L’Associazione Radicale Certi Diritti, insieme ad altre realtà milanesi, aveva quasi completato una raccolta firme su una delibera basata sul modello torinese, che ha certamente contribuito ad accelerare i tempi dell’approvazione del registro”.

“Salutiamo con favore – continua l’associazione – la scelta di lasciare al Consiglio comunale la titolarità della materia poiché questo ha permesso di sviluppare un vasto dibattito nelle istituzioni e in città. Da Milano rilanciamo ora la battaglia per il matrimonio egualitario che consenta a tutti i cittadini, a prescindere dal loro orientamento sessuale, il pieno accesso all’istituto del matrimonio civile e che permetta cosi’ di sanare la più odiosa delle discriminazioni contenute nel nostro ordinamento giuridico”.

Il primo commento del sindaco di Milano Giuliano Pisapia subito dopo l’approvazione del Consiglio comunale che ha visto una lunga trattativa è stato: “Da oggi a Milano ci sono più diritti”.

Bonus al dirigente in galera da mesi

IL CASO ALLA REGIONE MOLISE

Gratifica da 13.099 euro. Peccato che il dirigente Elvio Carugno sia in galera proprio con l’accusa di avere rubato soldi regionali

 di Gian Antonio Stella

«Bravo», gli ha detto la Regione Molise. E gli ha dato un bonus di 13.099 euro in aggiunta allo stipendio. Peccato che Elvio Carugno sia in galera. Carugno è accusato di avere rubato soldi regionali. Il che conferma come la distribuzione dei «premi» messi a bilancio sotto la voce «merito» avvenga con criteri a pioggia che col merito non hanno niente da spartire.

Il tema è una ferita che sanguinada tempo. Basti ricordare la denuncia che fece qualche anno fa, alla vigilia dell’ultimo governo Berlusconi, l’allora ministro per la Funzione pubblica, Luigi Nicolais. Il quale ammise che «il tentativo di misurare l’efficienza di chi dirige gli uffici pubblici», avviato dal governo D’Alema nel lontano 1999 con la legge 286 che prevedeva una ricompensa aggiuntiva per i dirigenti sulla base del raggiungimento o meno degli obiettivi fissati, non aveva dato «i risultati sperati». Un eufemismo.

Ex ministro Nicolais

La prova era nei numeri: su 3.769 altissimi funzionari addetti alla macchina statale, quelli premiati col massimo bonus possibile erano 3.769. Come se fossero tutti purosangue. Tutti bravissimi, puntualissimi, rigorosissimi. Senza un solo somaro, un ronzino, un brocco che meritasse un minimo di castigo… Come se tutti gli obiettivi prefissi fossero stati raggiunti.
Mai più, giurarono allora i responsabili della cosa pubblica. Mai più. Fatto sta che, anche al di là dell’impegno personale di questo o quel ministro (ricordate la battaglia scatenata su questi temi dal contestatissimo Renato Brunetta?), ciò che è accaduto in questi giorni in Molise dimostra quanta strada ci sia ancora da fare.

Dice tutto la lettera protocollata il 6 luglio scorso e firmata dalla Direzione generale della Regione Molise e inviata al Servizio di gestione risorse umane. Oggetto: «Erogazione indennità di risultato dirigenza anno 2011». Messaggio: «In riferimento all’erogazione di cui all’oggetto, si partecipa che, avendo acquisito per le vie brevi le dovute informazioni da parte del nucleo di valutazione in merito ai termini di conclusione dei procedimenti di valutazione dei direttori di area e di servizio, rilevato che a tutt’oggi i medesimi procedimenti non sono ancora conclusi, si rimette alle opportune valutazioni della signoria vostra la plausibilità di procedere all’anticipazione dell’erogazione dell’indennità di risultato… ».

Totale dell’importo dei premi, in questi tempi di crisi, di assunzioni bloccate, di appelli quotidiani al pubblico impiego: 805.046 euro e 57 centesimi. Da dividere, come anticipazione del 60% degli incentivi per i risultati raggiunti nell’anno passato, tra 68 dirigenti. Per capirci: tutti quelli della Regione. Come se anche in questo caso, nella scia dello scandalo denunciato da Luigi Nicolais, non ci fosse nessuno ma proprio nessuno da lasciare a secco.

Si dirà: sono integrazioni in qualche modo dovute. Ma è vero solo in parte. La Regione, accusano le opposizioni, poteva fissare un minimo molto basso e un massimo molto alto, scelta evitata stabilendo bonus che vanno in genere da 11 a 13 mila euro. Poteva dare degli obiettivi precisi e non così generici (tipo «organizzazione degli uffici») da lasciare spazio a ogni interpretazione. Di più: il nucleo di valutazione, composto da tre persone, è dominato da due membri di squisita nomina partitica: il sindaco di Santa Maria del Molise e il vicesindaco di Petacciato. Tutti e due appartenenti al Pdl del governatore Michele Iorio.

La decisione di spendere così quegli 805 mila euro ha mandato su tutte le furie il capogruppo in consiglio regionale del Molise dell’Italia dei valori, Cosmo Tedeschi: «In un periodo difficile come quello che stiamo attraversando questa somma poteva, anzi doveva essere spesa per interventi più urgenti e, soprattutto, utili alla comunità». Lo sconcerto, tuttavia, non riguarda solo i dipietristi e la sinistra.

Tra i dirigenti, infatti, vengono premiati anche i dirigenti della Sanità che, come spiegano i dati di pochi giorni fa, è tra le più sgangherate e indebitate, sul pro capite, della Penisola. Un dato per tutti: 2.939 euro di spesa per abitante, inferiore solo a quelle della Basilicata e del Lazio.

Di più: riferisce un’agenzia Agi di qualche settimana fa che «il Molise ha anche il primato per spesa pubblica primaria delle Pubbliche Amministrazioni, che Bankitalia ha rilevato in 4.100 pro capite nel triennio 2008-2010 contro i 3.300 euro della media nazionale».

Ma non basta. Tra i dirigenti benedetti dalle gratifiche, con 11.718 euro di bonus supplementare (ripetiamo: è solo il 60%, poi deve arrivare il resto) c’è anche chi come Antonio Guerrizio è stato messo sotto inchiesta per una brutta storia di soldi spariti dalle casse, già parzialmente restituiti. E soprattutto Elvio Carugno, in galera da mesi con le accuse di peculato aggravato e continuato. Pochi giorni fa l’ennesima richiesta di andare almeno agli arresti domiciliari gli è stata respinta: secondo i giudici potrebbe scappare, magari in Venezuela dove sarebbe finito in parte, probabilmente a una donna più o meno misteriosa, il milione di euro circa, stando alle indagini, scomparso dalle pubbliche casse.

Domanda: l’arresto è del 4 aprile, come mai tre mesi non sono bastati alla Direzione generale per depennare l’attuale carcerato dalla lista dei dirigenti meritevoli della massima gratifica? Non sarà il caso di rivederle tutte, queste regole?

Sicilia, l’Ue «congela» 600 milioni

Sicilia, crollano Pil e lavoro, l’Ue «congela» 600 milioni

Stime di previsione contenute nell’ultimo report di Diste Consulting e Fondazione Curella sul 2012

PALERMO – Si va verso il crac finanziario o no? Una risposta (in negativo) per la Sicilia arriva dall’ultimo report Diste. Il dato, allarmante, è che nella regione crollano Pil e occupati mentre l’Unione Europea congela 600.000 milioni di fondi comunitari legati al ciclo di programmazione 2007-2013. Sulla base delle stime di previsione contenute nell’ultimo Report Sicilia elaborato da Diste Consulting e Fondazione Curella relative al primo semestre 2012, si delinea nell’Isola una fase recessiva piu’ grave rispetto al resto del Paese, con effetti pesanti sul mercato del lavoro. Nel corso del 2012 l’economia siciliana potrebbe registrare infatti, una flessione del prodotto interno lordo attorno al 2,4 per cento, un risultato peggiore rispetto a quanto prefigurato per l’economia italiana (-1,9 per cento).

PARTE DEBOLE DEL SISTEMA – «Una situazione complessa – afferma Pietro Busetta, presidente della Fondazione Curella – nella quale si intrecciano fattori economici strutturali e politici. Certamente non sarà facile uscire da questa crisi che e’ strutturale e che durerà per molti anni. La Sicilia deve trovare delle nicchie per riuscire a mantenere i livelli di reddito conseguiti fino ad adesso. Stiamo assistendo alla crisi del sistema occidentale. E noi siamo la parte debole di tale sistema». «Secondo le nostre stime – evidenzia Alessandro La Monica presidente Diste Consulting – la caduta del prodotto interno lordo provocherà nell’anno la perdita di circa 35 mila occupati. Per cui in Sicilia siamo passati dal dato record di 1 milione 502 mila e 700 unità lavorative del 2006 fino 1 milione 397 mila e 950 unità delle stime 2012, determinando una perdita nel sessennio di quasi 105 mila posti di lavoro, come cancellare dal mercato del lavoro – sottolinea Alessandro La Monica – una città delle dimensioni di Siracusa».

