racconti

ANCORA LEI – Sandro Capodiferro

Ancora Lei

Seduto su di un divano di certezze, guardo le immagini da uno schermo colorato mentre volute di fumo accecano i miei occhi: un provvidenziale fastidio per non vedere e fingermi distratto. Nel silenzio del mio salotto asettico e piatto, mi trovo ad ascoltare la voce di un anonimo cronista che riporta la notizia assurdamente declamata tra le tante che impegnano i neuroni per il solo tempo di una frazione di secondo, quasi a fiaccarne la gravità nella scusante di un palinsesto tiranno. Un’altra lei a riempire un minuto scarso di comunicazione, a ritagliare sulle coscienze dei più l’ennesima reazione di salvifico sconforto, mentre intorno a me tutto tace come in attesa di una ribellione che non arriva, se non dentro di me. Questo ambiente che mi accoglie descrive tutto ciò che mi accomuna ad un genere, ad una stirpe, a un modo di essere solo fortuitamente cromosomico. E’ maschile una tenda bianca e ritta sugli attenti, un mobile d’acciaio freddo e lucido. Lo è un frigorifero semivuoto convinto della sua astinenza da un proprietario pigro che spaccia tutto questo per essenziale e utile; è virile una tavola di vetro dove non mangi mai perché un tappeto ha tutto ciò che può servirti ad essere più maschio durante il tuo letale pasto a ventre gonfio e irsuto. E’ così che ci si uccide di soli carboidrati e proteine proclamandosi asciutti e troppo impegnati; si riempiono le vene di insalubri sostanze fatte transitare per gozzi voraci e mal rasati, si iniettano gli alveoli polmonari di nebbia argentea e puzzo di bruciato, rigettandone con maschia decisione pezzi di vita, sprezzanti del pericolo. Quella notizia già non è più nulla e quella lei galleggia nei pensieri di chi dorme consapevole e appagato di quanto tutto questo faccia da sempre drammaticamente parte del gioco. Ma quale è gioco? E’ quello della vita ed è la sua per giunta. Non è un discorso dal quale lasciarsi annoiare nel ripetersi continuo di una storia millenaria fatta di tante lei che nell’anonimato di un istante hanno svettato, celebri un minuto, per esser dimenticate il successivo. E allora guardo ancora la mia stanza e provo a disegnarla nello spazio di un pensiero come se tutte quelle vittime fossero qui. Vedo lo sguardo attento dai mille toni d’espressione, arguto, indagatore, vero, forte ma anche scettico, disilluso, coinvolgente, freddo, colato via in una riga di rimmel che lascia traccia liquida delle proprie emozioni. Ascolto nell’aria le parole giuste, salaci, spontanee o programmate, perfide o dolcissime, di conforto, d’ira o d’amore, pronunciate da bocche morbide e taglienti mentre i denti mordono la patina vivida di un rossetto che ne accentua il lucido pensiero. Seguo intorno a me i gesti di mani capaci di essere ali per librarsi in volo oppure forti strumenti di precisione durante le innumerevoli attività delle quali sono in grado; mani che accarezzano e ora graffiano la mia anima, lucide di smalto, bagnate di saliva. Raccolgo tutto questo intorno a me e me lo metto addosso per ricordare la lei che sono anch’io come lo siamo stati tutti e ancor lo siamo. Fin dalla nascita virile che per prima ha ucciso questa lei, perché essere maschi e non evolvere in uomini è come aver sedato nel cloroformio degli istinti più terreni quella parte femminile che sostiene ogni nostro gesto. Non capire questa nostra comune radice è una bugia della quale fare scempio, è la codarda ipocrisia che è divenuta necessaria per non sentirsi poco più di nulla a confronto di quelle tante lei per le quali una dimensione non ha mai fatto la differenza, un lavoro è sempre stato soltanto una delle tante facce della vita, un amore è diventato il luogo dove essere e non soltanto comparire per sparire impaurite. Sul mio divano ora mi rivesto di me, lavando via il rimmel di quegli occhi, il rosso delle bocche e il brillio di quelle unghie, confondendoli con le mie cromie di nulla come di sottomarca, dolce amica, portando te che ridi in un ricordo di quanto poveri son gli uomini quando per esser come te ti uccidono eliminando la fonte del confronto, illudendosi così di non averne, sodomizzati dall’effimera illusione di un possesso contro natura, come la vile assuefazione alla cronaca che ancora una volta parla di te.

Sandro Capodiferro

È MORTA IDA MARCHERIA, Ciao Ida

Un cioccolatino per ricordare

Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, è l’anniversario della liberazione dei campi di sterminio Auschwitz-Birkenau. Il racconto di Ida Marcheria, sopravvissuta alla Shoah, grazie a una bugia sull’età e alla promessa di una torta al cioccolato.

Le piccole di casa

Fotografia di Alberto Novelli

Siamo nate a Trieste, in una famiglia ebrea come tante altre, ebree o cristiane, in un appartamento in piazza della Borsa, vicina a piazza Grande, quella che oggi si chiama piazza dell’Unità. Mio padre, che si chiamava Ernesto, era commerciante di prodotti kasher, prodotti di vario tipo come carne, azzime, e tanti altri. Vendeva e commerciava in un bel negozio, frequentato dai membri della nostra Comunità, ma anche da tanti triestini non ebrei. Mia madre, Anna Nacson, era invece una casalinga e come la maggior parte delle donne allora – ma anche oggi tocca sempre a loro – si occupava di noi figli. Il maggiore di noi si chiama Giacomo ed era nato nel 1926. C’era poi Raffaele, che era del 1927. Poi io e Stella, da tutti chiamata Stellina anche per distinguerla dalla nonna che aveva lo stesso nome. Noi eravamo le bambine, le piccole di casa.

Prima dell’arresto

Fotografia archivio personale di Ida Marcheria

La nostra fu un’infanzia piuttosto felice, non avevamo grossi problemi e potevamo vivere tranquillamente. Il nostro era il tempo dello studio, dei giochi e i nostri genitori, con molta attenzione e tatto, lasciavano che ci raggiungesse solo ciò che non poteva arrecarci turbamenti. Anche in questo eravamo bambini come tutti gli altri.

Trieste, una gran bella città, era, come si direbbe oggi, multiculturale, multietnica: c’erano ebrei, anche originari della Grecia – molti come il nonno provenivano da Corfù – austriaci, ungheresi, sloveni, italiani ovviamente, insomma Trieste era una gradevole Babele di lingue, dialetti, di gusti, di profumi, di sapori. Una città di confine e di conseguenza di ricchezze culturali composite e magnifiche. Purtroppo, anche in un tessuto sociale così ricco e articolato, non mancavano i veleni per gli scontri, a volte molto violenti, fomentati, per lo più, dai fascisti nei confronti degli slavi. Ma noi, piccoli di casa, anche da queste violenze, eravamo protetti.

(Nella foto: da sinistra, Hanna Schwartz, Ida e Stellina Marcheria, Trieste, ottobre 1943, pochi giorni prima dell’arresto).

Le leggi razziali

Foto archivio personale di Ida Marcheria

Improvvisamente, tutto cambiò. Nel 1938, in novembre, il fascismo emanò le leggi razziali. Allora avevo nove anni… Giorno per giorno ci trovavamo senza più punti di riferimento, non avevamo più alcun luogo ove sentirci protetti e al sicuro. Fu un processo molto lungo e parecchio umiliante. Qualcuno sostiene, oggi, che fu poca cosa. Non è assolutamente vero! Fu mortificante e doloroso. I genitori persero il posto di lavoro, scontrandosi

con la dura realtà di dover portare avanti, tra enormi difficoltà, la famiglia. Nutrirla, vestirla, accudirla in tutte le elementari necessità. Non c’era più niente di decoroso nella vita quotidiana. Professionisti di valore, stimati da tutta la città, si videro cacciare dalle scuole, si impedì loro di svolgere una attività, spesso per tutti, ebrei e non, importante e necessaria. I bambini furono cacciati dalle scuole pubbliche, costretti a dividersi dai loro compagni, tra vergogna, rabbia e pianti. Difficoltà continue, proibizioni sempre più numerose, sempre più avvilenti. Tanti si videro costretti a lasciare la città, a lasciare l’Italia. Perdemmo così molti amici, tra i più cari. Ai commercianti, oltre al ritiro della licenza, vennero più volte sfasciate le vetrine dei loro negozi. Si proibì, anche con la violenza, che i non ebrei li frequentassero. Fu anche per questo che mio padre perse molti suoi clienti. No. Non direi proprio, non si può con onestà affermare che le leggi razziali furono ben poca cosa.

(Nella foto, Ida nel 1943)

L’arresto

Foto archivio personale di Ida Marcheria

Era mattina presto, ci eravamo appena alzati quando sentimmo prima suonare con insistenza e poi bussare con violenza alla porta. Quando mio padre, come tutti noi sorpreso, ha aperto, questi uomini sono entrati subito in casa, nel nostro appartamento senza neanche chiedere il permesso, senza proferire parola. Si sentivano padroni, pieni di autorità, signori della nostra quotidianità. Colpirono le nostre vite, le sconvolsero per sempre.

Uno di loro aveva un foglio in mano, sembrava essere una lista di nomi. Erano infatti i nostri nomi. Ebbi l’impressione che ci conoscessero già tutti, che sapessero tutto della mia famiglia. Sapevano quanti eravamo, perché nella lista compariva il nome di mio padre, quello di mia madre, comparivano quelli dei nostri fratelli e il mio con quello di Stellina. ….

La fretta, la paura, l’incertezza, la tremenda

tensione che si era impadronita di noi, tutto ci mise in uno stato di indicibile tensione. Non potevamo certo sapere che ciò che stavamo, in quel momento, vivendo era ben poca cosa rispetto a quanto ci sarebbe accaduto nei giorni a venire. Era veramente impossibile il solo immaginarlo. Anche lontanamente.

