“La memoria è il diario che ogni uomo porta con sé nel viaggio della vita…quello che non smetterà mai di mentirti.”
8 Agosto
Bene…, in fondo a me c’è come il desiderio di vederti esistere, a spingermi in una corrente (fino ad ora sconosciuta) verso te: il mio desiderio di stare lì a guardarti.
Sospingevo le mie piccole ali a fatica incontro a un possibile ma irraggiungibile destino. Era la mia aspirazione insopportabile a me stesso: mi rendeva un clandestino dei giorni e delle ore; non ne ero degno. Non ti avrei raggiunto in ogni caso: il tuo vento, la tua onda erano altri. Talmente lontani da me che la distanza fosse commensurabile solo al senso di colpa che mi prendeva più tu mi eri vicina.
A volte, quando un giorno nasceva nello spirito dei ricordi accettabili, avvertivo pietà per quell’uomo. Così straniero alla felicità.
Una felicità che mi investiva quasi io fossi acqua e tu la corrente imperiosa, ma il fatto è che non sono quell’acqua.
Così (già sapendolo) compresi in me con pienezza quanto fossi contro ogni valore, contro ogni idea di eternità, contro ogni vita, foss’anche la più infima, nascosta e insignificante. Il tenerti vicina e, quindi, l’amarti.
Nel segno di ogni profondo disprezzo per la vita io ti amo.
Poiché l’unica possibile vita fossi ed eri tu, con la tua pienezza.
Il mio desiderio…fattosi la forma peggiore d’amore… scolorì in un istante il mondo intero.
Tu fosti la conferma che ogni cosa fosse affatto priva di una gioia che le conferisse un colore; la pienezza di te mi rese invisibile ogni cosa che non fossi tu. E ogni altra gioia.
Mi accostai con tutta la rabbia e tutto il disprezzo alla vita verso la vita. Così. Così.
La felicità dell’averti lì, davanti al mio disprezzo, fu l’occasione di finirmi. Così io feci.
Ciò che tu vedevi esisterti accanto fu solo il cadavere di me.
Per questo fu così ch’io sognai ciò che non sognerò mai più, nell’eternità della mia morte, avendolo già consumato in me attraverso te; il sogno di un tempo senza più tempo.
Il meraviglioso istante del mio uccidermi in te, nella tua sostanza liquida in cui m’annegai subito.
Senza alcun rimpianto che non fosse già cose di un passato divenuto trapassato.
A volte ancora il mio nodo terrestre mi tenta, sussurrandomi verità di un’altra vita: vedo passare i nostri corpi come veli sospinti in quel lentissimo lago. Simile a nobili alghe senza più radici, con la vita che ancora gli scorre dentro per il tempo dei ricordi: l’unico tempo che ci resta per il nostro strano amore.
Tu, così regina di solitudine in cui nulla resta di me se non il sacrilegio, ed io, così assente ad ogni sensibilità umana. Io così degno di una fine che non avendomi ancora raggiunto mi condanna ad essere colui che si sente veloce, tanto da aver sprigionato il fuoco che sai. Il fuoco che ci ha perduti.
Mi chiedo chi siamo, ma di più chi fummo. Quale diritto all’esistenza avemmo, diversamente da come avemmo fatto, essendo stati amanti mai incontratisi.
Il solo desiderio ch’ebbi di te mi accompagna verso un oblìo che neanche merito e che non avrò.
I tuoi sorrisi sfreccianti odorano di un pulito che neanche si fa pena del mio peggior essere ciò che sono: un uomo.
Ciò che avrei voluto desiderare fu solo ciò che non potevo: essere come te.
Eppure, a mio modo, t’amai proprio perché tu mai avresti potuto essere me.
Ero tranquillo che il male che io t’inflissi fu solo la volontà del caso che ti fece amarmi.
Nulla del mio mondo potè appartenerti. Il mio animo mai ti sfiorò. I miei dolori, ciò che cadeva dal mio acme d’agosto e che fu ai tuoi occhi già settembre, mai tu lo raccogliesti.
Fu così che il mio immettere la mia vita nella tua ebbe per te il solo scopo di avventurarmi nel tentativo di riceverti in forma di vita nuova.
Come la mia fosse solo un inevitabile destino di morte.
E, a un tratto, io fui il vampiro accanto a te. Così immenso e immensamente diverso.
La tua incapacità di amare ciò che fosse diverso da te scandì il tempo del mio errore.
Già: io t’amai per aver sposato la tentazione postami innanzi dal caos.
Così io caddi rovinosamente nel Paradiso. Assieme a te. Tenendoti per mano. Guardandoti esistere.
9 Agosto
Il vento che spira oggi è talmente caldo da farmi rimpiangere un inverno dove gelare ogni mia aspirazione solare.
Nei tuoi passi raccolti, così lievi e monotoni, appare ogni cammino d’ogni fede. Tu sei sul monte.
Io qui, a guardarti ancella di un dio che scandisce (battendo e soppesando) i ritmi del Bene e del Male. Timpani d’orchestra come bilancia.
Le sofferenze non ti appartengono più di quanto non sia stato scritto per te nulla di indecente.
Le sofferenze (così amiche dei miei ricordi) erano solo incidenti da evitare, al punto di rinnegare anche le tue.
Fu l’indecenza di confessare i fallimenti: quello che eliminammo.
Fu la storia dal mondo.
Ogni pietra scagliata contro il vento ci consegnò all’improvviso il canto, e il vento ci apparve.