DISOCCUPAZIONE ALTISSIMA – Dalle analisi contenute in questo trentasettesimo Report Sicilia emerge che nel corso dell’anno il numero dei disoccupati è destinato a salire in misura abnorme. Si stima una crescita a oltre 306 mila unità (da 240 mila e 700 del 2011), equivalente ad un tasso di disoccupazione che potrebbe raggiungere il 18,0 per cento (10,5 per cento il dato dell’Italia), il livello massimo dal 2004. Al forte aumento della disoccupazione contribuiranno, oltre a coloro che hanno perso un precedente impiego e a chi e’ alla ricerca di una prima occupazione, anche i massicci rientri nel mercato del lavoro di persone che in precedenza avevano cessato la ricerca perché scoraggiate dalle difficoltà incontrate. Secondo le statistiche, il soggetto che nel corso dell’intervista dichiara di non essere alla ricerca di un lavoro non e’ considerato, ovviamente, disoccupato. Si tratterebbe per lo più di studenti e casalinghe spinti dalla necessità di reintegrare redditi famigliari erosi per vari motivi dalla crisi. Le drastiche misure di aggiustamento della finanza pubblica, gli annunci di nuovi tagli di posti di lavoro correlati a ristrutturazioni aziendali sono destinati a frenare ulteriormente la già debole spesa di consumo. Si stima perciò una contrazione – la quinta consecutiva – del 2,8 per cento, che riporta il livello dei consumi delle famiglie siciliane indietro di quindici anni.

LENTEZZA DELLA SPESA – Le inquietudini sulle prospettive di domanda penalizzano massicciamente anche gli investimenti, attesi scendere del 5,8 per cento a causa di consistenti ripiegamenti sia della spesa in macchinari e attrezzature sia di quella in costruzioni. In questo contesto si inserisce la vicenda della spesa relativa ai fondi comunitari legai al ciclo di programmazione 2007-2013, divenuta un caso nazionale ed europeo di inefficace programmazione e gestione poco trasparente dei fondi strutturali: si veda l’intervista rilasciata dal ministro della coesione territoriale, Fabrizio Barca, lo scorso 14 luglio, così come le numerose inchieste giornalistiche svolte da diversi quotidiani nazionali all’indomani della decisione di congelamento di 600.000 milioni di pagamenti già anticipati dalla Regione da parte del commissario Ue per gli Affari regionali Johannes Hahn. Al tradizionale dato sulla lentezza della spesa (ad esempio il comitato di sorveglianza del Fesr accertava alla fine di aprile che lo stato di avanzamento finanziario in termini di pagamenti effettuati era di poco meno dell’8%), si aggiunge il sistematico spiazzamento delle risorse comunitarie, programmate per obiettivi strutturali e straordinari, verso obiettivi ordinari di spesa corrente. La corretta ed efficiente gestione delle risorse comunitarie è strettamente connessa alla grave situazione del bilancio regionale, le cui voci di spesa risultano ulteriormente aumentate evidenziando una situazione seria di effettiva insostenibilità delle future gestioni, come ha ricordato il procuratore generale d’appello nel ‘Giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione relativo al 2011’, presentato a fine giugno 2012. Agli aspetti specifici, già ricordati nei due punti precedenti, si aggiungono le difficoltà che ha attraversato l’attuazione del ciclo di programmazione 2007-2012 in Italia e, in particolare, nell’attuazione del Fesr.

VINCOLI PESANTI – La difficoltà ad attuare il cofinanziamento nazionale, la rimodulazione continua dei fondi Fas, il percorso avviato del federalismo fiscale e, non ultima, la crisi economica globale hanno determinato una serie di vincoli che hanno comportato la sostanziale ridefinizione degli obiettivi strategici ed operativi. Le iniziative intraprese dal governo Monti negli ultimi mesi hanno riproposto una nuova stagione per la politica di coesione: il piano d’azione-coesione dell’autunno 2011 che prevede anche un accentramento delle risorse non utilizzate a livello locale per finalità di carattere sociale, con particolare riferimento destinate al Mezzogiorno.

Mafia: Di Pietro, da Pm accuserei Napolitano


(ASCA) – Roma, 21 lug – ”Se fossi ancora pubblico ministero farei una requisitoria chiedendo la condanna politica del presidente della Repubblica sulla base di una prova documentale, la prova principe. Da parte di Giorgio Napolitano c’e’ una confessione extragiudiziale di reato politico”.

Lo afferma il presidente dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, nel corso di un’intervista a Il Fatto Quotidiano.

”Prima solleva il conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo, perche’ le intercettazioni indirette delle sue conversazioni con Nicola Mancino comporterebbero una ‘lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica’. Poi -sostiene Di Pietro-, in occasione del ventennale della strage di via D’Amelio, manda un messaggio ai familiari delle vittime in cui dichiara solennemente che ‘non c’e’ alcuna ragion di Stato che possa giustificare ritardi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilita”.

Delle due l’una. E poi che manchi una norma che regoli le intercettazioni indirette del Capo dello Stato e’ all’ordine del giorno fin dal 1997, quando il ministro della Giustizia Flick sollevo’ la questione per un caso analogo che riguardava l’allora presidente Scalfaro. Napolitano ha avuto sette anni di tempo per sollecitare il Parlamento a intervenire. Non solo, poteva sollevare conflitto d’attribuzione contro la Procura di Perugia che, a quanto pare, lo ha indirettamente intercettato al telefono con Bertolaso. Non lo ha fatto, salvo cambiare idea con Palermo”.

”A questo punto siamo autorizzati a sospettare -dice Di Pietro- che quelle intercettazioni, che fanno cosi’ paura, contengano giudizi pesanti sui pubblici ministeri di Palermo.

In un paese normale, se non fosse Re Giorgio, ci sarebbe stata, non dico una rivolta popolare, ma almeno una rivolta del mondo dell’informazione. E invece sono tutti, o quasi, appecoronati e conniventi con il sistema di potere che sostiene la grande coalizione del governo Monti”.

Trattativa Stato-mafia: Così si cercò un nuovo patto

PALERMO – L’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, quello sul «carcere duro» per i mafiosi varato all’indomani della strage di Capaci, c’entra, ma fino a un certo punto. O meglio, da un certo punto in poi, e solo per un pezzetto. La trattativa è cominciata prima, ed è continuata dopo. Aveva obiettivi più ampi e complessi. Serviva a stabilire un nuovo patto di convivenza tra lo Stato e Cosa nostra, come quello che aveva resistito fino al 1992.

In passato il garante dei boss era stato Giulio Andreotti, ma all’inizio degli anni Novanta appariva usurato e non più affidabile. Nel suo governo era arrivato a lavorare perfino Giovanni Falcone, direttore generale del ministero della Giustizia chiamato dal Guardasigilli socialista Claudio Martelli che nell’87 era stato beneficiato dai voti pilotati dalla mafia. Aveva tradito, Andreotti. E per questo Riina, Provenzano e gli altri padrini decisero di voltare pagina. Non prima di decapitare definitivamente il suo potere uccidendo Salvo Lima, l’eurodeputato che gli faceva da luogotenente in Sicilia. Era il 12 marzo 1992. La trattativa per ridefinire l’accordo tra la politica e la mafia nella Seconda Repubblica cominciò allora.

È il quadro disegnato dalla Procura di Palermo nella richiesta di rinvio a giudizio per il reato di «minaccia o violenza a un corpo politico dello Stato»; in questo caso il governo, ricattato dai mafiosi per ottenere «benefici di varia natura», tra cui la modifica di alcune leggi, la revisione del maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino, un migliore trattamento per i detenuti. La minaccia avevano già cominciato a metterla in pratica con l’omicidio Lima: una «strategia di violento attacco frontale alle istituzioni».

Subito dopo quel delitto uno degli imputati di oggi – l’allora ministro democristiano Calogero Mannino, uno dei successivi bersagli già designati – si attivò per salvarsi la vita. E attraverso contatti con investigatori e uomini dei servizi segreti cercò di individuare gli interlocutori giusti per «aprire la trattativa e sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra» per scongiurare altri attentati. Poi arrivò la strage di Capaci in cui saltò in aria Falcone con sua moglie e gli uomini della sicurezza, e «su incarico di esponenti politici e di governo», i carabinieri del Ros (Subranni, Mori e De Donno) contattarono l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, «agevolando così l’instaurazione di un canale di comunicazione con i capi di Cosa nostra, finalizzati a sollecitare eventuali richieste».