… Un tedesco mi avvicinò e io, senza pensarci più di tanto, mi sfilai i braccialetti, di poco valore se non affettivo, cose da ragazzina insomma, e glieli porsi. Lui continuò a guardarmi, alzando la voce, sbraitando mi disse qualcosa che io non potevo capire. Non conoscevo il tedesco, la sua lingua mi suonava strana, assurda, cattiva e in ogni modo incomprensibile. Improvvisamente, con una aggressività che non riuscirò mai a dimenticare, allungò le sue mani, pesantemente sul mio viso, sulle mie orecchie. Cercava di strapparmi qualcosa, con rabbia e con violenza. Spaventata, totalmente sconvolta, cercai di fare un passo indietro. Solo in quel momento mi vennero in mente gli orecchini che indossavo. Cercava di strapparmeli, con quelle sue mani grosse e ruvide. Provai come una scossa. Capii che erano quelli che lui rabbiosamente voleva. Con le mani tremanti, me li sfilai e glieli allungai. Da allora, io non porto più orecchini.

Guardai la mamma per trovare qualche conforto, ma lei non si era accorta di quello che mi era capitato. Incontrai, invece, gli occhi della signora Cesana. Mi si avvicinò e, stringendomi a sé, mi disse: “Non aver paura, presto torneremo a casa e io ti preparerò una bella torta alla cioccolata, tutta per te”. Pur in quel momento, così drammatico, si era ricordata della mia passione per la cioccolata!

Terminata la razzia dei nostri beni, dopo averci depredato di tutto, i tedeschi c’informarono che il mattino successivo dovevamo farci trovare pronti per il trasferimento. Senza rivelarci di che trasferimento si trattasse e per quale luogo. Imparammo dopo che questa era la loro norma.

(Nella foto Stellina nel 1943)

Aushwitz, la Judendrampe

Fotografia per gentile concessione dell’archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

La Judenrampe! Il caos, il terrore, l’anticamera dell’inferno. Credo che non ci saranno mai parole sufficienti e tali da poterci fare capire, e da parte mia da rendere benché minimamente comprensibile, ciò che accadeva su quel binario. Si potrà mai capire cosa e con quale violenza scuotesse l’animo dei deportati al loro arrivo sulla Rampa degli Ebrei? No, non bastano tutte le parole che conosciamo, tutte le parole del mondo. Scese, anzi meglio, saltate dal carro bestiame, ci trovammo in un girone allucinante di suoni, di grida, di urla. In una lingua dura, feroce, incomprensibile. I tedeschi, le SS urlavano ordini che nessuno capiva, su tutti grandinavano botte e bastonate, i cani, tanti cani abbaiavano, latravano eccitati e infuriati. Digrignando i denti, cercando di aggredire noi poveretti in preda al panico. Un po’ le SS li trattenevano, un po’ li aizzavano. Tutti, e noi tra loro, cercavamo con occhi smarriti di trovare i nostri cari, il padre, la madre, i fratelli.

Sempre tra urli e bastonate ci fecero lasciare sulla rampa i nostri fagotti, le nostre valigie. Guai cercare di tenere con sé qualcosa, anche la più piccola cosa. A botte e spintoni, senza alcun riguardo per niente e per nessuno, ci fecero disporre in due file. Ci prepararono per la selezione. In una colonna gli uomini, nell’altra le donne con i bambini. Stellina e io eravamo con la mamma. Lentamente le due file avanzavano verso un ufficiale tedesco, una SS glaciale nella sua indifferenza che, a volte quasi con aria annoiata, indicava con un frustino a ciascuno se andare alla sua destra o alla sua sinistra. Il suo sguardo non pareva nemmeno vederci. Era Mengele, il medico selezionatore, l’angelo della morte.

(Nella foto, Auschwitz-Birkenau, selezione alla Judenrampe)

La selezione

Fotografia per gentile concessione dell’archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

Mentre la selezione era in corso ci si avvicinò un uomo, neanche poi così male in arnese, vestito con uno strano abito a righe grigie e blu. Ci guardò solo per un attimo, facendo scivolare lo sguardo frettolosamente, poi guardando altrove; fingendo attenzione per altro da noi, con molta circospezione, parlando italiano mi chiese quanti anni avessi. “Quattordici” risposi. “No, tu ne hai sedici”. Pensai fosse matto. D’altro canto tutto ciò che vedevo

intorno a me non poteva che farmi credere di essere arrivata nel mondo dei matti, nel mondo della follia. Ma come, ho quattordici anni e questo strano essere pretende di sapere meglio di me la mia età! Se ho quattordici anni perché mai devo dire sedici? Ma che ne sa, se nemmeno mi conosce. Poi fece la stessa domanda a Stellina. “Tredici anni da pochi giorni” disse mia sorella. “No, tu ne hai quindici, capito! Ne hai quindici”. Allontanandosi ancor più circospetto, come se temesse che le SS avessero potuto vederlo nel rivolgerci la parola, ci ripeté ancora una volta: “Tu ne hai sedici e tu quindici. Ricordatevelo! “. Ma prima di rivolgersi ad altri prigionieri e con ben poco garbo ci spintonò verso la nostra fila. Toccò a noi arrivare davanti alle SS. Senza una parola, con un gesto secco venimmo indirizzate nella fila meno numerosa.

(Nella foto, Birkenau, donne e ragazzi già destinati alle camere a gas)

Nostra madre aveva capito

Fotografia per gentile concessione dell’archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

Nostra madre andò nell’altra. Ma questo non ci interessò, non era quello che in quel momento per noi era importante. Da una parte o dall’altra per noi nulla significava. Avevamo già perso di vista mio padre e i nostri fratelli Giacomo e Raffaele, anche se erano nella nostra colonna. Cercavamo la mamma. Ci guardammo intorno per individuarla. I nostri occhi, seppur stanchi e sbarrati dal terrore, la cercarono nella fila che s’ingrossava sempre più di donne e bambini. Non la trovammo. Poi la vedemmo su di un camion. Volevamo andare con lei, ma non ci fu possibile. Qualcuno ci disse che l’avremmo ritrovata nel campo. Gli anziani, i meno forti ci avrebbero preceduto. Che tragica bugia! Mamma non piangeva. Lei aveva capito. “Bambine mie” ci disse “cercate di stare sempre insieme”. Poi i camion, non pochi e tutti strapieni di donne e bambini ammassati come bestie, si avviarono. Verso dove nessuno di noi sapeva e poteva immaginare. Vedemmo mamma allontanarsi, senza una lacrima. Non l’abbiamo più vista.

(Nella foto, Birkenau, donna con bambini)

Kanada Kommando

Fotografia per gentile concessione dell’archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

Quando arrivammo [al Kanada Kommando], quello che ebbi modo di vedere mi lasciò di stucco. Le baracche erano piene fino al soffitto di vestiti, di valigie, di coperte, di scarpe… di tutto! Da non poter immaginare, incredibile. Era tutta la nostra roba, i beni di tutti i deportati, quelli ancora vivi ma soprattutto di quelli ridotti in fumo. Delle nostre madri, dei fratelli, dei figli. Il frutto di una inimmaginabile, criminale rapina.

Io sono nata lì, al Kanada ho aperto gli occhi su un mondo di dolore, di offesa, di crudeltà. Al Kanada è finita la mia infanzia, è finita anche quella di Stellina. Lì abbiamo imparato a odiare, abbiamo imparato a non perdonare, abbiamo capito che ciò non sarebbe mai stato possibile. Le SS, i nazisti ci avevano rubato tutto e noi non potevamo nemmeno toccare. Tutto era verboten, proibito, tutto era esclusiva proprietà del Reich. Noi pure, noi per primi. Ci insegnarono il lavoro, ci insegnarono rudemente a scegliere tra quanto continuamente, senza sosta ci arrivava, in grande quantità, ogni giorno, e a dividere il meglio dal peggio. Gli stracci, i Lumpen, da una parte, le cose migliori e utilizzabili da inviare ai buoni cittadini del Reich da un’altra. A noi una copertaccia nera e un paio di ruvidi, scomodi zoccoli, a loro calde coperte, piumini, comode scarpe di pelle, orologi, tappeti… Oro, gioielli, brillanti, beni preziosi, medicine – così necessarie nel campo – soldi dovevano essere consegnati agli ufficiali delle SS che ci controllavano minuto per minuto, dalla mattina alla sera. Se un ufficiale vedeva che una di noi tentava di “organizzare”, di rubare un gioiello, estraeva la rivoltella e, a bruciapelo, uccideva la ladra. Alla fine del turno, prima di tornare in baracca, venivamo perquisite. In fila, tutte nude, con la divisa in mano. Le SS, senza alcun riguardo, erano pronte a esplorare persino il nostro corpo anche nelle parti più intime.

Ogni giorno toccava a noi selezionare, accoppiare, fare grossi pacchi che, una volta riportati sulla rampa ferroviaria, prendevano strade per noi allora sconosciute. Poi abbiamo saputo che erano quelle non solo per la Germania ma anche per la Svizzera, per il Brasile, per l’Argentina. Anche l’oro dei denti dei nostri morti è finito lì. Noi non potevamo prendere nulla, ma gli ufficiali delle SS si servivano in abbondanza. Per se stessi e per le loro mogli. Quando arrivava un trasporto “ricco”, non dai ghetti ma come quelli degli ebrei ungheresi, dovevi vedere come si precipitavano. Come falchi. Anche le ragazze del Kanada rubavano, sfidando la morte, per sé e per le loro compagne del campo.

