È MORTA IDA MARCHERIA, Ciao Ida

Un cioccolatino per ricordare

Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, è l’anniversario della liberazione dei campi di sterminio Auschwitz-Birkenau. Il racconto di Ida Marcheria, sopravvissuta alla Shoah, grazie a una bugia sull’età e alla promessa di una torta al cioccolato.

Le piccole di casa

Fotografia di Alberto Novelli

Siamo nate a Trieste, in una famiglia ebrea come tante altre, ebree o cristiane, in un appartamento in piazza della Borsa, vicina a piazza Grande, quella che oggi si chiama piazza dell’Unità. Mio padre, che si chiamava Ernesto, era commerciante di prodotti kasher, prodotti di vario tipo come carne, azzime, e tanti altri. Vendeva e commerciava in un bel negozio, frequentato dai membri della nostra Comunità, ma anche da tanti triestini non ebrei. Mia madre, Anna Nacson, era invece una casalinga e come la maggior parte delle donne allora – ma anche oggi tocca sempre a loro – si occupava di noi figli. Il maggiore di noi si chiama Giacomo ed era nato nel 1926. C’era poi Raffaele, che era del 1927. Poi io e Stella, da tutti chiamata Stellina anche per distinguerla dalla nonna che aveva lo stesso nome. Noi eravamo le bambine, le piccole di casa.

Prima dell’arresto

Fotografia archivio personale di Ida Marcheria

La nostra fu un’infanzia piuttosto felice, non avevamo grossi problemi e potevamo vivere tranquillamente. Il nostro era il tempo dello studio, dei giochi e i nostri genitori, con molta attenzione e tatto, lasciavano che ci raggiungesse solo ciò che non poteva arrecarci turbamenti. Anche in questo eravamo bambini come tutti gli altri.

Trieste, una gran bella città, era, come si direbbe oggi, multiculturale, multietnica: c’erano ebrei, anche originari della Grecia – molti come il nonno provenivano da Corfù – austriaci, ungheresi, sloveni, italiani ovviamente, insomma Trieste era una gradevole Babele di lingue, dialetti, di gusti, di profumi, di sapori. Una città di confine e di conseguenza di ricchezze culturali composite e magnifiche. Purtroppo, anche in un tessuto sociale così ricco e articolato, non mancavano i veleni per gli scontri, a volte molto violenti, fomentati, per lo più, dai fascisti nei confronti degli slavi. Ma noi, piccoli di casa, anche da queste violenze, eravamo protetti.

(Nella foto: da sinistra, Hanna Schwartz, Ida e Stellina Marcheria, Trieste, ottobre 1943, pochi giorni prima dell’arresto).

Le leggi razziali

Foto archivio personale di Ida Marcheria

Improvvisamente, tutto cambiò. Nel 1938, in novembre, il fascismo emanò le leggi razziali. Allora avevo nove anni… Giorno per giorno ci trovavamo senza più punti di riferimento, non avevamo più alcun luogo ove sentirci protetti e al sicuro. Fu un processo molto lungo e parecchio umiliante. Qualcuno sostiene, oggi, che fu poca cosa. Non è assolutamente vero! Fu mortificante e doloroso. I genitori persero il posto di lavoro, scontrandosi

con la dura realtà di dover portare avanti, tra enormi difficoltà, la famiglia. Nutrirla, vestirla, accudirla in tutte le elementari necessità. Non c’era più niente di decoroso nella vita quotidiana. Professionisti di valore, stimati da tutta la città, si videro cacciare dalle scuole, si impedì loro di svolgere una attività, spesso per tutti, ebrei e non, importante e necessaria. I bambini furono cacciati dalle scuole pubbliche, costretti a dividersi dai loro compagni, tra vergogna, rabbia e pianti. Difficoltà continue, proibizioni sempre più numerose, sempre più avvilenti. Tanti si videro costretti a lasciare la città, a lasciare l’Italia. Perdemmo così molti amici, tra i più cari. Ai commercianti, oltre al ritiro della licenza, vennero più volte sfasciate le vetrine dei loro negozi. Si proibì, anche con la violenza, che i non ebrei li frequentassero. Fu anche per questo che mio padre perse molti suoi clienti. No. Non direi proprio, non si può con onestà affermare che le leggi razziali furono ben poca cosa.