Nel frattempo ci furono il cambio di governo(e di ministro dell’Interno, da Scotti a Mancino) e la strage di via D’Amelio che tolse di mezzo Paolo Borsellino, informato dei contatti tra i carabinieri e Ciancimino. Non dagli stessi carabinieri, però, che avevano ritenuto di lasciarlo all’oscuro. L’ipotesi, già avanzata dalla Procura di Caltanissetta nella nuova inchiesta su quella strage «anomala», è che Borsellino avrebbe rappresentato un ostacolo alla trattativa.

Nella ricostruzione dei pubblici ministeri di Palermo, lo Stato fu vittima di un’estorsione. E di fronte al ricatto di altri morti, gli uomini delle istituzioni aprirono un negoziato con gli estorsori. Capita spesso, nelle terre di mafia. Quando si paga il «pizzo» chi subisce la richiesta e paga è «parte lesa», ma chi fa da intermediario e diventa latore delle minacce (o addirittura sollecita le richieste dei taglieggiatori) viene considerato complice del racket. Allo stesso modo, gli esponenti del governo ricattato restano le potenziali vittime, mentre gli anelli intermedi della catena sono ritenuti corresponsabili insieme ai mafiosi. Che abbiano agito per la ragion di Stato, nell’inchiesta penale non conta; anche un reato commesso con le migliori intenzioni resta tale.

Ecco perché sono finiti sul banco degli imputati Mannino, i carabinieri e infine Marcello Dell’Utri: una vecchia conoscenza di Cosa nostra che, secondo l’accusa, subito dopo l’omicidio Lima «si propose come interlocutore di Cosa nostra» e in seguito, quando il suo amico e capopartito Silvio Berlusconi diventò presidente del Consiglio nel 1994, «agevolò materialmente la ricezione della minaccia».

L’indagine palermitana si ferma a questo punto, quando un nuovo quadro politico fu raggiunto e – forse – anche un nuovo equilibrio politico-mafioso. In mezzo avvennero le stragi del 1993 a Firenze, Milano e Roma, con le pressioni per alleggerire il «41 bis» e il «segnale di distensione» lanciato dal ministro della Giustizia Giovanni Conso, succeduto a Martelli, che non rinnovò il «carcere duro» per oltre trecento detenuti. Tra cui pochi o pochissimi esponenti di spicco di Cosa nostra, ma questo è un dettaglio. Era un segnale, per l’appunto, e come tale doveva essere interpretato.

Su questo punto la Procura ritiene che Conso non abbia detto la verità quando ha riferito i motivi per cui prese quella decisione, ed è stato messo sotto inchiesta per false informazioni al pm, insieme all’ex direttore generale delle carceri Adalberto Capriotti. Come le vittime del racket che negano il ricatto. Nei loro confronti l’indagine è stata stralciata, e rimane sospesa in attesa dell’esito del processo principale. Rientra invece nella richiesta di rinvio a giudizio un altro ex ministro accusato di aver mentito, Nicola Mancino. Il quale, avendo deposto al processo contro il generale Mori per la mancata cattura di Bernardo Provenzano (una delle cambiali pagate alla mafia nella trattativa, secondo l’accusa), risponde di una presunta falsa testimonianza: avrebbe detto bugie sui reali motivi dell’avvicendamento al Viminale e sulle informazioni ricevute da Martelli riguardo ai contatti tra i carabinieri e Ciancimino, avvenuti tramite il figlio dell’ex sindaco, Massimo. Quest’ultimo imputato, nel ruolo di «postino» tra suo padre e Provenzano, di concorso in associazione mafiosa.

Questa è il mosaico composto dalla Procura palermitana. Ora si va davanti a un giudice. Per stabilire se si tratta di una ricostruzione sorretta da prove sufficienti per celebrare un processo, solo un’ipotesi non riscontrabile, o pura fantasia su quel che accadde in Italia, vent’anni fa. Al tempo delle stragi di mafia.

Stato-Mafia, chiesto processo per Dell’Utri, Mancino e Provenzano

La Procura di Palermo ha chiuso le indagini sulla trattativa Stato-mafia. I pm hanno firmato la richiesta di rinvio a giudizio dei 12 indagati tra cui figurano lex ministro Calogero Mannino, lex presidente del Senato Nicola Mancino, e il senatore Marcello DellUtri. La richiesta, che è stata vistata dal procuratore capo Francesco Messineo, sarà trasmessa nelle prossime ore al Gip.Annunci GooglePaga Meno i Tuoi DebitiCome Uscire dal Tunnel dei Debiti Non Chiedendo più Finanziamenti!www.AgenziaDebiti.it/paga-MenoMalattia di ParkinsonInformazione e ricerca scientifica Scopri le ultime novitàwww.parkinson.itLe richieste di rinvio a giudizio riguardano anche i capimafia Totò Riina, Giovanni Brusca, Antonio Cinà, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano.Poi uomini delle istituzioni e politici: lex generale Antonio Subranni, lex colonnello dei Ros Giuseppe De Donno, lex generale del Ros Mario Mori, lex ministro Calogero Mannino e il senatore Marcello dellUtri.Tutti, tranne Mancino, sono accusati di attentato a un corpo politico. Mancino risponde invece di falsa testimonianza.Tra i primi a commentare la richiesta dei giudici è stato proprio Nicola Mancino. “Dopo la comunicazione della conclusione delle indagini sulla cosiddetta trattativa fra uomini dello Stato ed esponenti della mafia, ho chiesto inutilmente al Pubblico ministero di Palermo di ascoltare i responsabili nazionale dellordine e della sicurezza pubblica capi di gabinetto, direttori della Dia, capi della mia segreteria, prof. Arlacchi, ad esempio, i soli in grado di dichiarare se erano mai stati a conoscenza o se mi avessero parlato di contatti fra gli ufficiali dei carabinieri e Vito Ciancimino e, tramite questi, con esponenti di Cosa Nostra. A questo punto ho rinunciato al proposito di farmi di nuovo interrogare e di esibire documenti. . “Preferisco farmi giudicare da un giudice terzo – aggiunge nella nota -. Dimostrerò la mia estraneità ai fatti addebitatimi ritenuti falsa testimonianza, e la mia fedeltà allo Stato”.Tutti, tranne Mancino, sono accusati di attentato a un corpo politico

viaStato-Mafia, chiesto processo per DellUtri, Mancino e Provenzano – Adnkronos Cronaca.

MANAGER DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE = MILIARDARI, ECCO I REDDITI DICHIARATI

Sono ricchi, talvolta ricchissimi, hanno storie diverse, alcuni lavorano tantissimo, altri hanno solo cariche di rappresentanza ma ben remunerate. Ma hanno tutti una cosa in comune: lavorano per la Pubblica amministrazione. Grazie a una legge del 1982, ogni anno i “titolari di cariche elettive e direttive di alcuni enti”, cioè manager scelti dalla politica per guidare pezzi del potere economico statale o parastatale, devono rendere nota la loro dichiarazione dei redditi dell’anno precedente e la loro situazione patrimoniale, le auto che possiedono e le società di cui hanno azioni. Attenzione: si parla dei redditi complessivi, non degli stipendi pagati dalla pubblica amministrazione (anche se per molti le due cose coincidono, soprattutto per quelli al vertice di istituzioni che rendono incompatibili gli incarichi privati). Dal bollettino pubblicato il 16 luglio sui redditi 2010 che Il Fatto Quotidiano ha potuto consultare emerge uno spaccato della società italiana, il racconto di chi sono i veri ricchi di questo Paese (almeno i veri ricchi che non evadono, o quasi).

Nell’elenco compaiono alcuni politici, tipo Piero Fassino (128.191 euro) o Matteo Renzi (109.573 euro) in quanto presidenti di fondazioni locali, a Torino il teatro Regio, a Firenze il Maggio Fiorentino. Gianni Alemanno, citato in quanto presidente della Fondazione teatro dell’Opera di Roma, dichiara 152.055. Ma sembrano indigenti a confronto degli altri. Gli stipendi più alti si trovano nella prima linea delle società controllate dal Tesoro, nomi poco conosciuti al grande pubblico ma strapagati: guadagna 727.170 euro Domenico Arcuri, amministratore delegato di quell’Invitalia che aveva scelto lo squattrinato Massimo Di Risio per rilevare la Fiat di Termini Imerese (ora è stato scaricato da tutti, dopo aver fatto perdere un anno di tempo). Il vicepresidente di Fintecna, società che sta passando dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti, Vincenzo Dettori, dichiara 392.392 euro. Mentre i due vertici della Cassa depositi e prestiti sono su un altro ordine di grandezza: il presidente Franco Bassanini ha un reddito di 567.262, l’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini 1.925.997.