(Nella foto, Birkenau, donne addette alla selezione degli oggetti provenienti dai vari trasporti. Sullo sfondo, in alto, è possibile vedere le cime dei camini)

La camera a gas

Fotografia per gentile concessione dell’archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

Anch’io finii davanti all’entrata della camera a gas. Con altre compagne avevo gettato del pane a persone di un trasporto appena arrivato. In attesa del loro ignoto appuntamento con l’inferno delle SS. Le kapò ci avevano scoperte e alcune di noi, forse quelle che già da prima venivano tenute sotto un più attento controllo, furono subito portate con la forza nel cortile del crematorio. Mentre eravamo sul piazzale in attesa che la camera a gas si rendesse disponibile, arrivò con la sua motocicletta una hauserka, una delle guardiane SS, le più cattive e perverse. Erano sempre rabbiose, violente, giravano per il campo in motocicletta e sempre accompagnate da un cane persino più rabbioso di loro. Mi guardò, pensò forse che mi avevano mandato al crematorio perché non più idonea al lavoro. Ma evidentemente il mio aspetto non era tale da giustificare questa decisione. Mi urlò, quindi: “Augenfressen, zu arbeiten”, tu stai bene, vai a lavorare. “Zu arbeiten”. Non me lo feci ripetere un’altra volta e tornai, e di corsa, al lavoro. Forse non furono nemmeno le sue parole a salvarmi, anche se furono determinanti in quel momento. Mi salvò ancor prima il fatto che la camera a gas era troppo affollata, che era già impegnata nella sua quotidiana opera di sterminio. In ogni modo se l’hauserka fosse passata mezz’ora più tardi, anch’io sarei diventata fumo.

(Nella foto: Birkenau 1943, deportati in attesa di entrare nella camera a gas)

Il ritorno

Fotografia di Alberto Novelli

Ero rientrata a Trieste con un paio di scarpette da ciclista che mi aveva regalato un soldato italiano. Ero tornata dall’inferno di Auschwitz nuda e cruda, tenendo per mano mia sorella. Ed era come se nulla fosse accaduto. Trovammo che casa nostra era stata occupata da un fascista con la sua famiglia. Era stata data a lui, per chissà quali alti meriti, così come l’avevamo lasciata. Con ancora le posate sul tavolo, con le nostre provviste, con il pranzo già preparato sui fornelli, con la biancheria pulita pronta a sostituire quella da lavare. Con i nostri giochi di ragazzi e con i nostri libri.

La vita di una persona è fatta anche di tanti oggetti, piccoli o grandi, spesso di nessun valore o apparentemente insignificanti per gli altri. Ma per quella persona e solo per lei hanno valore inestimabile. Sono legati a un ricordo, a una amicizia: una penna, una spazzola, un nastrino, una fotografia. Io non sono riuscita a recuperare neanche un oggetto, una piccola cosa della mia vita passata. Come volevano i nazisti, nel loro lucido piano criminale. Niente oggetti, niente ricordi, niente vita. Il fascista che aveva occupato la nostra casa non aveva alcuna intenzione di ridarcela. Fummo perciò costrette a chiedere ospitalità, almeno un letto dove dormire, a qualche conoscente.

Ritorno a Birkenau

Fotografia di Alberto Novelli

Poi abbiamo cercato di ricostruirci una vita. Abbiamo frugato nelle case dei nostri parenti, che erano sopravvissuti alla Shoah, per cercare qualcosa della nostra famiglia. Anche solo una fotografia che potesse alimentare i nostri ricordi di un tempo felice. Che potesse ridarci il volto dei nostri famigliari scomparsi nel cielo polacco… Abbiamo elemosinato i nostri ricordi.

Poi mi sono sposata, povera, senza un soldo. Anche Stellina si è sposata. Poi i ricordi, le notti d’angoscia, l’incubo continuo di nome Birkenau l’hanno sopraffatta. Ci ha lasciati. Io ho avuto un figlio e il regalo di due nipoti. Anche Giacomo si è sposato e ha avuto quattro figli e quattro nipoti. … Mio marito aveva un laboratorio di cioccolata, una cioccolateria – che ancora oggi gestisco con mio figlio.

Oggi mi chiedono più volte se ho mai pensato di tornare ad Auschwitz, di tornare a camminare, da persona libera, tra le baracche di Birkenau. Non sarei mai voluta tornarci. Poi alcuni superstiti, e tra questi Shlomo Venezia, che abita a Roma e con il quale mi incontro continuamente, e il sindaco della mia città mi hanno convinto a fare con loro un viaggio-studio al quale avrebbero partecipato numerosi studenti e professori.

Sono tornata ma, devo dire la verità, soprattutto per ricordare i miei, per portare alcuni sassi sulla Judenrampe! Perché sentissero che io sono sempre, in ogni momento della mia vita, il giorno come la notte, nel dolore e nella felicità, con loro.

Perché ogni notte io torno a Birkenau.

C’è anche chi afferma che è giunto il momento di perdonare.

Io non posso perdonare. Non perdonerò mai.

Il libro

Il racconto di Ida Marcheria e le immagini di archivio sono tratte dal libro Non perdonerò mai di Aldo Pavia e Antonella Tiburzi, ed. Nuova dimensione e riprodotte per gentile concessione dell’editore.

Venti e uno racconti – Salvatore Maresca Serra

SOTTO  UN  MARE  DI  PIOGGIA

C’era un ombrello che giaceva orizzontalmente in un cassetto, sepolto nell’immobilità del suo inutilizzo.

Era un ombrello da uomo, col manico di ciliegio giovane, passato finemente di vernice trasparente che conferiva alle tre scanalature ornamentali un’aria come di purezza, castità e austerità.

Il tessuto era alquanto resistente e come rasato, verdino con decori ottagonali che evocavano qualcosa di liturgico, forse le basi di candelabri d’oro arredi di chiesa, o forse v’era una vaga idea in quel tessuto d’aristocratica estetica: una sobrietà simbolo di forza, di coraggio, di virilità cavalleresca. Era assolutamente nuovo; passato senza alcun trauma dalla vetrina di un negozio del centro,  affianco ad una grande banca sempre affollata da uomini d’affari perlopiù vestiti di grigio o di blu (di cui un po’ risentivano il suo aspetto contenuto, la sua sostanza riverente e armoniosa al tempo stesso, di un intero sistema di valori sociali e culturali) a quel cassetto ch’era in parte la sua dimora. Ma, col tempo, nell’attesa vana, un po’ snervante, anche ingiustificata e ingiustificabile, esso sentiva (senza esserselo per altro ancora per niente confessato, dignitoso e aristocratico com’era) che una sorta d’oblio che pesava su di lui stava come mutando la sua temporanea dimora in sarcofago.

Fuori c’era spesso la pioggia – la vita – egli lo sapeva, lo sentiva come si sente infallibilmente solo la propria vita, eppure, come fosse malato oppure morto, ne restava fuori. Privato.

L’entusiasmo per essere stato acquistato subito (dopo solo tre ore) dall’essere stato esposto gli aveva iniettato nell’anima di metallo un’energia superiore: era come se l’avesse sempre saputo che – nella vita – sarebbe stato un leone, e si sentiva fatalmente pronto a fronteggiare la sorte con un semplice e automatico click! Era allora che raggiungeva in un istante la sua vera forma nobile: pura alchimia. L’assoluto in lui era l’archetipo eterno e vittorioso dell’albero, e la pioggia non gli era in fondo così nemica poiché in un antica leggenda celtica egli stesso sorreggeva il cielo!

Aveva visto in faccia bene l’uomo che lo avrebbe brandito nell’aria, e lo aveva trovato degno, generoso, da come lo aveva guardato e tenuto per qualche istante fra le mani calde e sufficientemente forti. Il volto del suo padrone s’era ad un tratto illuminato in un sorriso di gioia, e dalle sue labbra era sgorgato con violenza un vagito di approvazione totale.

Negli occhi gli aveva letto temporali e temporali, e una complicità, un patto d’alleanza che, per ciò che lo riguardava, avrebbero potuto essere anche una vera amicizia.

Lui era il suo regale regalo, e non lo avrebbe di certo deluso. Questo era ciò che sentiva in ogni sua fibra…

Ma cosa era accaduto? Se, all’inizio,  aveva avuto occhi carichi quasi di sdegno malcelato per quel legno rassegnato del cassetto, tutto incurvato su se stesso, pur rispettandolo, ma per una superiorità schiacciante predeterminata da un destino di cui ci si può gloriare senza voler ferire i propri simili, il suo manico, nell’atto d’essere poggiato nel cassetto, aveva vibrato di netta e naturale superiorità al contatto. Ora, dopo un tempo incalcolabile (forse dieci o dodici mesi), il rovere lo guardava come se ne avesse esso stesso disagio.

Da parte sua, l’ombrello insisteva come chi non voglia accettare la sconfitta, in un silenzio carico di orgoglio intatto, ma era solo apparenza.

La verità era che l’orgoglio e l’entusiasmo iniziali s’erano mutati in stupore, poi in speranza, successivamente in preghiera, ed ora, quando cassetto e ombrello per caso si ricordavano l’uno dell’altro, nell’atto della coscienza di recuperarsi e differenziarsi, l’eroe celtico distingueva quasi a fatica la sua anima di rigore plastico dall’umile monotonia dell’inerzia fatale del cassetto chiuso. Irrimediabilmente chiuso dal fatto che conteneva solo lui.

Inutile dire che la preghiera, a sua volta, era diventata la sola arma della sua disperazione: il senso di colpa verso il suo ospite lo divorava giorno per giorno, ora per ora, nella sua dignità.

Ogni giorno era tormentato. La sua sorte infausta era diventata quella del cassetto: mai egli s’era aperto alla pioggia e al maltempo e mai il cassetto aveva rivisto, neanche per un istante, la luce.

In fondo, era come se una condanna invisibile avesse mutato la sorte del cassetto dall’essere dimora a diventare tomba; e questa morte tutta interiore del cassetto era la sua condanna tacita e per questo ineluttabile, franca e incontestabilmente colpevole. La colpa era solo sua.

Ma, cos’era successo?! Dov’era finito l’uomo?

Cosa c’era in lui che non andava?

I giorni di maggiore tormento in cui la sua anima sceglieva un volontario oblio, in forma d’esilio dalla sua forma e sostanza, fino alla perdita del sé, pur di non soffrire ulteriormente fino allo spasimo dell’agonia, erano i giorni in cui, con chiarezza, dall’armadio posto nell’angolo nord della camera da letto, si udiva roboante il fragore del cielo: era la pioggia! Un tormento lungo miliardi di gocce di dolore, di sconforto, di umiliazione insopportabile!