(Nella foto, Ida nel 1943)

L’arresto

Foto archivio personale di Ida Marcheria

Era mattina presto, ci eravamo appena alzati quando sentimmo prima suonare con insistenza e poi bussare con violenza alla porta. Quando mio padre, come tutti noi sorpreso, ha aperto, questi uomini sono entrati subito in casa, nel nostro appartamento senza neanche chiedere il permesso, senza proferire parola. Si sentivano padroni, pieni di autorità, signori della nostra quotidianità. Colpirono le nostre vite, le sconvolsero per sempre.

Uno di loro aveva un foglio in mano, sembrava essere una lista di nomi. Erano infatti i nostri nomi. Ebbi l’impressione che ci conoscessero già tutti, che sapessero tutto della mia famiglia. Sapevano quanti eravamo, perché nella lista compariva il nome di mio padre, quello di mia madre, comparivano quelli dei nostri fratelli e il mio con quello di Stellina. ….

La fretta, la paura, l’incertezza, la tremenda

tensione che si era impadronita di noi, tutto ci mise in uno stato di indicibile tensione. Non potevamo certo sapere che ciò che stavamo, in quel momento, vivendo era ben poca cosa rispetto a quanto ci sarebbe accaduto nei giorni a venire. Era veramente impossibile il solo immaginarlo. Anche lontanamente.

… Un tedesco mi avvicinò e io, senza pensarci più di tanto, mi sfilai i braccialetti, di poco valore se non affettivo, cose da ragazzina insomma, e glieli porsi. Lui continuò a guardarmi, alzando la voce, sbraitando mi disse qualcosa che io non potevo capire. Non conoscevo il tedesco, la sua lingua mi suonava strana, assurda, cattiva e in ogni modo incomprensibile. Improvvisamente, con una aggressività che non riuscirò mai a dimenticare, allungò le sue mani, pesantemente sul mio viso, sulle mie orecchie. Cercava di strapparmi qualcosa, con rabbia e con violenza. Spaventata, totalmente sconvolta, cercai di fare un passo indietro. Solo in quel momento mi vennero in mente gli orecchini che indossavo. Cercava di strapparmeli, con quelle sue mani grosse e ruvide. Provai come una scossa. Capii che erano quelli che lui rabbiosamente voleva. Con le mani tremanti, me li sfilai e glieli allungai. Da allora, io non porto più orecchini.

Guardai la mamma per trovare qualche conforto, ma lei non si era accorta di quello che mi era capitato. Incontrai, invece, gli occhi della signora Cesana. Mi si avvicinò e, stringendomi a sé, mi disse: “Non aver paura, presto torneremo a casa e io ti preparerò una bella torta alla cioccolata, tutta per te”. Pur in quel momento, così drammatico, si era ricordata della mia passione per la cioccolata!

Terminata la razzia dei nostri beni, dopo averci depredato di tutto, i tedeschi c’informarono che il mattino successivo dovevamo farci trovare pronti per il trasferimento. Senza rivelarci di che trasferimento si trattasse e per quale luogo. Imparammo dopo che questa era la loro norma.

(Nella foto Stellina nel 1943)

Aushwitz, la Judendrampe

Fotografia per gentile concessione dell’archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

La Judenrampe! Il caos, il terrore, l’anticamera dell’inferno. Credo che non ci saranno mai parole sufficienti e tali da poterci fare capire, e da parte mia da rendere benché minimamente comprensibile, ciò che accadeva su quel binario. Si potrà mai capire cosa e con quale violenza scuotesse l’animo dei deportati al loro arrivo sulla Rampa degli Ebrei? No, non bastano tutte le parole che conosciamo, tutte le parole del mondo. Scese, anzi meglio, saltate dal carro bestiame, ci trovammo in un girone allucinante di suoni, di grida, di urla. In una lingua dura, feroce, incomprensibile. I tedeschi, le SS urlavano ordini che nessuno capiva, su tutti grandinavano botte e bastonate, i cani, tanti cani abbaiavano, latravano eccitati e infuriati. Digrignando i denti, cercando di aggredire noi poveretti in preda al panico. Un po’ le SS li trattenevano, un po’ li aizzavano. Tutti, e noi tra loro, cercavamo con occhi smarriti di trovare i nostri cari, il padre, la madre, i fratelli.