Ci sono anche figure di cui ci eravamo un po’ dimenticati: a fine 2011 il professor Augusto Fantozzi si è dimesso da commissario straordinario di Alitalia, incaricato di liquidare quel che restava della bad company, ma per il 2010 ha dichiarato un reddito di 3.686.272. Il suo compenso per l’attività di commissario è sempre stato misterioso e tuttora non sappiamo quanta parte di quei 3,6 milioni sia dovuta a tale attività. Il suo successore Stefano Ambrosini, che nel 2010 ancora non era subentrato a Fantozzi, si ferma a 957.379. L’ex leghista Dario Fruscio è stato per anni nel cda dell’Eni, poi è passato all’Agea, la società che gestisce i finanziamenti all’agricoltura, Umberto Bossi lo aveva rimosso e lui è riuscito a riprendersi la poltrona a colpi di ricorsi al Tar: deve essere ben pagata, visto che nel 2010 Fruscio ha dichiarato 1.048.478 euro. Un altro manager di area leghista, il varesotto Giuseppe Bonomi, alla Sea che gestisce l’aeroporto di Malpensa, dichiarava 919.847 euro.

NEL RAPPORTO curato dalla presidenza del Consiglio ci sono anche curiose eccezioni verso l’alto e verso il basso. L’imprenditrice milanese Diana Bracco, che figura in quanto presidente di Expo 2015, ha un reddito di 5,6 milioni di euro, ma non stupisce più di tanto, è noto che il suo gruppo sia redditizio. Sorprende invece un po’ la situazione di Mauro Cipollini, amministratore delegato di TechnoSky, una controllata dell’Enav, l’ente nazionale per l’aviazione civile che è finito al centro di alcune inchieste per presunte tangenti. Cipollini nel 2010 ha dichiarato soltanto 3.987 euro. Eppure nel 2007 ha comprato una Mini Cooper e l’anno successivo, nel 2011, immatricola una Porche Cayenne. Altra curiosità: nell’elenco c’è perfino il professor Francesco Alberoni, un tempo guru della sociologia all’Università di Trento oggi pensionato ed editorialista (nel 2010 ancora al Corriere della Sera) e presidente del Centro sperimentale di cinematografia: reddito da 396.389 euro.

Chi lavora alla Rai e alla Banca d’Italia ha redditi decisamente superiori. L’ex presidente della tv pubblica, il giornalista Paolo Garimberti, nel 2010 guadagnava 670.304 euro, l’allora direttore generale Mauro Masi ne dichiarava quasi altrettanti, 695.466, la sua sostituta Lorenza Lei si fermava a 424.106. Alla Banca d’Italia nel 2010 il più ricco era Mario Draghi, allora governatore, con 1,021 milioni di euro. Il suo direttore generale, Fabrizio Saccomanni, che ora potrebbe essere riconfermato dopo aver sfiorato la nomina a governatore, non se la passava tanto peggio: 838.596 euro. Ignazio Visco, suo vice all’epoca e oggi governatore, dichiarava la metà ma comunque cifre consistenti: 405.201 euro. Poi c’è Finmeccanica, società controllata dal Tesoro e di cui tutto è noto, visto che è quotata in Borsa. O meglio, sono noti gli stipendi dei suoi top manager ma non le loro dichiarazioni dei redditi. Eccole: nel 2010 Giuseppe Orsi, oggi presidente, dichiarava 1,654 milioni, l’allora presidente Pier Francesco Guarguaglini 5,5 milioni, Giorgio Zappa e Alessandro Pansa, entrambi con la carica di direttore generale, avevano rispettivamente un reddito di 2,5 e 2,6 milioni.

DA QUASI SEI ANNI diversi governi hanno provato a mettere un tetto agli stipendi, anche cumulati, dei manager che lavorano nel settore pubblico. L’ultimo tentativo è del governo Monti che a marzo ha fissato il limite a 294mila euro lordi all’anno. Sarebbe un bel crollo del reddito di molti dei protagonisti del rapporto di palazzo Chigi. Per rendere operativo il tetto serve un decreto del ministero del Tesoro che, come ricordato ieri da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, ancora non si è visto. Qualche mese fa il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, reddito 2010 da 1,36 milioni, si era detto sicuro che nel 2013 avrebbe dichiarato soltanto i 294 mila euro previsti dal governo. Forse era stato troppo pessimista.

di Stefano Feltri e Carlo Tecce

da Il Fatto Quotidiano del 17 giugno 2012

PER UN PUGNO DI 40 MILIONI «Così Dell’Utri ricattava Berlusconi»

Silvio Berlusconi - Caricature

Silvio Berlusconi – Caricature (Photo credit: DonkeyHotey)

 

Per l’accusa l’ex premier pagò il silenzio nei processi

PALERMO – Sono tanti soldi, più di quaranta milioni, quelli che Silvio Berlusconi ha versato a Marcello Dell’Utri negli ultimi dieci anni. Il prezzo del ricatto, secondo l’accusa, esercitato sull’ex presidente del Consiglio da uno dei più stretti collaboratori colluso con la mafia. Il quale, per tacere particolari scomodi o per altre ragioni legate alle sue «relazioni pericolose» con i boss, ha costretto Berlusconi a pagarlo profumatamente. Anche di recente. Almeno fino alla vigilia della sentenza della Cassazione, dopo la quale sarebbe potuto finire in galera. A meno di darsi a una clamorosa latitanza. Invece evitò la cella perché la Corte annullò la condanna, pur confermando i rapporti dell’imputato con Cosa Nostra negli anni Settanta e Ottanta. Ma il ricatto, nell’ipotesi della Procura di Palermo, non s’è mai fermato.

Solo la metà di quel fiume di denaro risulta formalmente giustificata dall’acquisto di villa Comalcione a Torno, sul lago di Como. Venduta da Dell’Utri a Berlusconi per 21 milioni l’8 marzo scorso (il giorno prima del giudizio della Corte suprema, per l’appunto), nonostante una valutazione del 2004 fissasse il prezzo della lussuosa abitazione a «soli» 9,3 milioni. Tutto il resto non ha motivazione ufficiale, e i versamenti dai conti bancari dell’ex premier a quelli del senatore e di sua moglie sono stati registrati sempre sotto la stessa voce: «prestito infruttifero». Stesso discorso per la donazione di titoli bancari.

I magistrati considerano Berlusconi vittima della presunta estorsione realizzata dal senatore del Pdl che lo aiutò a fondare Forza Italia e l’ha accompagnato in tutta la sua avventura politica. E come lui sua figlia Marina, giacché alcuni pagamenti sono arrivati da conti correnti cointestati a lei. Per questo entrambi sono stati convocati.

La nuova indagine nasce da uno stralcio di quella sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi, tra il ’92 e il ’94, all’interno della quale un anno fa la Procura di Palermo acquisì le prime tracce dei movimenti milionari scovati dalla Guardia di Finanza nell’ambito dell’inchiesta romana sulla cosiddetta P3 (Dell’Utri è imputato anche lì): 9 milioni e mezzo elargiti in tre tranche : 1,5 il 22 maggio 2008, tratto da un conto del Monte dei Paschi di Siena, e altri 8 tra il 25 febbraio e l’11 marzo 2011, arrivati da una filiale milanese di Banca Intesa private banking. Dopo gli approfondimenti degli investigatori delle Fiamme gialle sono venuti alla luce altri movimenti bancari sospetti, è così scattata la nuova ipotesi di estorsione. Collegata, più che alla trattativa, al processo per concorso in associazione mafiosa a carico del senatore.

Proprio mercoledì è cominciato il nuovo dibattimento di appello, dopo l’annullamento della Cassazione. Che però è stato parziale, poiché alcune parti della precedente sentenza sono state confermate. Come quella in cui è sancita la colpevolezza del senatore per i fatti precedenti al 1974. È stato definitivamente accertato che Dell’Utri, «avvalendosi dei rapporti personali di cui già a Palermo godeva con i boss, realizzò un incontro materiale e il correlato accordo di reciproco interesse tra i boss mafiosi e l’imprenditore amico Berlusconi», hanno scritto i giudici. Un’intermediazione da cui derivò «l’accordo di protezione mafiosa propiziato da Dell’Utri» in favore del futuro presidente del Consiglio. In questa trama criminale è rimasto impigliato il solo senatore, mentre Berlusconi non ha subito conseguenze nonostante le inchieste subite (è stato più volte inquisito dalla Procura di Palermo, ma sempre archiviato) sulla misteriosa origine dei suoi capitali. Oggi l’ipotesi dell’accusa è che con quei quaranta milioni, e chissà quali altre «donazioni» non ancora scoperte, l’ex premier abbia comprato il silenzio del suo amico e collaboratore su qualche particolare che poteva trasformarlo da vittima dei boss in un complice consapevole dei traffici di Cosa Nostra.

In questa ricostruzione Berlusconi è diventato dunque vittima di Dell’Utri, dopo esserlo stato della mafia per i ricatti dai quali il senatore lo avrebbe liberato grazie ai suoi «buoni uffici» negli anni Settanta e Ottanta. Ad esempio attraverso l’assunzione come stalliere nella villa di Arcore del «picciotto» Vittorio Mangano, «indicativa di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia», scrivono ancora i giudici della Cassazione.