Quale orrore era ormai il suo destino. Quello che era il ticchettio sui vetri, sul tetto, sulle pareti dello stabile, quel ticchettio di vita e di passione era ormai il suono della sua infausta sorte di sepolto vivo. Ogni tuono lo faceva sobbalzare nel suo corpo morto, esiliato dalla vita, negletto, ripudiato, inutile,  dimenticato.

Quale orribile tormento!

Il cassetto a volte lo terrorizzava anche più del temporale. Ad un tratto, scricchiolava minacciosamente come avesse voluto presentargli il conto tutt’insieme. E sapeva bene che non avrebbe mai potuto pagarlo: con che cosa lo avrebbe risarcito? Oh no! Preferiva tacere, obliarsi e ristagnare fino a farsi fagocitare dalla sua coscienza; così, in quei momenti d’inferno, egli stesso diventava nel suo intimo profondo il cassetto.

Era il suo modo per espiare la sua innominabile colpa. Colpa di cui nulla sapeva, se pure, ormai, si sentiva responsabile in una misura inconsolabile e cupamente ignorante.

Gli anni ormai erano trascorsi e con essi le estati: periodi in cui, a volte, il cassetto scricchiolava con timbri e suoni ancora più accusatori. Sentiva nell’anima del rovere che, se solo avesse potuto, avrebbe preferito bruciare nel fuoco pur di distruggere il suo abitante simile ad una repellente mummia.

Ma quando proprio s’è in fondo all’abisso e la memoria si scolora di ogni istanza di vita, e anche la speranza era quasi del tutto morta, qualcosa di bizzarro e miracoloso accadde.

Dunque “Dio non era veramente morto!”, com’egli pensò in un susseguirsi di attimi che presero a vorticare furiosamente uno dietro l’altro come l’allucinazione finale d’ogni oblio ed un’eternità di morte di cui era ormai certo.

Cosa era possibile ancora che gli accadesse?

All’inizio, fu un rumore ovattato e rotolante sul pelo dell’aria che stagnava nel cassetto: ne avvertì a stento nel suo letargo la vibrazione lontana, come un’eco irreale e irrealizzabile. Ma poi non ci fu più niente da fare, era il tuono! E poi altri, e altri ancora, come tormenti finali del volto dell’abisso. Un abisso che ora avrebbe visto faccia a faccia per poi dire addio ad ogni possibile residuo della sua coscienza distrutta e cancellata dal dolore. Era la fine?

Nel frastuono generale tutto si accavallò: la pioggia che scrosciava a catinelle e che sembrava triplicarsi ad ogni lampo, e poi indistinti e nervosi rumori per la casa. Dei passi rapidi, poi dei movimenti caotici come di chi cerca qualcosa, e infine, grottescamente, all’improvviso il cassetto s’aprì e una luce violenta se pur languida lo schiaffeggiò sul viso con violenza indicibile di vita, la violenza irreparabile della vita ch’era ad un passo da lui nell’esito finale!

Le mani dell’uomo lo strinsero con un sicuro istinto di proprietà e di orgoglio.

Egli si lasciò andare a quella stretta con la voluttà totale dell’abbraccio della morte, ma era invece la vita.

Ebbe appena il coraggio e la viltà ad un tempo di guardare gli occhi dell’uomo che lo brandiva tenendolo con estremo atto virile: non era lo stesso uomo, era un altro, più fiero e forse volgare nei modi, ma lo sentì subito il suo vero padrone.

Alle sue spalle rivide la donna che lo comprò anni addietro. Per ciò che ricordava, anche se gli sembrò comunque apparsa da un’ altra esistenza, era invecchiata e un po’ rassegnata.

<<Era di Antonio>> ella affermò senza alcuna vibrazione nel cuore. <<Lo dimenticò qui quando andò via. Non sarai geloso?>>

<<Scherzi?!>> fece l’uomo volgarmente, con la caotica forza della vita. <<Ora è mio!>> e frettolosamente baciò con distrazione la donna, poi volò giù di corsa per le scale e, quindi, si gettò sotto un mare di pioggia.

Salvatore Maresca Serra

Milano, 1994

Ringrazio Miriam Maltese per tutto il lavoro amorevolmente svolto per me.

“PAROLE” Angela Rita Iolli

“Che le parole dessero luogo a qualcosa, che potessero far muovere o arrestare qualcuno, farlo ridere o piangere: già da bambino aveva trovato la cosa enigmatica e non aveva mai cessato di impressionarlo. Come ci riuscivano? Non era una sorta di magia?”

 

Le ascolti e ti incanti, non importa dove, non importa quando, non importa come, sono lì a suscitare emozioni e passioni, ad accompagnare le giornate storte e quelle buone, a ridare serenità oppure preoccupazione. Sono parole, sono ombre attaccate, che accompagnano la nostra vita e camminano per strade lastricate di vicoli e di incontri, dove lasciarle sfogare.

 

Parole, quando si vorrebbe che il vento ne catturasse la lontananza, dove solo l’eco può essere ascoltata quando i muri si sono trasformati in tante insonorità rinchiuse nel loro ostinato mutismo. Parole prigioniere in ogni luogo, dove ritrovarle come per magìa, in quel posto che appartiene singolarmente ad ognuno di noi, in cui restare in ascolto.

 

Tirate fuori da un cilindro, da una bottiglia, rinchiuse dentro ad una poesia o ad una dedica, amanti di qualsiasi scrittura, avventure in prosa per dirsi qualcosa d’importante. Parole lascate al movimento di una clessidra quando non c’è più tempo di pronunciarle, simili a quella sabbia che conta le ore e insensibile ai loro richiami non conosce ostacoli.

 

Parole che accarezzano labbra capaci di incorniciarle in quadri d’autore, dove ammirarli con occhio critico, ma interessato. Parole appoggiate su una spalla, dove lasciarsi andare in quei momenti di travestita stanchezza, dove il buio sembra l’unico amico in grado di aiutarti. Parole che gridano il loro dolore, la loro ostinata solitudine, il loro folle amore, fermandosi davanti porte, dove solo le speranze hanno il potere di lasciarle socchiuse.

 

Parole vestite di brividi, da accapponare la pelle, nessuna stufa che può dare conforto e calore. Parole da abbattere i muri, quando i mattoni sono cartapesta da attraversare. Parole che fanno male, che fanno chiudere cuori e serrature, non c’è più posto ma solo cartelli con scritto non disturbare. Parole da coinvolgere il mondo, mentre abbracci e mani adoranti sembrano avvolgerlo in quel senso di protezione che a molti farebbe paura.

 

Parole rassicuranti da scaldare davanti camini in quei freddi inverni dove osservare, dietro finestre dai vetri appannati, il lento movimento della neve. Soffice e leggiadra, come una ballerina sulle punte in cerca della sua fortuna.

 

Con un vecchio carillon a far da musica di sottofondo, quando basta uno sguardo e la luce in iridi dai diversi colori per dimenticare le parole e sussurrare al mondo la propria felicità. ”Se è così, se possiamo vivere solo una piccola parte di quanto è in noi, che ne è del resto?”.

Angela Rita Iolli

ALLE PRIME LUCI DELLA SERA di Angela Rita Iolli

Rosa sul pianoforte

 

Alle prime luci della sera, quando smetti l’abito indossato di giorno e cerchi refrigerio dal caldo, improvvisamente ricordi il canto delle cicale, che non hanno più voglia di cantare, in quel loro assolo tipico a spezzare silenzi notturni scivolati su bicchieri rotti che sanno graffiare. Quando il sapore del vino ghiacciato attraversa gole assetate che non smettono di dissetarsi. Un’arsura le ferisce, e quel bicchiere tenuto stancamente tra le dita serve solo ad attirare sguardi ansiosi di bollicine. Nella stanza dalle finestre aperte appaiono tatuaggi di vita, che neppure un foglio bianco saprebbe macchiare del giusto inchiostro. C’è il pianista, che cerca accordi che non siano i soliti, cerca l’oltre, il pezzo che supera le barriere, e vede Mozart che sorride. Gli gira intorno, accarezzando il pianoforte a coda, sfiorandone i tasti in bianco e nero d’avorio, un tocco di velluto su note irripetibili. Il pianista che sognante vola, immaginando oceani e isole dove trovare esausto il naturale approdo. 
C’è il trombettista che quasi discute con Miles in quel suo don’t play what’s there, play what’s not there, inseguito da armonie che si fondono con la più struggente malinconia. E’ lucida d’ottone quella tromba, non più ascensore verso il patibolo, ma momento di gloria inseguito e raggiunto in quella ricerca di colori dell’anima, che solo un pentagramma baciato dalla sorte può regalare. 
Il fuoco dentro, l’accensione di fiati a cui dare corpo per liberare l’immenso. C’è il batterista con le sue bacchette, capace di addolcire un suono di fronte al quale sa mettersi a nudo. Non esiste nulla intorno, solo quel suono, quel parossismo senza eguali, un annullarsi completamente fino allo sfinimento, in quel fascio di nervi e muscoli tesi come corde. Assomiglia ad una statua dell’antica Grecia, tanta è la bellezza che emana. Momento in cui persino le stelle se avessero un cappello se lo toglierebbero in segno di ossequio. 
C’è il chitarrista con le sue mani che scivolano beate, sembrano intrecci di ricami, pennellate d’autore. Scivolano creando l’armonia, la catarsi e l’orecchio si adegua non potendo fare a meno di ascoltarlo.
Serenata di una notte di mezza estate, in attesa del solstizio in cui fare festa, tra danze e la sensazione fresca dell’acqua sul viso. Gioiosità di figure che girano in tondo in un unico abbraccio. Quando un gioco, un ballo, persino una parola accompagnata da musica aiutano a dimenticare.
La musica che sa giocare, ammaliare, sedurre con il suo ritmo da gustare un po’ alla volta come quel bicchiere di vino, sorseggiando quella cascata di ghiaccio e note senza provare freddo, ma uno strano fuoco dentro. Alle prime luci della sera può accadere che diversi strumenti diventino colonna sonora di un sogno che sa di cinema, di fotografia, di scrittura. Che non si abbandona in un angolo, ma ha bisogno di un palco, dell’applauso, come sangue che scorre dentro. Guardando negli occhi chi lo sa ascoltare, innamorandosene. Fuori il colore rosa del cielo rammenta che il sole è andato a dormire ad occidente, la musica invece resta sveglia, c’è voglia di lei stasera. Nessuno potrà fermarla.