Sempre tra urli e bastonate ci fecero lasciare sulla rampa i nostri fagotti, le nostre valigie. Guai cercare di tenere con sé qualcosa, anche la più piccola cosa. A botte e spintoni, senza alcun riguardo per niente e per nessuno, ci fecero disporre in due file. Ci prepararono per la selezione. In una colonna gli uomini, nell’altra le donne con i bambini. Stellina e io eravamo con la mamma. Lentamente le due file avanzavano verso un ufficiale tedesco, una SS glaciale nella sua indifferenza che, a volte quasi con aria annoiata, indicava con un frustino a ciascuno se andare alla sua destra o alla sua sinistra. Il suo sguardo non pareva nemmeno vederci. Era Mengele, il medico selezionatore, l’angelo della morte.

(Nella foto, Auschwitz-Birkenau, selezione alla Judenrampe)

La selezione

Fotografia per gentile concessione dell’archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

Mentre la selezione era in corso ci si avvicinò un uomo, neanche poi così male in arnese, vestito con uno strano abito a righe grigie e blu. Ci guardò solo per un attimo, facendo scivolare lo sguardo frettolosamente, poi guardando altrove; fingendo attenzione per altro da noi, con molta circospezione, parlando italiano mi chiese quanti anni avessi. “Quattordici” risposi. “No, tu ne hai sedici”. Pensai fosse matto. D’altro canto tutto ciò che vedevo

intorno a me non poteva che farmi credere di essere arrivata nel mondo dei matti, nel mondo della follia. Ma come, ho quattordici anni e questo strano essere pretende di sapere meglio di me la mia età! Se ho quattordici anni perché mai devo dire sedici? Ma che ne sa, se nemmeno mi conosce. Poi fece la stessa domanda a Stellina. “Tredici anni da pochi giorni” disse mia sorella. “No, tu ne hai quindici, capito! Ne hai quindici”. Allontanandosi ancor più circospetto, come se temesse che le SS avessero potuto vederlo nel rivolgerci la parola, ci ripeté ancora una volta: “Tu ne hai sedici e tu quindici. Ricordatevelo! “. Ma prima di rivolgersi ad altri prigionieri e con ben poco garbo ci spintonò verso la nostra fila. Toccò a noi arrivare davanti alle SS. Senza una parola, con un gesto secco venimmo indirizzate nella fila meno numerosa.

(Nella foto, Birkenau, donne e ragazzi già destinati alle camere a gas)

Nostra madre aveva capito

Fotografia per gentile concessione dell’archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

Nostra madre andò nell’altra. Ma questo non ci interessò, non era quello che in quel momento per noi era importante. Da una parte o dall’altra per noi nulla significava. Avevamo già perso di vista mio padre e i nostri fratelli Giacomo e Raffaele, anche se erano nella nostra colonna. Cercavamo la mamma. Ci guardammo intorno per individuarla. I nostri occhi, seppur stanchi e sbarrati dal terrore, la cercarono nella fila che s’ingrossava sempre più di donne e bambini. Non la trovammo. Poi la vedemmo su di un camion. Volevamo andare con lei, ma non ci fu possibile. Qualcuno ci disse che l’avremmo ritrovata nel campo. Gli anziani, i meno forti ci avrebbero preceduto. Che tragica bugia! Mamma non piangeva. Lei aveva capito. “Bambine mie” ci disse “cercate di stare sempre insieme”. Poi i camion, non pochi e tutti strapieni di donne e bambini ammassati come bestie, si avviarono. Verso dove nessuno di noi sapeva e poteva immaginare. Vedemmo mamma allontanarsi, senza una lacrima. Non l’abbiamo più vista.

(Nella foto, Birkenau, donna con bambini)

Kanada Kommando

Fotografia per gentile concessione dell’archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

Quando arrivammo [al Kanada Kommando], quello che ebbi modo di vedere mi lasciò di stucco. Le baracche erano piene fino al soffitto di vestiti, di valigie, di coperte, di scarpe… di tutto! Da non poter immaginare, incredibile. Era tutta la nostra roba, i beni di tutti i deportati, quelli ancora vivi ma soprattutto di quelli ridotti in fumo. Delle nostre madri, dei fratelli, dei figli. Il frutto di una inimmaginabile, criminale rapina.