La convocazione dell’ex premier in Procura coincide con quella chiesta dal sostituto procuratore generale nel nuovo processo d’appello a Dell’Utri. Anche in quel giudizio l’ex capo del governo è considerato dall’accusa una «persona offesa» dai reati attribuiti all’imputato. Nel 2002, ascoltato dal tribunale, si avvalse della facoltà di non rispondere poiché all’epoca era indagato in un procedimento connesso. Oggi non lo è più, e quindi sarebbe obbligato a rispondere. Come in Procura. I legali di Dell’Utri si sono opposti alla sua testimonianza. La Corte d’Appello deciderà, i procuratori hanno già deciso.

L’acquisto della villa sul lago di Como, oltre a non spiegare l’intera somma dei versamenti, agli inquirenti sembra un paravento. Al di là della sopravvalutazione rispetto alla stima del 2004, infatti, Dell’Utri giustificò i «prestiti infruttiferi» del 2008 e del 2011 con i restauri da effettuare in quella residenza. Finanziati da Berlusconi, dunque, che alla fine avrebbe l’avrebbe pagata più di 30 milioni. Un po’ troppo, pensano i pubblici ministeri in attesa di spiegazioni.
Giovanni Bianconi

ROSSELLA URRU È LIBERA! Ma la Farnesina non ne sa niente

Rossella Libera

Rossella Libera (Photo credit: PD Cagliari)

Rilasciata in Mali la cooperante italiana: è insieme a due cooperanti spagnoli, dopo nove mesi di sequestro. La notizia confermata dal ministro Terzi. L’intelligence spagnola: “Riscatto pagato”

ROMA – Dopo 9 mesi di sequestro, Rossella Urru è stata liberata: la conferma tanto attesa è arrivata alle 19,36 dalla Farnesina. Il ministro degli esteri Giulio Terzi ha commentato: “Una bellissima notizia. E’ stata liberata. Speriamo di poterle parlare quanto prima. Forse occorrerà una mezz’ora. Ho portato i saluti del presidente Napolitano ai familiari che sono qui con noi all’unità di crisi”, ha detto. Aggiungendo che Rossella è “il simbolo del coraggio, della dignità e della fierezza delle donne italiane, che lavorano in terreni di cooperazione e rappresentano la dignità, l’orgoglio e la grandezza del nostro Paese”.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha precisato Terzi, “ha seguito personalmente, insieme al presidente del Consiglio, a me e a tutto il governo questo caso così difficile per l’opinione pubblica italiana”. Lo stesso presidente Napolitano ha espresso “sollievo e gioia” per la liberazione della ragazza, e il proprio apprezzamento alle amministrazioni e ai servizi di sicurezza per la loro “tenace iniziativa e il felice esito raggiunto”. Anche il premier Mario Monti ha espresso compiacimento del Governo e suo personale per la conclusione della prigionia. “Gli organi dello Stato – ha detto – con professionalità e impegno si sono prodigati per la liberazione della nostra connazionale. Li ringrazio per questo ulteriore successo che l’Italia può segnare nella lotta contro il terrorismo internazionale”.

“Considerateli liberi perchè le nostre condizioni sono state rispettate”, aveva detto all’Afp Mohammed Ould Hicham, esponente del Movimento per l’unità e la jihad in africa occidentale (Mujao), lo stesso che ha affettuato il rapimento. Le condizioni per il rilascio, ha spiegato, erano la liberazione di tre prigionieri islamisti, “detenuti da un paese islamico” e il pagamento di un riscatto, il cui ammontare il portavoce del Mujao non ha voluto svelare.

Rossella Urru è dunque stata rilasciata e si trova, con i due cooperati spagnoli che erano stati rapiti con lei il 23 ottobre, anch’essi rilasciati, a Timbuctù, nelle mani dei mediatori. Presto arriverà in Italia. Stando a una fonte militare locale, funzionari del Burkina Faso sono già stati inviati in Mali per prendere in consegna i tre rilasciati.

La notizia della liberazione è arrivata anche a Samugheo, dove abitano i familiari della ragazza, e l’intero paese è in festa. “I genitori di Rossella sono felicissimi”, ha detto don Alessandro Floris, che ha festeggiato facendo suonare le campane della chiesa. Graziano Urru, il padre della ragazza, che con la moglie e gli altri due figli si trova a Roma, parlando col sindaco del paese Antonello Demelas ha espresso parole di gioia e ringraziamento. “Sono emozionatissima, non vedo l’ora di riabbracciare mia figlia”, ha invece detto la mamma, Marisa.

La dinamica del rilascio. La cooperante è stata rapita lo scorso autunno in un campo del Fronte Polisario nel sud dell’Algeria, nei pressi di Tindouf, dal MUJAO, cellula fuoriuscita da al-Qaeda. Ad annunciare il rilascio in prima battuta il portavoce del gruppo islamico Ansar Dine a Timbuctù, Sanda Abou Mohamed, ritenuto vicino ad all’organizzazione, che ha confermato sia la liberazione della ragazza che dei due spagnoli rapiti con lei a ottobre, Ainhoa Fernandez del Rincon ed Enric Gonyalons. L’uomo ha precisato che gli ostaggi sono stati rilasciati dal gruppo MUJAO vicino alla città settentrionale di Gao. MUJAO è alleato di Ansar Dine e i due gruppi hanno combattuto insieme per sottrarre la parte settentrionale del Mali ai ribelli Tuareg.

Il possibile elemento di svolta nella liberazione dei tre ostaggi potrebbe essere, secondo l’agenzia mauritana Ani, il rilascio, nelle prime ore del mattino, di Mamne Ould Oufkir, arrestato lo scorso 4 dicembre in Mauritania perchè sospettato di essere coinvolto nel sequestro dei tre. L’uomo ha lasciato il carcere centrale di Nouakchott ed è stato accompagnato dalle autorità mauritane fuori dalla capitale in una località ignota. Il suo nome faceva parte della lista dei detenuti salafiti da liberare in cambio della Urru, avanzata dal Mujao. Non è certo però che sia stato usato per lo scambio con l’ostaggio italiano.

Fonti dell’intelligence spagnola hanno inoltre riferito al sito Globalist che la Urru e lo spagnolo Enrico Gonyalons sono stati liberati a seguito del pagamento di un riscatto. Non hanno voluto precisare l’entità della somma, che si aggirerebbe intorno ad alcuni milioni di euro, versati da Italia e Spagna. Il pagamento sarebbe avvenuto in contanti e in euro e, prosegue Globalist, il rilascio di Ould Faqir farebbe parte della trattativa. E’ stato il sito del giornale Il Foglio a dare per primo in Italia la notizia del possibile rilascio.

Nicole Minetti ad Arcore: faccia a faccia con Berlusconi – Milano

http://video.corriere.it/minetti-pirellone/17ff4d18-cfee-11e1-85ae-0ea2d62d9e6c

La consigliera del Pdl convocata dopo una giornata in cui si sono rincorse le voci di sue dimissioni

MILANO – Nicole Minetti è ad Arcore per un incontro con Silvio Berlusconi. Secondo quanto riferiscono fonti di partito, la consigliera regionale lombarda è arrivata nella residenza del Cavaliere. Su di lei pende la richiesta di dimissioni più volte reiterata dal segretario del Pdl Angelino
LA GIORNATA IN CONSIGLIO REGIONALE – Nicole Minetti si era presentata martedì mattina in Consiglio regionale per partecipare a una seduta straordinaria su Expo. Giacca beige, maglietta e pantaloni neri e tacchi alti. Abbronzata, dopo aver trascorso qualche giorno in relax a Porto Cervo, in Sardegna, mentre sulla terra ferma si discuteva delle sue (richieste e sollecitate) dimissioni.

DOMANDE E FOTO – La consigliera regionale del Pdl non ha rilasciato nessuna dichiarazione. Per raggiungere il suo posto a sedere è passata tra un’ala di cronisti e fotografi che le hanno fatto mille domande e scattato innumerevoli flash. Lei non ha risposto. Non era imbronciata come al solito ma non ha voluto dire nulla. In molti, tra i colleghi, sono andati a salutarla.

«PER IL BENE DI TUTTI» – «Per il bene di tutti non ho intenzione di rilasciare dichiarazioni per cui smettiamola qua, non dico altro, non rispondo a nessuna domanda; quindi per cortesia veniamoci incontro». Questa è stata la risposta di Nicole Minetti ai giornalisti. A una domanda sulle dichiarazioni di ieri (lunedì 16 luglio, ndr) di Daniela Santanchè, la consigliera regionale, imputata al processo Ruby bis e di cui diversi esponenti del Pdl chiedono le dimissioni, ha commentato: «Non rispondo a nessuna provocazione né domanda». E poi, ha comunque detto ai cronisti di offrire «volentieri il caffè a tutti quanti».