Angela Rita Iolli

TERRACINA Un Inedito di PASOLINI

 

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Terracina 
Un racconto inedito 
di Pier Paolo Pasolini

Nella spiaggia c’era più movimento, ma il mare era sempre immobile, morto.  
Si vedevano delle vele arancione al largo, e molti mosconi che si incrociavano vicino alla spiaggia. Lucià avrebbe avuto fantasia di prendersi un moscone, e andar al largo: però era solo, e non era buono a remare. Andò sul molo tutto smantellato e ancora pieno di squarci, nuotando nei punti dove gli squarci interrompevano, finchè giunse in pizzo, sulla piccola rotonda. Si distese sulla pietra con la testa che sporgeva dall’orlo sul mare.  
Verde, trasparente e tiepida, l’acqua si gonfiava e si sgonfiava tra le colonne del molo, ora pesante come un blocco di marmo, ora lieve come l’aria. Benché fosse alta già due o tre metri non c’era granello di sabbia che non si potesse distinguere dall’alto della rotonda: ed era una sabbia morbida e pulita , un tappeto meraviglioso per chi potesse vivere sotto acqua. Ogni tanto vi passava un granchio, veloce, o si intravedeva qualche stella. Lucià stava a meditare su quella bellezza: quando arrivò sotto il molo un ragazzino con un moscone.  
“A maschio – gridò – me ce porti ?”  
“Daje” fece l’altro.  
Lucià si gettò a caposotto e andò a toccare con le mani la sabbia; poi risalì alla superficie e si attaccò alle code del moscone.  
“Andiamo al largo” disse al maschio.  
Il maschio si diede subito da fare, ma aveva i braccini ancora teneri e i remi sbattevano a vuoto sull’acqua senza spuma. ” Famme provà” disse allora Luciano. Il ragazzino cambiò di sedile, e Luciano provò a remare. “Mica è difficile” disse. “Mamma non vuole che m’allontani troppo” disse il ragazzino. “E che d’è – fece Luciano – andiamo a cento metri”.  
Dietro il molo si allungava la spiaggia, un arco che pareva senza fine, da una parte e dall’altra dell’orizzonte, battuto dal sole che lo scolpiva nell’aria coi suoi colori violenti.  
Il bruno della rena, le mille tinte delle vernici dei capanni, le striscie smaglianti degli ombrelloni; le macchie bianche degli scafi, gli intonachi dorati delle ville, tutto era ammassato nel sole in una immobilità di sogno: che nemmeno il formicolio, silenzioso, della folla, l’incrociarsi dei mosconi, i voli dell’aereoplano rosso e il flusso della marea riuscivano a incrinare. Ma in quella immobilità dovuta alla lontananza si sentiva straripare la felicità festiva di Ostia.  
Il moscone si dondolava come abbandonato sull’acqua: i remi si agitavano nel vuoto, come delle ali spezzate, e Lucià perdeva la pazienza; però si accaniva a voler spingersi il più possibile al largo. Guardava con invidia, lontanissime, nel puro azzurro tra mare e cielo, le vele delle barche dei pescatori pensando che di laggiù non si potesse intravedere che a stento la terra.  
Poi, quasi improvvisamente, da dietro il molo, comparve una piccola barca a vela, bianca come una colomba. Filava inclinata e silenziosa, obliquamente, verso l’alto. Lucià smise di remare e stette a guardarla. Essa si avvicinava, come miracolosamente, e venne quasi addirittura a sfiorare col suo scafo di legno candido il moscone. Si allontanò leggera com’era venuta, quasi non fosse che una forma un po’ più materiale del vento, e in pochi minuti era già distante, cancellata o rimpicciolita dalla distanza: ma ancora rifulgente nella vernice del mare.  
Poco tempo ancora, e sarebbe stata una di quelle vele sperdute nell’intimità del mare, dove l’azzurro era tanto più profondo e incantato. Lucià aveva seguito in silenzio quel volo, e quando la barca fu lontana, si rivolse allegro al suo compagno gridando: “Daje, maschiè, che annamo in mezz’ar mare”. E cominciò a darci sotto con più accanimento sui remi. Il ragazzino era preoccupato per la sua mamma. “Non tenghi mica paura, vè, maschiè?” gli diceva Luciano. “Paura de che?” rispondeva il piccoletto offeso.  
“Der mare” disse Lucià.  
L’altro alzò le spalle, con un’espressione negli occhi incupiti che voleva dire: “E che, scherzamo?” Lucià era eccitato. Cominciava a remare un pò meglio, e i remi riuscivano a far presa sull’acqua che si gonfiava e si sgonfiava sotto il moscone.  
Intanto anche il molo si allontanava. La spiaggia era già un ammasso confuso di colori nell’oro del sole. E Luciano era felice di essere così isolato in mezzo all’acqua. Più bello ancora, però, sarebbe stato se si fosse gettato a nuoto, e si fosse trovato del tutto solo, staccato dalla barca , tra le onde silenziose. “Reggi i remi” gridò al ragazzino. E si tuffò dal sedile, nuotando verso il largo.  
Tiepido e leggero come la seta, il mare lo alzava e lo abbassava: ora con uno sguardo poteva abbracciarlo fino all’orizzonte più lontano, ora vi si trovava immerso nel centro, come in una piccola vallata tra piatte colline d’acqua senza spuma, con le creste controluce e i fianchi tinti dall’ombra trasparente. Standoci dentro, immersi, si piombava del tutto dentro quell’ombra. Per qualche istante ci si sentiva come in una vasca, fuori dal mondo, in un cerchio di solitudine, in un piccolo deserto pieno di dune verdi e malinconiche. I riflessi della luce erano smorti giù per le schiene larghe e piatte delle onde, fino in fondo alla depressione in ombra. Poi uno spirito dentro l’acqua preso da un orgasmo calmo ma incessante, come il respiro di un addormentato, uno spirito il cui movimento si estendeva in tutti gli angoli del mare, premeva dalla profondità verso la superficie, scompigliando inquietamente il suo ordine. Ci si trovava d’improvviso in cima a un’onda, nel fulgore della luce, ricompariva l’orizzonte con le vele e il sole.  
Una distesa sterminata di piccoli monti, si diramava intorno fino a fondersi, lontano, nell’azzurro compatto e leggero. Il mare si ripopolava e riviveva. Lucià nuotava sempre verso il largo, per mettere il maggior spazio possibile tra sè e la barca. Già la vedeva abbastanza lontana, scossa, sotto il legno piatto degli scafi, dal movimento del mare. E più indietro la spiaggia, Ostia, la terra. Tutto gli pareva lontano, la sua vita stessa di Roma, dai più scuri giorni dell’infanzia ai baci della zanoida nella cabina. Tra quel tempo e lui c’era la stessa acqua del mare intento a sorridere o a turbarsi con sè.  
Quando fu un pò più stanco, si voltò e vide che il moscone era davvero lontano: se si abbassava tra le onde, anzi, non lo poteva nemmeno più scorgere. Fu preso da un pò di paura: le onde intorno, come campane silenziose, erano rimaste uguali, verdi, ma parevano piene di una scura minaccia. Una minaccia che covava nel fondo, come se lo spirito che da di dentro le agitava avesse d’improvviso mutato umore.  
Lucià si sentì lì in mezzo troppo solo e, sperduto; ma si vergognava a chiamare il ragazzo del moscone. Così ritornò indietro lentamente per non stancarsi, ma sentiva nella schiena un brivido di paura, come se qualcuno lo guardasse minaccioso, per cacciarlo via. L’acqua lo stringeva da tutte le parti, era nel regno dell’acqua, e il mare si stendeva intorno paurosamente grande.  
Infine raggiunse il moscone, ma non volle salirvi, e si attaccò alla coda. “Vai verso la riva” gridò al maschietto. Socchiuse gli occhi e si lasciò trascinare, immaginandosi di essere in mezzo a un oceano, come un naufrago.  
Tonino lo aspettava ammusato sulla spiaggia del Battistini. Aveva fame, e se ne andarono a mangiare al Pescatore, il locale più di lusso di Ostia. Tornarono subito sulla spiaggia, e Lucià si fece un sonnetto sulla rena; poi andarono ancora in giro sul moscone, a fare il bagno al largo; e infine, mentre il sole affondava rosso e tranquillo nel mare, ripresero il taxi e tornarono a Roma. Scesero, per non dare nell’occhio, vicino alla Piramide di San Paolo.  
Dal Circeo, a destra, confuso tra le nuvole, nuvola lui pure, distante, isolato, con le sue cime acute tutte tinte di cenere e azzurro fumo, già nel cerchio della spiaggia che staccandosi da quelle ombre di terra ferma appena distinta dal cielo, si precipitavano in una lunga curva, fino a passare davanti agli occhi, con le file dei capannoni abbandonati, e a spezzarsi a sinistra contro un promontorio monumentale – il mare riempiva lo spazio, piatto, luccicante e vivo.  
Ma da dietro il promontorio, che, tutta roccia, sormontato dai ruderi di un tempio, spingeva in avanti, contro la marea, un obelisco granitico alto un centinaio di metri, e largo una sessantina – solitario tra lo sperone e le acque – si slanciavano verso l’alto mare i monti dell’altro braccio del golfo. I monti di Gaeta e di Sperlonga , i monti allineati in catena, ondulati, del meridione, che filtravano l’orizzonte fino in suo cuore: una lontananza mesta, color ruggine, dove il grigio del cielo e del mare si mescolavano in bagliori trasognati.  
Così dal Circeo a Sperlonga il mare pareva un immenso lago, e solo un suo lato pareva non avere confini: ma le nuvole lo offuscavano, lo chiudevano. Erano nubi disordinate e pesanti, specie sopra il Circeo, dove nereggiavano minacciose: nel centro si squarciavano, e qua e là affiorava il cielo azzurrino o giallo, e verso sinistra sulla lunga catena dei monti, il sole faceva cadere un ventaglio di raggi, come riflettori puntati su un solo specchio del mare, che quindi luccicava, in quel punto, come una spada nuda. Alle spalle, addossata al monte, con gli stessi colori del monte, grigia e pietrosa si ammassava Terracina. Questo era tutto quello che si poteva vedere stando distesi sui tetti della casa dei parenti di Marcè. Le tegole erano bagnate, perchè certo durante la notte era piovuto: Luciano vi stava disteso sopra con le mani sotto la testa, guardando per aria. Marcello stava quasi per addormirsi. Il tetto era alto, e la villa era posta sopra una gobba del terreno coperta dalle piccole viti come una ragnatela: così da lassù, benchè la posizione non fosse molto comoda, lo sguardo non poteva spaziare liberamente. Era questo che dava soddisfazione a Luciano. Senza che Marcè se ne accorgesse egli accarezzava con lo sguardo la parte più lontana dell’orizzonte, dove il mare era solo mare, puro mare, senza legami con la terra, senza niente vicino. Laggiù il sole, più che in ogni altro punto del cielo tutto coperto, riusciva a filtrare la raggera della sua luce, e a colorare del loro azzurro acqua e aria. Comunque, la pioggia era certa. Sul Circeo le nuvole si erano fatte così compatte e nere che lo avevano inghiottito, e di là si allargavano sulla leggera nuvolaglia cosparsa già per tutto il cielo; un’aria fredda le accompagnava, che pareva sempre sul punto di far roteare le prime gocce gelate di pioggia. Lucià doveva dunque decidersi a distogliere lo sguardo dal mare e a interrompere il piacere che ne provava: ben meritato, del resto, perchè aveva cominciato a desiderare quel momento fin dalla sera prima della loro partenza e immaginandosi un mare proprio così solitario, così selvaggio e così nudo. Già subito dopo i Castelli – l’aria della mattina era fuligginosa, e da lassù non si poteva scorgere il mare – dietro Velletri, quando l’Appia aveva cominciato a discendere verso il basso, puntando contro una muraglia grigia di montagne, Lucià si era alzato due o tre volte dal sellino convinto di vederlo. Infatti dei vapori bianchi stagnavano ai piedi di quelle montagne, oltre una breve pianura, e parevano le acque di un golfo. “Er mare, er mare – gridava Lucià – Ecchelo” “A stronzo – gli rispondeva Marcè – mica è er mare, hai voja”.  
La mattina su Roma e sui Castelli era stupenda . C’erano, è vero, delle nuvolaglie, e proprio verso il Circeo, dietro Latina ma parevano nuvole innocue: in tutto il resto del cielo, era sereno. Eppure la sera prima, anche a Roma, c’era stato un forte temporale: la pioggia aveva colto Lucià e Marcè mentre da Villa Borghese se ne andavano verso la stazione Termini a rimediare un pò di pila per il viaggio: così, rinunciando alla stazione, erano corsi a rifugiarsi all’Esquilino in piazza Vittorio. E del resto erano stati fortunati perchè Marcè era riuscito a guadagnarsi un mezzo sacco e un pacchetto quasi intero di Chesterfield.  