Io sono nata lì, al Kanada ho aperto gli occhi su un mondo di dolore, di offesa, di crudeltà. Al Kanada è finita la mia infanzia, è finita anche quella di Stellina. Lì abbiamo imparato a odiare, abbiamo imparato a non perdonare, abbiamo capito che ciò non sarebbe mai stato possibile. Le SS, i nazisti ci avevano rubato tutto e noi non potevamo nemmeno toccare. Tutto era verboten, proibito, tutto era esclusiva proprietà del Reich. Noi pure, noi per primi. Ci insegnarono il lavoro, ci insegnarono rudemente a scegliere tra quanto continuamente, senza sosta ci arrivava, in grande quantità, ogni giorno, e a dividere il meglio dal peggio. Gli stracci, i Lumpen, da una parte, le cose migliori e utilizzabili da inviare ai buoni cittadini del Reich da un’altra. A noi una copertaccia nera e un paio di ruvidi, scomodi zoccoli, a loro calde coperte, piumini, comode scarpe di pelle, orologi, tappeti… Oro, gioielli, brillanti, beni preziosi, medicine – così necessarie nel campo – soldi dovevano essere consegnati agli ufficiali delle SS che ci controllavano minuto per minuto, dalla mattina alla sera. Se un ufficiale vedeva che una di noi tentava di “organizzare”, di rubare un gioiello, estraeva la rivoltella e, a bruciapelo, uccideva la ladra. Alla fine del turno, prima di tornare in baracca, venivamo perquisite. In fila, tutte nude, con la divisa in mano. Le SS, senza alcun riguardo, erano pronte a esplorare persino il nostro corpo anche nelle parti più intime.

Ogni giorno toccava a noi selezionare, accoppiare, fare grossi pacchi che, una volta riportati sulla rampa ferroviaria, prendevano strade per noi allora sconosciute. Poi abbiamo saputo che erano quelle non solo per la Germania ma anche per la Svizzera, per il Brasile, per l’Argentina. Anche l’oro dei denti dei nostri morti è finito lì. Noi non potevamo prendere nulla, ma gli ufficiali delle SS si servivano in abbondanza. Per se stessi e per le loro mogli. Quando arrivava un trasporto “ricco”, non dai ghetti ma come quelli degli ebrei ungheresi, dovevi vedere come si precipitavano. Come falchi. Anche le ragazze del Kanada rubavano, sfidando la morte, per sé e per le loro compagne del campo.

(Nella foto, Birkenau, donne addette alla selezione degli oggetti provenienti dai vari trasporti. Sullo sfondo, in alto, è possibile vedere le cime dei camini)

La camera a gas

Fotografia per gentile concessione dell’archivio del museo Yad Vashem di Gerusalemme

Anch’io finii davanti all’entrata della camera a gas. Con altre compagne avevo gettato del pane a persone di un trasporto appena arrivato. In attesa del loro ignoto appuntamento con l’inferno delle SS. Le kapò ci avevano scoperte e alcune di noi, forse quelle che già da prima venivano tenute sotto un più attento controllo, furono subito portate con la forza nel cortile del crematorio. Mentre eravamo sul piazzale in attesa che la camera a gas si rendesse disponibile, arrivò con la sua motocicletta una hauserka, una delle guardiane SS, le più cattive e perverse. Erano sempre rabbiose, violente, giravano per il campo in motocicletta e sempre accompagnate da un cane persino più rabbioso di loro. Mi guardò, pensò forse che mi avevano mandato al crematorio perché non più idonea al lavoro. Ma evidentemente il mio aspetto non era tale da giustificare questa decisione. Mi urlò, quindi: “Augenfressen, zu arbeiten”, tu stai bene, vai a lavorare. “Zu arbeiten”. Non me lo feci ripetere un’altra volta e tornai, e di corsa, al lavoro. Forse non furono nemmeno le sue parole a salvarmi, anche se furono determinanti in quel momento. Mi salvò ancor prima il fatto che la camera a gas era troppo affollata, che era già impegnata nella sua quotidiana opera di sterminio. In ogni modo se l’hauserka fosse passata mezz’ora più tardi, anch’io sarei diventata fumo.