FORMIGONI – «Evitate di dire che sono imbarazzato o preoccupato e nervoso, io sono serio, tranquillo, quasi gioioso, e determinato come sempre». A dirlo è il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, a margine dei lavori del Consiglio regionale, parlando delle eventuali dimissioni di Nicole Minetti. Lunedì il coordinatore regionale Pdl, Mario Mantovani, aveva dichiarato che sarebbero arrivate in giornata ma fino ad ora non risultano arrivate all’ufficio protocollo. Formigoni ha sottolineato: «Ieri (lunedì, 16 luglio, ndr) ho fatto riferimento alle parole del coordinatore regionale Mantovani io non ho informazioni ulteriori. A quanto risulta le dimissioni non sono state date e non so se e quando le darà»

L’«INCIDENTE» – Una prognosi di 10 giorni per una distorsione alla caviglia. È quanto accaduto al consigliere lombardo della Lega Nord, Roberto Pedretti, travolto dalla folla di giornalisti, cameraman e fotografi che inseguivano Nicole Minetti in Regione.

Mafia, assolto Romano L’ex ministro piange in aula

NON C’È solo l’ennesimo passo falso per l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, nell’assoluzione decisa ieri a Palermo dell’ex ministro dell’Agricoltura Saverio Romano (area Pdl), sia pure con la formula che «reinterpreta» la vecchia insufficienza di prove. La sentenza del gup Fernando Sestito, a conclusione del rito abbreviato, rappresenta il coronamento di un rompicapo giudiziario durato 9 anni: la Procura, infatti, aveva archiviato la prima inchiesta sull’ex dc nel 2005 e riaperto le indagini nel 2009, salvo poi richiederne l’archiviazione e vedersi imporre l’imputazione coatta di Romano per iniziativa del gip Castiglia, da cui è nato l’ultimo processo.

Una vicenda vissuta dal fondatore dei Popolari di Italia Domani (Pid) in parallelo con le disavventure dell’ex presidente della Regione Sicilia, Totò Cuffaro, già assolto dall’accusa di concorso esterno perché per gli stessi fatti sconta una condanna definitiva a 7 anni di reclusione.

Ma, una volta arrivata in aula, la Procura, con il pm Di Matteo, superando le precedenti incertezze ha chiesto per Romano la condanna a 8 anni, per aver stretto «un patto politico-elettorale mafioso». Scoppiato in lacrime durante la replica della pubblica accusa, ieri l’ex ministro ha reso dichiarazioni spontanee: «Signor giudice, non ho mai tradito la legge, ho una toga che è pulita e spero di poterla consegnare a mio figlio al più presto. Signor giudice, io amo questo Paese». Non ha assistito alla lettura della sentenza. «Finalmente è finita», questo il suo commento da casa. «Inutile nascondere la mia soddisfazione: sono stato assolto perché il fatto non sussiste. In me vi è però l’amarezza per i tempi lunghi della giustizia, incompatibili con un Paese civile».

DAL CENTRODESTRA un coro di felicitazioni. Per il capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, «finalmente è stata riconosciuta la sua estraneità ai fatti, dopo che per mesi ha pesato sulla sua testa come una spada di Damocle un’accusa pesantissima ovviamente strumentalizzata dall’opposizione». Il Procuratore di Palermo, Francesco Messineo, invita a meditare sulla formula adottata. «Rispettiamo qualsiasi sentenza. Questa viene classificata come assoluzione, ma con l’articolo 530, secondo comma, del codice di procedura penale, avviene per mancanza di prove, per prove insufficienti o contraddittorie».

Bruno Ruggiero

Alta velocità, sabotata la Milano-Bologna circolazione treni in tilt

BOLOGNA – Alta velocità in tilt, questa mattina, a pochi chilometri dalla stazione di Bologna. Un pezzo metallico, forse un gancio a uncino, posizionato sulle linee aeree ha danneggiato il pantografo di unFrecciarossa. Una tecnica riconducibile all’area anarchica, secondo gli inquirenti che seguono la pista del sabotaggio.

Il sabotaggio è avvenuto tra le stazioni di Ponte Samoggia e Anzola Emilia, tra le province di Modena e Bologna. Sul posto sono presenti tecnici delle Ferrovie dello Stato, Polfer e carabinieri. Danneggiato il pantografo del Frecciarossa 9501 che da Milano era diretto a Bologna. I passeggeri sono stati fatti scendere nella stazione del capoluogo emiliano e trasferiti su un altro treno. Il sabotaggio sta causando ritardi compresi tra i 10 e i 20 minuti sulla linea ad alta velocità, dove i treni viaggiano su un solo binario. Ferrovie dello Stato è infatti in attesa del nullaosta del magistrato per la riapertura della tratta.

 

Capri, ambulanza usata come taxi La denuncia corre su Facebook

CAPRI – Il video, postato su Facebook, che riprende medici e personale del 118 in servizio sull’isola di Capri, mentre salgono a bordo dell’ambulanza del dipartimento emergenza Napoli unico mezzo destinato al pronto soccorso sul territorio dell’isola, ha creato indignazione e protestesulla pagina web “Isola denuncia”, il gruppo creato dopo i giorni della protesta contro gli aumenti dei biglietti degli aliscafi.

Il clamore sollevato dalle immagini, pubblicate su Fb, in cui viene ripreso il personale del 118 che utilizza l’ambulanza come un vero e proprio taxi ha già portato i dirigenti napoletani del servizio 118 ad aprire un’inchiesta amministrativa interna.

Nel video, infatti, si notano ben sei persone più l’autista che prendono posto nell’autoambulanza, la vettura adibita al trasporto degli ammalati o nei servizi di emergenza e pronto soccorso, mettendone a rischio la sterilità.

 

Stato-mafia, l’inevitabile passo del Colle

ROMA – E’ stata una decisione sofferta, ma inevitabile. Napolitano ha cercato attraverso vari passaggi istituzionali ad arrivare ad un chiarimento. Tutto è stato inutile. Con un punto crucialeabbastanza incomprensibile, almeno per il Colle: perché di fronte all’accertata irrilevanza di quelle registrazioni telefoniche tra il capo dello Stato e Mancino, non si è proceduto alla loro distruzione? Ora di fronte al rischio che un suo eventuale silenzio potesse comportare una «deminutio» delle prerogative presidenziali sancite dalla Costituzione, Giorgio Napolitano ha dovuto far prevalere i suoi doveri di capo dello Stato rispetto a quelli altrettanto onerosi di capo del Csm e avviare la procedura del conflitto di attribuzione davanti alla Consulta.

Beninteso: nessun intento polemico o desiderio di soffocare le inchieste sulla presunta trattativa Stato-mafia nell’iniziativa del capo dello Stato anche perché – come si è detto – l’inesistenza di interessi personali è già attestata dalla conclamata irrilevanza delle intercettazioni ai fini giudiziari. Quel che invece ha indotto Napolitano ad agire è la preoccupazione che si potesse creare un pericoloso precedente su un terreno sovente melmoso come quello delle intercettazioni telefoniche. Di qui un’esigenza di chiarezza non tanto per sé quanto per l’istituto presidenziale che – non a caso – induce Napolitano a ricordare la lezione di Luigi Einaudi e riporta in qualche modo alla memoria il più immediato precedente in materia di conflitto di attribuzione: quello del 2005 tra il precedente capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, e l’allora Guardasigilli Roberto Castelli sulla grazia presidenziale nella scia del caso Sofri.

Ora il tema è più delicato. Per il Colle quell’intercettazione telefonica andava e va distrutta e il fatto che essa sia «indiretta» non cambia la sostanza delle cose. Napolitano ha riflettuto bene prima di sollevare lo scontro tra poteri. Si è consultato con numerosi costituzionalisti. Egli non poteva tacere anche perché in più circostanze – ad esempio all’Aquila il 21 giugno scorso – aveva espresso tutta la sua indignazione per «la campagna di insinuazioni e di sospetti contro il Quirinale» alimentata dalle intercettazioni delle telefonate tra il suo consigliere D’Ambrosio e Mancino; una campagna – aveva sottolineato – fondata sul nulla, su interpretazioni arbitrarie e «talvolta con versioni manipolate».

Aveva fatto divulgare il testo di una lettera riservata del segretario generale del Colle, Marra, al pg della Cassazione in cui riferiva delle lamentele di Mancino perché non c’era il necessario coordinamento nelle indagini siciliane. Sperava che il polverone si dissipasse. Ma nulla è servito e quando ha compreso che quelle intecettazioni – ancorché irrilevanti – potevano aprire un vulnus nei poteri presidenziali, si è consultato con il suo staff giuridico e ha deciso di passare all’offensiva. D’altra parte, il pensiero di Napolitano sulle intercettazioni non da oggi è molto chiaro e preciso. Nell’incontro con i giornalisti all’Aquila aveva ribadito l’urgenza di una legge per regolamentare la delicata materia da deliberare in Parlamento «sulla base di un’intesa la più larga possibile».