Fuori, tuonava e lampeggiava: ma, con la sera, era tornato il sereno. Poichè era la vigilia della festa della Madonna, già a molte finestre erano appesi i lampioni, che rilucevano chiari e iridati specie lungo le strade secondarie: migliaia di lumi che tremolavano nell’aria fresca e trasparente, e le facciate di molte chiese erano un immenso ricamo di lampadine elettriche accese. Uscendo dal cinema, dov’erano rimasti chiusi tutto il pomeriggio Lucià e Marcè erano stati colti da quel soffio d’aria serena, e Lucià, guardando in alto, tutto allegro, aveva gridato: “An vedi quante stelle”.  
Andarono a prendere le biciclette da un meccanico in Trastevere. “Aspettami qui” disse Lucià a Marcè in fondo a via della Scala “E non fatte vede”. Marcè tremava un poco e gridò a Luciano: “Bada, che quello svaga”, ma Luciano alzò le spalle e diede all’amico un’occhiata di compassione. Entrò dal meccanico, dove c’era della confusione come sempre a quell’ora; prese due biciclette di cui una col manubrio di corsa, e diede il suo nome vero al meccanico, che lo annotò sul taccuino.  
Per una mezzoretta Lucià e Marcè andarono in giro per Trastevere; poi Lucià riportò dal meccanico una sola bicicletta, pagò, e il meccanico non ricordandosi che le biciclette affittate erano due, prese i soldi e cancellò il nome di Luciano dal libretto.  
Marcè aspettava sempre in fondo a via della Scala, dietro un portone. “Com’è ita?” domandò a Lucià. “Non ce lo sai che so’ un fenomeno” disse Lucià con aria indefferente “E come no?” brontolò Marcè ridendo. Ora toccava a lui, secondo il piano, benchè egli avesse preferito andare in due in una bicicletta a Terracina; ma Lucià lo costrinse andare dal meccanico, dove tremando come una fronda, prese la bicicletta dando un nome falso. Ma andò bene pure a lui: ora le biciclette erano rimediate, e andarono a dormire in una stalla nei pressi della stazione di Trastevere, sotto viale Marconi.  
Alle prime luci dell’alba si svegliarono e si lavarono a una fontanella. Tutta la periferia era ancora immersa nel sonno, e contro il cielo, improvvisamente bianco, si disegnava lo scheletro del gasometro tra le ciminiere senza fumo. Saltarono in bicicletta e salirono su per il viale Marconi, deserto e bianco, si imbatterono col padre di Luciano.  
Restarono impietriti, senza saper che dire o che fare. Egli li guardò dapprima non meno stupito, poi furioso. Era ancora un pò ubriaco dalla sera prima, col viso in fuoco e gli occhi fuori dall’orbita.  
Ad un tratto cominciò a urlare e si gettò su di loro afferrando per i manubri le biciclette. “Addò l’avete rubbate” gridava. Ma Luciano e Marcello erano stati svelti a saltare dalla sella e a scappare giù verso la stalla. Il padre di Lucià, sempre urlando contro di loro, risalì il sentiero, svoltò su per viale Marconi, verso la bottega di frutta di un amico suo.  
Vi arrivò davanti e posò le biciclette contro le saracinesche chiuse. Essi lo avevano seguito di lontano a piedi: appena egli fu entrato in casa, Lucià gridò a Marcè: “Non te move” e corse verso la bottega, afferrò le biciclette e le portò, spingendole di corsa, verso dove lo aspettava Marcello. Vi saltarono sopra e scapparono giù, verso il sottopassaggio della stazione. Per la strada non c’era ancora un’anima. Ma il padre di Lucià si era fatto subito sulla porta e li aveva visti mentre saltavano in bicicletta. “Se te pijo t’ammazzo”, si era messo a urlare dietro a Luciano; poco dopo infatti era venuto fuori con una bicicletta e si era messo a inseguirli.  
“Ai Battiglioni Emma ” gridò Marcè.  
Tagliarono giù per il sottopassaggio, per via Volpata, e filarono verso le baracche dei Battiglioni Emma, in mezzo alle quali, tra orti, vicoletti e mucchi di rifiuti fecero perdere le loro tracce. Poi con più calma, andarono verso San Giovanni e presero la strada di Terracina.  
Erano già a Terracina e il mare, cominciato a sospirare subito dopo Velletri, quando in fondo al cielo era comparso il Circeo, ancora non si vedeva.  
Color fumo e pietra, la città era appiccata al monte, con le sue torri diroccate, solcata da vicoli stretti come visceri, tra i muraglioni senza intonaco. Era Terracina alta: Lucià e Marcè, invece, seguendo l’Appia le arrivarono ai piedi lungo una strada che pareva della periferia di Roma o di Ostia. “Ma dove cazzo sta er mare” gridava Lucià “Subbito ce semo ” gli rispondeva Marcè col batticuore. Arrivarono in fondo a quella strada, e a sinistra apparve un grandioso sperone di roccie, sulla cui cima, tra le nubi, si vedevano le rovine di un tempio. Dopo due pedalate arrivarono sulla spiaggetta.  
Il mare si stendeva davanti a loro, color terra solcato qua e là da qualche bagliore. Stretto tra il promontorio del tempio, il Pescamontano, e il porto, pareva angusto, chiuso, senza orizzonti.  
Lucià e Marcè scesero dalla bicicletta, e gli andarono incontro. Era calmo, profumato, e pieno di un lieve fragore. Da lì il Circeo non si vedeva. Contro luce, sull’acqua color creta, e più lontano verdastra, si vedeva una lancia dondolare sui riflessi piena di figure nere di pescatori. La spiaggetta, con la rena bagnata era tutta ingombra di lance a secco, di falanghe, di pertiche conficcate nella rena bagnata, di ajate rugginose stese ad asciugare al vento.  
Appoggiati con la schiena a un muretto che separava la strada dalla spiaggia, sette od otto uomini e ragazzetti, in fila, se ne stavano chini con le gambe larghe intorno a delle ceste lavorando accaniti e in silenzio. Lucià si avvicinò per guardarli; essi non alzarono nemmeno la testa e continuarono il lavoro. Districavano una lunghissima corda rossa, tutta ingarbugliata, arrotolandola nel fondo della cesta: alla corda rossa però erano legati dei lievi fili di nylon con in fondo un amo. Arrotolando la corda lunga, pazientemente, man mano che li trovavano, conficcavano gli ami in un pezzo di sughero attaccato a un bordo della cassetta.  
In fondo alla spiaggia, sul frangente, c’era un gruppo di pescatori, tutti allegri, appena scesi dal porto. I più allegri erano dei ragazzi, alcuni coi calzoni arrotolati sulle coscie e scalzi, altri con gli stivaloni di gomma. Una barca era ferma sull’acqua bruna a pochi metri dal frangente, e dei pescatori vi si muovevano intorno. Dalla spiaggia i nuovi arrivati li interpellavano scherzosamente, e ogni tanto ridevano. Poi si misero tutti insieme a tirarla a riva, per un cavo: alcuni ragazzi coi piedi nell’acqua, la spingevano dalla poppa allegramente.  
“Mo ar mare ce semo” disse Marcé sbadigliando. Erano tutti e due stanchi morti e la luce del mare li stordiva; Lucià a cavalcioni della bicicletta era rimasto fermo a lungo a osservare il lavoro dei pescatori, intontito, senza che essi alzassero nemmeno la testa. “Questi non ce filano pe’ niente” brontolò. Marcé non sapeva la strada per andare a casa dei suoi parenti. Provò a rivolgersi a un uomo che non ne sapeva niente; un altro, tutto allegro, col cesto del pesce sul capo, ne sapeva ancor meno. Marcé allora decise di andare di là del porto, un canaletto d’acqua verde e a quell’ora quasi senza una barca: ricordava che la casa era sul mare, ma di qua del pescamontano, sulla spiaggia. Infatti poco dietro il porto, videro uno stabilimento, e, lungo la riva del mare, le file dei capanni deserti, battuti dal vento.  
Il lungomare era egualmente deserto, e le piccole palme e gli oleandri, sulle aiuole, parevano selvatici, lungo quella strada che si spingeva pareva senza fine per il litorale. Ma dopo nemmeno mezzo chilometro, tra le rade villette, quasi alla fine, Marcé riconobbe la casa. Era addossata a un monticello pieno di viti. Il cancello era aperto. Entrarono con le biciclette fino all’uscio ma dentro non c’era un’anima, la villa era vuota come un tamburo allora cominciò a gridare: “A zia Maria”, girando per il piccolo marciapiede intorno alla villetta, e battendo con le nocche ai vetri delle finestre.  
“C’ho na fame che non ce vedo” disse Lucià. “E a me lo venghi a di?” rispose Marcé, di ritorno al suo giro intorno alla casa vuota. Lui lo guardò:”Me fai rabbia me fai” disse. “Toh – rispose Marcé – attacchete a questo”. “C’ho na fame che non ce vedo” ripeté Lucià. Scese pure lui dalla bicicletta e andò a ispezionare intorno alla casa. Dopo cinque minuti erano sul tetto.  
Così, adesso, non restava che scalzare le tegole e andar dentro. Lo fecero e si calarono nel granaio che era tutto ingombro di patate e di grano: scesero giù per le scale e andarono dritti a cercare la cucina.  
Intanto, però, mentre lavoravano sopra il tetto, alcune donne del paese li avevano visti, ed erano corsi dalla zia Maria in cooperativa gridando:”A casa vostra ce stanno li briganti” lei era venuta spaventata con tre o quattro giovanotti, solo, naturalmente, per cucinare ai briganti quattro uova al burro. Non aveva però riconosciuto Marcé, che era divenuto grande in quegli anni: quanto a Lucià il nipote le aveva detto, gridando, perchè era quasi sorda:”Questo è n’amico mio. Suo padre e sua madre sò morti in guerra”.  
La zia Maria non era cattiva: gli altri parenti però, un’altra zia e i cugini, quando verso mezzogiorno rincasarono, non trattarono con molto entusiasmo i due viaggiatori. A pranzo, nel piccolo salotto rosso, che sapeva di muffa e urina di gatto, lasciavano cadere il discorso quando si trattava della loro sistemazione a Terracina o delle ragioni che li avevano convinti a venirsene da Roma. I cugini, un ragioniere e uno studente, facevano un pò gli ironici e gli indifferenti: e nessuno accennò mai per nulla ad invitarli a restare.  
“A Marcé” disse Luciano quando furono soli, battendosi il naso con un dito. Marcé torse la bocca come per dire:”Che cazzo ne so”. “Io tajo” disse Lucià. Marcé gli fece cenno che parlasse piano. “Non ce vojono? – continuò Lucià a voce più bassa, battendo le mani come per concludere un affare – Non ce vojono? Se taja”. “Aoh” fece Marcé.  
“Non andate a trovare lo zio Zocculitte?” – disse la zia, affaccendando in cucina. “E come no – gridò Marcé, guardando Luciano come se fosse una buona idea – c’annamo pure subbito”.  
“A quest’ora lo trovate” disse la zia Maria.  
Uscirono e presero le biciclette, salutando. “Tornate a trovarci”, dissero le zie, dalla soglia, cortesi.  
Lucià corrugando la fronte, fece un suono con la lingua contro i denti che significava:”Ma li mortacci vostra”. “Je rompemo il cazzo? – riprese per la strada – e chi li fila pe’ niente: bon giorno, bon giorno, e te saluto Gesucrì”. “E’ regolare?” insistette, preso dallo slancio oratorio.  
“Arriconsolate così” disse Marcello.  
Lo zio Zocculitte abitava a vicolo Rappini sotto il Pescamontano, proprio sulla spiaggetta da dove arrivando avevano visto il mare. Intorno c’erano delle case crollate, poco più in là un bar: dietro un crocefisso di ferro con un mazzetto di crisantemi, si internava il vicolo tra le case di pescatori con le soglie coperte di reti sdrucide. Zio Zocculitte aveva sessant’anni, era solo, Vittorio, il suo garzone, stava per andare in quei giorni sotto le armi. Lucià e Marcé si sistemarono da lui.  
Subito il giorno dopo cominciò la loro vita di pescatori; verso le dieci, dopo il lavoro delle coffe lo zio Zocculitte disse che era ora di andare. Vittorio prese la cesta e la coppa, e le appoggiò a terra davanti alla soglia: poi corse da un vicino a farsi prestare una bicicletta. Partirono verso la Mola che era una mezza dozzina di chilometri da Terracina; Vittorio reggeva la coppa lunga e pesante; Lucià e Marcé, in due sulla bicicletta, portavano la cesta. Il cielo era sempre minaccioso: giallo, terroso, bagnato, e soffiava scirocco con delle folate che inumidivano la pelle e i vestiti. La notte era piovuto e tutto era fradicio.  