Per questo tornammo indietro, aldilà del peccato. Ma io avrei dovuto camminare di più. Inerpicarmi verso un pendio minaccioso dove i miei gesti fossero stati quelli dell’idiota.
E’ più pensai, immaginai di salirvi, più la mia carne prese a sognare in sé il deserto della tenebra. Ma non ne ebbi paura.
Cancellai così il mio peccato: la coscienza mi lasciò. Era in direzione dell’inferno (inevitabilmente) il nostro paradiso, eppure vi andammo.
Sempre più nudi e senza un’ oasi che non fosse il fingere insieme.
Io sempre più avanti per la mia vecchiaia dinnanzi agli occhi di Dio. Eppure tu mi eri sempre dietro. E accanto ad ogni sosta.
I nostri sorrisi risplendevano nell’abisso che stavamo scavando.
Le nostre due carni risuonavano d’ogni picconata.
La profondità si svela in un vuoto ancora più grande che prelude ad ogni vastità pensabile: è per questo che il pensiero si perde e si plasma.
Ciò che più c’era compagno nella nostra solitudine era l’idea di ciò che avremmo trovato: era per questo che scavavamo.
Ogni vuoto fu l’appiglio per creare un gradino: (chissà, forse non volemmo gettare l’idea che avremmo potuto un giorno discenderne o risalirne).
Ma fu per questo che toccò a me la maggiore idiozia.
Avrei dovuto raggiungere in pieno la purezza. E cosa v’era di più puro che lasciare alle nostre spalle aperta la porta della fuga? Avesti ragione.
Eravamo liberi anche dal Paradiso.
Così capii che la tua felicità – ciò che più risplendeva nel tuo desiderio – fu l’assenza d’ogni timore della dualità.
Eppure “tu” mi scopristi avventuriero. Ho così amato le tue contraddizioni da erigervi una tua statua. Ricordi?
I piani prospettici piatti di Klimt. La violenta ironia di Wilde. Candidi entrambi nel viaggio di Voltaire. Ormai incapaci di invecchiare proprio come Gray.
Era cosi che scagliavamo sassi al vento. Cechi come talpe che sognano le stelle. E le percorrono una ad una cancellandole per gioco.
L’importanza di chiamarsi…
10 Agosto
“Potrei esserti vicina, colle mie anche dorate, e spegnere ogni tuo segreto nel mio”. Polena
Vorrei ancora sognare il tuo volto. Scolpito nelle mie carezze.
Così assoluto, impervio, terribile, vivace, altero, ingenuo, persecutorio, ossessivo, tangibile, immoto, presago, indolente, onnisciente, evidente, geniale, vibrante, così tuo.
Così tormentoso nell’impeto di prendermi e attendermi e d’occuparmi.
Il mio cammino vi è iscritto, e così la sostanza delle cose parlanti e tacite, oppure mute; sorelle liete e malinconiche di ore affacciate ai tuoi occhi e ai tuoi silenti sguardi. Occhi assolati, come perle sfuggite alle tasche del ladro, rotolate giù per i vicoli saraceni e di salto in salto rimbalzate nel cobalto. Virulente come il desiderio inesausto dell’abisso e come la sua carezza lieve, mediterranea… ansiosa, toccante.
Io sono del tuo volto l’idioma del tuo segreto inespresso, inesprimibile.
Accalcato ai percorsi del bianco accecante delle case di Tunisi; in pieno sole come il corpo unico di Paolo e Francesca; assonnante nel bacio di Rodin e possente e decadente in Klimt; come Alcesti tu mi facesti dono di vita e io ti baciai così. Così bella e addormentata.
Eri tu, assiepata e dolente; invitante come mai; mia sposa, mia donna, mia.
Hanno gettato le reti nei fondali del Tirreno più odoroso di spiga , e di ginestra, e resina di pino.
Noi percorriamo le rotte segnate dalle nuove stelle: un vento nuovo è il nostro nocchiero, quello che svetta nei tuoi capelli e li scarmiglia inanellandoli insieme ai tuoi sorrisi: sembra ieri ma è mille segreti fa.
Merletti di alabastro tremulo s’intrecciano e si perdono, quando la Luna è immota, e rivendica il suo riflesso nell’ occhio naufrago, già ritroso nel suo sognare del tuo corpo di Polena.
Meno di tutto fui degno del tuo coraggio.
11 Agosto
Tutto si ritira. E tutto mi invade, una marea di tutto, quando non puoi più sceglierti una vita o un’altra, tutto accade come per miracolo.
E se la morte la cogliessi adesso sarei come Klein-Wagner, in fondo al lago. E domani mi ricorderò che lo sono stato. Quel piccolo punto nella marea, così assetato di te, e di me, e di noi.
12 Agosto
Sognai. Sognai un amore senza più tempo. Amore dove tutto non è più separato. Lacerazioni ricongiunte e sanate, ferite dimenticate nei cassetti del corpo di Dalì.
Io sono l’antagonista, As-satan, e tu sei la Fede. Cosa corre fra noi?
Precipito come folgore dal cielo d’Agosto, brucio come meteora, giaccio nel cratere che mi tocca: sono solo dono di un cielo che presagisce la stupidità, e lascia emblemi irripercorribilli, desueti a ciò che ineluttabilmente solo è il guardiano: (non vivo nel mondo degli uomini), ogni giorno è l’Avvento, ogni giorno sono i Bisonti ciechi di Borges. Se così non fosse….
“Mi fa male una donna in tutto il corpo”……