Quanto ai suoi contenuti Napolitano si è limitato a indicare l’esigenza di rispettare e di conciliare tre valori fondamentali: il diritto alla sicurezza dei cittadini che comporta anche l’uso delle intercettazioni telefoniche da parte della magistratura, il rispetto della privacy e la libertà di stampa.

 

«Legami con i Casalesi»: arrestato titolare del gruppo caseario Mandara. Sequestrati beni per 100 milioni

Gli agenti della Dia e del Noe dei carabinieri stanno eseguendo provvedimenti del gip di Napoli emessi su richiesta della Dda nei confronti del gruppo caseario Mandara, noto marchio della mozzarella Dop. Il titolare, Giuseppe Mandara, è stato arrestato insieme ad alcuni collaboratori e il patrimonio, stimato in oltre 100 milioni di euro sequestrato. Le accuse sono associazione per delinquere di stampo camorristico e reati in tema di tutela della salute pubblica.

l sequestro di beni eseguito dagli agenti della Dia e dai carabinieri del Noe di Napoli riguardano l’intero patrimonio aziendale del gruppo caseario «Mandara». Secondo quanto rende noto la Direzione investigativa antimafia, gli esponenti di vertice del gruppo imprenditoriale sarebbero legati al clan dei Casalesi. I particolari della operazione anticamorra, denominata «Bufalo», saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa convocata per le 11 nella sede della Procura della Repubblica di Napoli.

NICOLE MINETTI NON SI E’ DIMESSA

MILANO – Nicole Minetti non si è dimessa. All’ufficio protocollo del Consiglio regionale della Lombardia non è arrivata nessuna comunicazione e dunque la consigliera, indagata per favoreggiamento dellaprostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede, resta in carica. Oggi quindi alla seduta del Consiglio dedicata all’Expo, se sarà presente, tutti gli occhi saranno puntati su di lei. Sembrava che le dimissioni fossero cosa fatta, tanto che il segretario del partito Angelino Alfano ha risposto senza esitazioni «sì» quando gli hanno domandato se oggi si sarebbe dovuta dimettere. Invece per ora nessun passo indietro. Anzi, la consigliera senbra avere altre preoccupazioni, come suggerirebbero le immagini che la ritraggono a Porto Cervo.

Ad ogni modo c’è chi in questo ritardo ci legge anche un indebolimento dell’autorità del segretario, un nuovo colpo dopo la decisione di Silvio Berlusconi di ricandidarsi. Roberto Formigoni per ora glissa. Ricorda solo che «le dimissioni sono un istituto personale». Insomma, la palla è in mano a Nicole Minetti. Si parla di una trattativa serrata per lasciare, qualcuno prevede fra qualche giorno, qualcuno ad ottobre per maturare il vitalizio. In realtà, secondo il regolamento del Consiglio, Minetti deve dare una comunicazione scritta all’ufficio di presidenza e alla giunta delle elezioni e poi le sue dimissioni devono essere votate nella prima seduta disponibile.

L’ex ballerina di Colorado non ha rilasciato dichiarazioni. Ma hanno parlato, abbondantemente, quelli che l’attaccano, con il pressing del Pdl che continua, e quelli che la difendono. Secondo Ignazio La Russa «sarebbe bello se non fosse la sola» a dimettersi. Secondo Daniela Santanchè, Minetti «in questi mesi ha dimostrato di non essere adatta alla politica». Più sfumato il commento dell’ex ministro Mariastella Gelmini, convinta che fra qualche anno si dovrà chiedere scusa alle ragazze che andavano alle feste di Arcore.

«La sua candidatura è stata un errore, soprattutto per lei – ha spiegato -. Credo che la Minetti avrebbe la possibilità di esprimere le proprie capacità in altre direzioni». L’ex ministro dell’Istruzione dice no al linciaggio e in tanti difendono l’igienista dentale più famosa d’Italia. Le è arrivata una lettera aperta dei blogger Pdl di Retrovia – sito nato dopo l’esperienza dei formattatori – che accusandola ironicamente di tutti i danni del partito in realtà puntano il dito su Berlusconi, sui vertici del partito e su «cuordileone Alfano».

Da radicali, Pd, Sel e Idv arrivano critiche al Pdl che ne fa un capro espiatorio, con richiesta di dimissioni di Formigoni e/o Berlusconi. In pratica tutti quelli che avevano criticato la sua candidatura nel listino bloccato due anni fa, adesso criticano e considerano ipocrita la richiesta di dimissioni. Resta da vedere se arriveranno

Merkel, il portavoce gela Berlusconi: «Con lui nessun contatto da mesi»

BERLINO – Silvio Berlusconi e Angela Merkel «non hanno più avuto contatti da quando non è più premier, quindi non posso parlare attualmente di un rapporto cordiale». Lo ha detto il portavoce delgoverno tedesco Steffen Seibert aggiungendo che quando hanno lavorato insieme c’è stata «una buona collaborazione italo-tedesca».

L’intervista. Il portavoce del governo tedesco Steffen Seibert ha risposto alla domanda di un giornalista sulle affermazioni fatte dall’ex premier in un’intervista alla Bild. «Ho un cordialissimo rapporto con la signora Merkel. La stimo per la sua franchezza, la sua serietà, la sua competenza, la sua dedizione. E non dimentico che insieme a me ha visitato l’Abruzzo dopo il terremoto», ha detto Berlusconi al tabloid tedesco.

 

«Conflitto fra poteri dello Stato» Napolitano contro la procura di Palermo

Il presidente della Repubblica firma il decreto per la mancata distruzione delle intercettazioni delle telefonate con Mancino

Giorgio Napolitano contro i giudici di Palermo. Il presidente della Repubblica ha infatti firmato il decreto con cui affida all’Avvocatura dello Stato l’incarico di sollevare il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Il Quirinale, in altri termini, va all’attacco della procura di Palermo, in relazione alla vicenda delle telefonate intercettate tra il consigliere del presidente per gli Affari giuridici Loris D’Ambrosio e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino a proposito della presunta trattativa tra Stato e mafia negli anni 90. Durante l’attività d’intercettazione ci sarebbero state anche un paio di telefonate fra Mancino e Napolitano, telefonate che avrebbero dovuto essere distrutte, provvedimento che il procuratore del capoluogo siciliano Francesco Messineo non ha ancora disposto. A giudicare sul conflitto sarà la Corte costituzionale.
IL COMUNICATO – A spiegare le ragioni della decisione di Napolitano è lo stesso comunicato stampa in cui il Quirinale ne dà notizia: «Alla determinazione di sollevare il confitto, il presidente Napolitano è pervenuto ritenendo dovere del Presidente della Repubblica, secondo l’insegnamento di Luigi Einaudi, evitare si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell’occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce».

IL DECRETO – Il dispositivo con cui Napolitano dà mandato all’avvocatura dello Stato di sollevare il conflitto di attribuzione è stato pubblicato sul sito del Quirinale. È evidente che l’iniziativa del Colle punta ad evitare che le intercettazioni che coinvolgono il capo dello Stato, ancorché ritenute non rilevanti per i pm, finiscano agli atti del procedimento a disposizione delle parti. «La Procura, dopo aver preso cognizione delle conversazioni, le ha preliminarmente valutate sotto il profilo della rilevanza e intende ora mantenerle agli atti del procedimento perché esse siano dapprima sottoposte ai difensori delle parti ai fini del loro ascolto e successivamente, nel contraddittorio tra le parti stesse, sottoposte all’esame del giudice ai fini della loro acquisizione ove non manifestamente irrilevanti». Il che sarebbe, a giudizio del Colle, una violazione delle prerogative presidenziali: «Le intercettazioni di conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorché indirette od occasionali, sono invece da considerarsi assolutamente vietate e non possono quindi essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione».

M. Br.

Moodys taglia rating a banche e società italiane

MILANO Reuters – Moodys ha tagliato il rating di una serie di banche e società italiane per allineare il merito di credito a quello del Paese dopo il downgrade a Baa2 della scorsa settimana.Il rating di Intesa SanPaolo e Unicredit è stato abbassato a Baa2 da A3 con outlook negativo.Lintervento di Moodys include il calo di un gradino per sette instituzioni finanziarie e di due per altre sei.Anche Cassa Depositi e Prestiti e Ismea sono state abbassate per il loro elevato grado di esposizione sul mercato interno.Moodys ha tagliato anche il rating di alcune importanti utility.Terna, è stata ridotta a Baa1, e anche Atlantia, Snam e Acea hanno visto ridursi i loro rating.Poste Italiane è stato tagliato a Baa2, mentre Eni ad A3 da A2.Tra gli altri adeguamenti al ribasso, Moodys ha tagliato 23 enti locali inclusa la Lombardia, Lazio come anche le città di Milano e Napoli. Sul sito http://www.reuters.it altre notizie Reuters in italiano Le top news anche su http://www.twitter.com/reuters_italia

viaMoodys taglia rating a banche e società italiane | Business | Reuters.