Arrivarono presto sull’ Appia, costeggiata dal Fiume della Ligna, due interminabili strisce gialle, che si perdevano verso Velletri, verso Roma, tra alberi ancora verdi, casolari e fratte. Alla Mola scesero dalle biciclette, le appoggiarono una contro l’altra in modo che stessero in piedi, e cominciarono la pesca. Era Marcé che aveva indossato gli stivaloni, sopra dei grossi calzetti di lana, come Vittorio, mentre per quel giorno Lucià doveva soltanto stare a guardare e imparare.  
Vittorio scese dentro il Fiume della Ligna, fin che l’acqua, sporca e piena di erbe, gli arrivò alla caviglia. Teneva la stira della coppa per una estremità. All’altra estremità la coppa, dove si attaccava la circhia con la sua rete stretta e profonda, partiva una cordicella, un cui capo Vittorio gli diede da reggere a Marcé, dicendogli di scendere nel fiume, due o tre metri davanti a lui, e camminare tirando la cordicella. Così cominciarono a camminare coi piedi nel pantano lentamente: e la rete scorreva in mezzo al fiume, sotto il pelo dell’acqua.  
Lucià seguiva i due pescatori passo passo, come in una processione. Ogni tanto Vittorio guardava in alto, per vedere che facesse il tempo. Si era un pò schiarito: si poteva distinguere il colore del Circeo. Intorno stridevano degli uccelli, e in mezzo al fiume gorgogliava l’acqua smossa dalla rete: erano gli unici rumori. Vittorio e Marcè camminarono in quel modo per una mezzora, e non avevano fatto che cinquecento metri: si vedevano le biciclette in piedi in fondo alla strada. “Voltiamo” disse Vittorio. Prima però tirò a terra la circhia, e la pulì dalle erbe acquatiche che si erano impigliate: Lucià si avvicinò e vide che il fondo della rete era gonfio e si muoveva. “Quanti ce ne saranno?” chiese. “Un otto chili” rispose Vittorio. Poi ricomincirono a camminare verso il punto di partenza: ogni tanto, ancora, mollavano e pulivano l’orlo della rete. Quando furono alle biciclette, risaliro sulla riva, tirando fuori dalla rete i gamberi che dovevano essere quasi sedici chili, e li rovesciarono nello spasello.  
Al vicolo Rappini verso mezzogiorno c’era calma: sull’acciottolato fangoso restavano riverse le reti rotonde e le pertiche. Ogni tanto passava qualche donna col cannadiejo di terracotta sul capo, e subito scompariva dentro in casa, sollevando la tenda penzolante davanti alla porta, una vecchia rete smagliata. Sugli scalini stavano a pazziare dei mammocci tutti sporchi coi visetti già ruggini dei pescatori, dentro certe palandrane sdrucide che erano già state dei fratelli maggiori. Qualcuno però, stava ancora a fare le coffe, seduto con le gambe aperte contro il muro scrostato di casa sua. Il solicello di mezzogiorno indorava il vicolo, che sentiva tutto di zuppe di fraulini, con l’olio e la conserva.  
La casa dello zio Zocculitte era una sola stanza a pian terreno: in mezzo aveva un letto matrimoniale che lo occupava per quasi tre quarti: le sue immense spalliere erano di ferro nero, tutte piene di volute e ricami. Il poco spazio che restava nella stanza era pieno come una stiva. Tra il battente della porta del piccolo andito, e il muro, erano ammassate pertiche, spungoni, coppini, alti e sottili; e qua e là in tutti gli angoli, vecchi fieri, aci, cime arrotolate. Alla trave centrale del soffitto erano appesi due fili di ferro che reggevano un’asse sopra la quale erano accatastate le coffe. Davanti a una finestrella c’era la stufa, e su la stufa bolliva la zuppa di fraulini. Appena finito di mangiare, ricominciò subito il lavoro. Tutto vicolo Rappini riprese a risuonare, come se fosse un solo cortile. Vecchi e mammocci, non c’era nessuno che non lavorasse, e che lavorando non parlasse e non gridasse coi vicini. Se ne stavano a gambe larghe chini sulle coffe in strada; ma anche chi restava dentro, nella stanza, ai piedi del letto, era come se fosse all’aperto. Vittorio e lo zio Zocculitte avevano preso le coffe fatte alla mattina, e a una a una le aprivano, e lasciando i palametri arrotolati in ordine in fondo alla cesta, staccavano gli ami conficcati nel sughero e vi infilavano un gambero ognuno, posandoli poi sul coperchio aperto della cesta. C’erano centocinquanta ami per ogni coffa: e il lavoro durò fino alle quattro. Allora Vittorio si cambiò e andò a ballare. Lucià e Marcè rimasti liberi e soli, andarono a spasso lungo la Fiumarella dove c’era il porto: era pieno di barche di ogni specie, juzzi, paranze, paranzelle, lancie, lampare, motopescherecci. La lancia di zio Zocculitte, Mariagrazia, era invece sulla spiaggetta in fondo a vicolo Rappini, la prima che Lucià e Marcè avevano visto arrivando.  
La sera andarono a dormire presto: sul letto matrimoniale dormivano Lucià, Marcè e lo zio Zocculitte; Vittorio dormiva per terra. Alle una di notte si alzarono per andare alla pesca  
Coperto da grandi distese di nuvole cupe ma strappate qua e là in modo che vi si poteva scorgere qualche stella, il cielo era così aperto che il mare, sotto di lui, non si distingueva se non per qualche rara piega di luce. In compenso si sentiva più forte – tanto fragoroso, anzi, che riempiva tutta la notte – lo scroscio della marea.  
La spiaggetta era tutta piena di luci. I pescatori che già erano arrivati avevano accese le lanterne sulle poppe delle lance, e dentro il cerchio del loro chiarore si muovevano, chinandosi sulle falanghe, alzandosi, puntando le braccia contro i bordi, per sgradare la barca.  
Vittorio accese la lanterna sulla Mariagrazia, che la stagione prima era giunta ormai al suo ventiquattresimo anno, ma era ancora fresca, solida, leggera nella sua elegante zinconatura; dentro lo scafo tutto era in ordine. La sgradarono spingendola sulle falanghe, fin che non venne a dondolare sull’acqua viva.  
Lo zio Zocculitte cominciò a remare verso l’alto, in direzione del Circeo: ma non si vedeva a due metri di distanza; il mare e il cielo erano un solo baratro di ombra impenetrabile e fredda. Qua e là sparsi per il golfo si vedevano i punti di luce delle lanterne delle altre barche, ancora radi: in quel momento, dal porto, usciva il convoglio di una lampara, tutto turgido di luce. Ma si lasciò presto indietro la riva, andando a rimpicciolirsi verso le acque lontane del Circeo.  
Lo zio Zocculitte remava, Vittorio e gli altri due se ne stavano seduti in fondo alla barca.Tacevano, e si sentiva solo il fruscio del legno dei remi sul ferro degli scalmeri, contro il fragore immenso del mare.  
“Si va lontano?” chiese dopo un pò con un filo di voce Luciano a Marcello. “E che ne so’?” fece Marcè: lo zio Zocculitte e Vittorio tacevano. Vittorio prese il posto di zio Zocculitte ai remi. “Andiamo fino alla scogliera” disse zio Zocculitte, seduto sul macellaro. “Sotto il Circeo” aggiunse. Tra lui e Vittorio remarono per quasi due ore. Ormai pareva che la terra fosse lontanissima: c’era solo il mare intorno così aperto che dava quasi un senso di paura. Invece, non erano molto distanti dalla terra: se, a quell’ora, ci fosse stata la luna, Lucià avrebbe visto sopra il suo capo alzarsi come un’enorme muraglia nera, più nera del cielo, il Circeo con le sue rupi e le sue foreste.  
Fu così quasi ai piedi del Circeo che la barca si fermò, e Vittorio si chinò a scandagliare l’acqua. “Ci siamo?” disse lo zio. “Ventiquattro – rispose Vittorio – va bene”. “Ventiquattro braccia” ripetè Luciano e Marcello.  
“Siamo sulla scogliera” disse lo zio Zocculitte. Vittorio prese da sotto la prua il sughero quadrato, dove era infilata una canna alta un mezzo metro con in cima uno straccio nero: legò alla canna la seconda lanterna e l’accese. “Qui sotto – disse zio Zocculitte, mentre Vittorio lavorava – c’è Quadro. “Che è?” disse Lucià  
“E’ una città sepolta sotto le acque, negli antichi tempi”.  
“Sta qui sotto la barca?” chiese Lucià. “E come no, con tutte le sue chiese e i suoi palazzi. Era una città grande come Roma” disse lo zio Zocculitte.  
Vittorio intanto aveva attaccato sotto il sughero una lunga corda, il calamiente, e all’altra estremità aveva legato il màzzero e un capo del palametro della prima coffa.  
Intanto tutto il golfo andava riempendosi di piccole luci: s’erano raddoppiate, perchè ogni lancia aveva gettato il frascone con la lanterna in mare. Anche Vittorio gettò in mare il ffrascone: il sughero galleggiò, ondeggiando come ubriaco con la lanterna sul pelo dell’acqua, mentre il màzzero era scomparso con un tonfo portando, appunto, a ventiquattro braccia di profondità il calamiente e il palametro. Allora zio Zocculitte cominciò a remare pian piano, mentre VIttorio in piedi a poppa, dalla prima cassetta aperta, lasciava scivolare il palametro in mare, reggendolo con le mani: il palametro scorreva giù coi suoi fili di nylon ai cui capi c’erano gli ami con infilati i gamberi. Finita una coffa, Vittorio vi legava all’estremità la seguente. Dieci erano le coffe, in tutto quasi due chilometri di corda, e millecinquecento ami. La barca, guidata dallo zio Zocculitte, non si allontanava però dritta dal frascone, bensì a lente curve, in modo che i palametri in fondo al mare si adagiassero a serpentina; infatti il frascone ballonzolava fulgido e abbandonato a non più di un mezzo chilometro, quando le coffe furono finite. Allora Vittorio legò all’ultima coffa il secondo calamiente e questo al secondo sughero, senza lume, però,e lo gettò in mare.  
Intanto la luna cominciò ad albeggiare, fuori dalle nuvole che coprivano i monti di Sperlonga. Il cielo apparve sgombro; e le uniche nuvole erano appunto quelle ammassate laggiù e sbiancate dalla luna.Tutto il mare, tra il Circeo e Sperlonga, era punteggiato da centinaia di lumi. Il fianco del Circeo, colpito debolmente dalla luna, si alzava fino alle stelle, turchino contro il turchino del cielo.  
Fu dunque sotto i raggi della luna che Lucià vide salire su dal mare i primi pesci. La barca si era staccata dal secondo frascone, senza luce, e a rapidi colpi di palelle, si era riavvicinata al primo, tutto sfolgorante. Vittorio lo tirò sulla barca e spense la lanterna, poi fece a rovescio il lavoro che aveva fatto prima: cominciò a tirare i palametri sulla barca, raggomitolandoli in disordine dentro gli spaselli. Lucià e Marcè gli si fecero vicini, pieni di ansia. I palametri venivano su dal mare coi loro fini penzoloni e gli ami vuoti. Poi, dopo venti o trenta ami, comparve il primo fraulino, tutto palpitante. Vittorio lo strappò dall’amo, e lo gettò nella cassetta ai suoi piedi. Lucià si chinò a guardarlo, con la sua pancia lucida colpita dalla luna e il suo occhio rosa.  
“Adesso viene il palametro con gli ami grossi” disse Vittorio continuando sempre a lavorare con le mani. “Nella prima coffa un solo fraulino” disse Lucià deluso, guardando il fraulino morente dentro la cesta. Vittorio e lo zio tacquero. Intanto il palametro con gli ami grossi emergeva gocciolante e senza preda .Poi d’improvviso apparve un dentice, e dopo poco un altro dentice, grande, pesante, chiaro come l’argento. Poi uno schiantaro, un sarago, e un alto dentice; e un ronco di tre chili. Lo stesso zio Zocculitte lasciò i remi per venire a osservarlo. Vedendo che era silenziosamente contento, Lucià esclamò:”Vi abbiamo portato fortuna”.  
Intanto i palametri si seguivano uno dopo l’altro, ora vuoti, ora coi pesci a cui la luna faceva luccicare le scaglie. Le grosse mani di Vittorio li staccavano e li gettavano a svincolarsi dentro la cassetta. Variati, palombe, mafroni, cocce, schiamuti, cergne, tracine, fraulini, i piccoli fraulini.  
Passarono così quasi due ore; l’ultimo fraulino cadde nella cassetta che già lo illuminava il sole, non più la luna, e il fianco del Circeo si alzava buio contro il cielo e il mare già bianco nella luce del giorno. 

* * *Il racconto pasoliniano, inedito, è stato reperito dagli studenti dell’ITS Bianchini di Terracina (Latina), insieme al loro professore, Giovanni Iudicone, presso 
il Fondo Pasolini di Roma – giugno 1999

 

COMMENTO di Salvatore Maresca Serra

In questo racconto inedito vi ho trovato quella sublime rarefazione, quegli spazi “poveri” essenziali, quell’atmosfera di disillusione innocente, di teofania dell’insignificante apparente…

In questa forte e attuale efficacia realistico-poetica, il rapporto tra Lucià e il mare ripropone le movenze di una “risalita ancestrale” nella placenta; dove annullare, depotenziare oniricamente, la paura della realtà, della competizione sociale cruda, nuda, e oscenamente deformante: è questo mare che appare – a tratti – come un lago, dove gli Dei olimpici invidiano la nostra mortalità, e al tempo stesso ne animano le acque conferendogli quel fluido indecodificabile, quello spirito che sembra accogliere, ma che può anche respingere, e che, prima o poi, tutti i personaggi giovani pasoliniani – pagani ante-litteram – desidereranno e sperimenteranno fino alla tragedia, cruenta o non.

E che altro non è che il destino.

In questo racconto tutto però resta incombente, come in un fugace ma coagulato vissuto di poche drammatiche ore: sufficienti a cogliere le pulsioni e i sentimenti di Pier Paolo, in questo quadro malinconico, dipinto un po’ dal vero, e un po’ “manieristicamente” – com’egli stesso amava definire la sua opera.