Primarie e matrimoni gay, Pd diviso. La sfida dei ribelli a Bersani: “Voto”

La Bindi nel mirino dell’area laica
«Pronti a stracciare la tessera»

ROMA
Finale senza voto, e con bagarre, all’Assemblea nazionale del partito su nozze gay e primarie. Dopo la conclusione del segretario Pierluigi Bersani e quando si dovevano votare alcuni ordini del giorno, è scoppiato lo scontro sul documento elaborato dalla Commissione Diritti che prevede, tra l’altro, il riconoscimento giuridico delle unioni, in linea con la sentenza della Corte Costituzionale in materia, ma non i matrimoni gay, come vuole invece l’area più laica. Tensione anche sulla questione delle primarie con l’ala vicina a Pippo Civati che ha chiesto con un odg una data del voto. È toccato a Bersani intervenire per sedare gli animi ricordando che «il Paese non è fatto delle beghe nostre».

E che gli animi fossero destinati a surriscaldarsi si è capito quando la relazione del segretario è stata votata ma in cinque dell’ala di Civati hanno deciso di astenersi. Poco dopo si è passati alle votazioni dei documenti e la presidenza ha comunicato che si sarebbe votato solo sul documento elaborato dalla Commissione Diritti senza che ci fosse spazio per altri contributi, come appunto quello sulle nozze gay, dei quali si discuterà, invece, alla prima direzione utile dopo le ferie. A quel punto sono iniziate le proteste. Ignazio Marino, Paola Concia, Barbara Pollastrini, si fanno sentire: avevano sottoscritto un documento con il quale volevano integrare il testo uscito dalla Commissione prevedendo i matrimoni gay. Un documento ritenuto, però, “precluso” dalla presidenza. Il testo `ufficiale´ della Commissione è passato quindi con i 38 voti contrari dell’ala più laica del partito.

Scattano le contestazioni. «Siete più indietro di Fini, il vostro è un documento arcaico», è insorto il delegato pugliese Enrico Fusco che è salito sul palco per spiegare le ragioni del documento integrativo e di fronte al rifiuto di metterlo in votazione ha restituito la tessera a Bersani. Insieme a lui anche altri due delegati hanno restituito la tessera e la mancata votazione è stata sottolineata dai `buu´ della platea e da urla «vergogna, vergogna».

La situazione si è ancora più surriscaldata quando non sono stati messi in votazione nemmeno gli ordini del giorno di Civati, Gozzi e Vassallo sulle primarie perché «preclusi» dall’intervento di Bersani che aveva annunciato primarie entro la fine del 2013. A quel punto dalla platea sono giunte le urla «voto, voto». E in diversi hanno chiesto che il segretario intervenisse. «Questo è un partito precluso…», ha ironizzato Civati.

Per placare gli animi è intervenuto finalmente Pierluigi Bersani. «Nel momento in cui per la prima volta il Pd assume un impegno alla regolamentazione giuridica delle unioni gay – ha detto parlando delle prima questione – vedo qualcuno che dice `vado via dal Pd´: ma io dico attenzione, il sistema dei diritti è un meccanismo in evoluzione e può perfino fermarsi se non si tiene conto dei passi. Per quanto riguarda le primarie, ho detto che saranno aperte, non mettiamo paletti, ma nel momento in cui sono primarie che dobbiamo fare con gli altri allora è chiaro che ne dobbiamo discutere con loro». Per questo Bersani ha invitato a votare contro il punto dell’ordine del giorno che chiedeva una data. E soprattutto ha strigliato tutti perché- ha sottolineato – «il Paese non è fatto delle beghe nostre». Il segretario ha quindi ribadito la necessità, in vista del 2013, di non dare l’immagine di un partito litigioso che non decide. E ha così chiuso le polemiche.

Berlusconi attacca la Merkel e annuncia il cambio di nome “Addio Pdl, torna Forza Italia”

L’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sul sito della Bild
+ L’ultimatum di Alfano: “Minetti si dimetta”
+ Ma sul web i militanti blindano Nicole

Intervista alla Bild: «Ho visto arrivare per primo la crisi. Voglio una  Germania che sia più europea, non il contrario»

ALESSANDRO ALVIANI
BERLINO
Silvio Berlusconi torna a dare un’intervista a un giornale internazionale. E per farlo sceglie il quotidiano più letto d’Europa, la Bild, la corazzata del gruppo Springer che ha un ruolo chiave per influenzare il dibattito pubblico in Germania. Nel testo, pubblicato oggi in apertura della sezione politica del giornale e intitolato «Non vogliamo un’Europa più tedesca», l’ex premier annuncia che tornerà presto al nome «Forza Italia», esclude un addio all’euro, si definisce «il primo leader occidentale che ha riconosciuto il pericolo della crisi finanziaria» e attacca l’«eccessiva» politica di risparmi seguita da Angela Merkel – anche se giura di avere con lei un rapporto «molto cordiale». «Mi chiedono spesso e molto insistentemente» di ricandidarmi a presidente del Consiglio, esordisce Berlusconi. «Posso solo dire che non pianterei mai in asso il mio Popolo della Libertà. Tra l’altro torneremo presto al vecchio nome del partito: Forza Italia».

Berlusconi nega di non poter vivere senza il potere politico: «Non ho né un trauma, né ho ceduto il potere, in quanto il premier in Italia non lo possiede affatto: in base alla Costituzione non può neanche sostituire un ministro. Il potere ce l’avevo prima del 1994, quando facevo solo televisione», ricorda. Al giornalista Albert Link, che gli chiede cosa Mario Monti sia riuscito a fare meglio di lui, l’ex presidente del Consiglio risponde che la forza del suo successore sta nel fatto che «può contare sull’appoggio più ampio che un premier abbia mai avuto. Questo è il motivo che mi ha spinto a tornare: volevo rendere possibili riforme, anche di tipo costituzionale». Io, continua Berlusconi, «sono stato il primo leader occidentale a riconoscere il pericolo della crisi finanziaria e ad avviare riforme». Se l’Italia riporta sotto controllo i suoi conti pubblici «lo si deve in gran parte al mio governo», rivendica.

Rispondendo a una domanda sulle «gelide» reazioni tra Italia e Germania Berlusconi nega poi che Merkel venga percepita in Italia solo negativamente, come un leader controverso. «Critichiamo solo una politica di austerity eccessivamente rigida, che frena la crescita. Desideriamo una Germania più europea e non un’Europa più tedesca», nota. «Desideriamo da Berlino una politica europea lungimirante, solidale e aperta». Al momento, si legge su un passaggio anticipato ma non pubblicato sull’edizione cartacea, si sente «un certo predominio tedesco in Europa».

Berlusconi nega poi che il suo rapporto con Frau Merkel sia ormai compromesso. Anzi, quello con la cancelliera è un rapporto «molto cordiale, apprezzo la sua apertura, la sua serietà, la sua competenza e il suo impegno». Quanto alle sue ultime uscite sull’euro, l’ex premier ricorda che con l’introduzione della moneta unica il bilancio economico della Germania è migliorato, quello dell’Italia è peggiorato. «Ma ciononostante un ritorno alle valute nazionali mi sembra improbabile. Ciò significherebbe l’insuccesso del progetto storico di un’Europa unita, cosa che nessuno vuole».

In un’anticipazione di una parte dell’intervista non pubblicata sull’edizione nazionale cartacea ma solo sulla versione online della Bild, Berlusconi si sofferma anche sul caso Ruby e definisce il processo in corso «una campagna di diffamazione della nostra giustizia in parte di sinistra». Le ragazze sono state messe in relazione alla prostituzione, mentre hanno soltanto ballato «come in qualsiasi altra discoteca del mondo». Tutte le accuse si risolveranno nel nulla, come anche negli altri processi condotti contro di me: «Sono stati oltre 50 e ho speso oltre 428 milioni di euro in avvocati e assistenza legale. Non credo che nessun altro abbia resistito a tanti attacchi oltre a me».

MOODY’S SE NE FREGA DI MONTI, E TAGLIA!

Moody’s taglia rating titoli italiani

Roma – (Adnkronos/Ign) – Si passa da A3 a BAA2. L’agenzia mantiene un outlook negativo: ”Clima politico aumenta i rischi”. Passera: ”Giudizio ingiustificato e fuorviante”. Squinzi: ”Più forti di quello che appare”. Il portavoce di Rehn: ”Dall’Italia sforzi senza precedenti”. Collocati 3,5 mld di Btp, rendimenti giù. Pil, Confindustria: “Nel 2012 calerà più del 2,4%”. Bce: debito e disoccupazione mettono a rischio ripresa

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