(Nella foto: Birkenau 1943, deportati in attesa di entrare nella camera a gas)

Il ritorno

Fotografia di Alberto Novelli

Ero rientrata a Trieste con un paio di scarpette da ciclista che mi aveva regalato un soldato italiano. Ero tornata dall’inferno di Auschwitz nuda e cruda, tenendo per mano mia sorella. Ed era come se nulla fosse accaduto. Trovammo che casa nostra era stata occupata da un fascista con la sua famiglia. Era stata data a lui, per chissà quali alti meriti, così come l’avevamo lasciata. Con ancora le posate sul tavolo, con le nostre provviste, con il pranzo già preparato sui fornelli, con la biancheria pulita pronta a sostituire quella da lavare. Con i nostri giochi di ragazzi e con i nostri libri.

La vita di una persona è fatta anche di tanti oggetti, piccoli o grandi, spesso di nessun valore o apparentemente insignificanti per gli altri. Ma per quella persona e solo per lei hanno valore inestimabile. Sono legati a un ricordo, a una amicizia: una penna, una spazzola, un nastrino, una fotografia. Io non sono riuscita a recuperare neanche un oggetto, una piccola cosa della mia vita passata. Come volevano i nazisti, nel loro lucido piano criminale. Niente oggetti, niente ricordi, niente vita. Il fascista che aveva occupato la nostra casa non aveva alcuna intenzione di ridarcela. Fummo perciò costrette a chiedere ospitalità, almeno un letto dove dormire, a qualche conoscente.

Ritorno a Birkenau

Fotografia di Alberto Novelli

Poi abbiamo cercato di ricostruirci una vita. Abbiamo frugato nelle case dei nostri parenti, che erano sopravvissuti alla Shoah, per cercare qualcosa della nostra famiglia. Anche solo una fotografia che potesse alimentare i nostri ricordi di un tempo felice. Che potesse ridarci il volto dei nostri famigliari scomparsi nel cielo polacco… Abbiamo elemosinato i nostri ricordi.

Poi mi sono sposata, povera, senza un soldo. Anche Stellina si è sposata. Poi i ricordi, le notti d’angoscia, l’incubo continuo di nome Birkenau l’hanno sopraffatta. Ci ha lasciati. Io ho avuto un figlio e il regalo di due nipoti. Anche Giacomo si è sposato e ha avuto quattro figli e quattro nipoti. … Mio marito aveva un laboratorio di cioccolata, una cioccolateria – che ancora oggi gestisco con mio figlio.

Oggi mi chiedono più volte se ho mai pensato di tornare ad Auschwitz, di tornare a camminare, da persona libera, tra le baracche di Birkenau. Non sarei mai voluta tornarci. Poi alcuni superstiti, e tra questi Shlomo Venezia, che abita a Roma e con il quale mi incontro continuamente, e il sindaco della mia città mi hanno convinto a fare con loro un viaggio-studio al quale avrebbero partecipato numerosi studenti e professori.

Sono tornata ma, devo dire la verità, soprattutto per ricordare i miei, per portare alcuni sassi sulla Judenrampe! Perché sentissero che io sono sempre, in ogni momento della mia vita, il giorno come la notte, nel dolore e nella felicità, con loro.

Perché ogni notte io torno a Birkenau.

C’è anche chi afferma che è giunto il momento di perdonare.

Io non posso perdonare. Non perdonerò mai.

Il libro

Il racconto di Ida Marcheria e le immagini di archivio sono tratte dal libro Non perdonerò mai di Aldo Pavia e Antonella Tiburzi, ed. Nuova dimensione e riprodotte per gentile concessione dell’editore.

16 comments

  1. Come dimenticare l’orrore? Grazie a questa donna e alla sua testimonianza la Shoah è entrata nelle nostre case come un pugno dritto nello stomaco. Ha fatto e continua a fare male, ma il male non è mai banale, è solo il frutto di menti perverse che nei minimi particolari curano il loro progetto a termine. Ciò che è successo 60 anni fa è l’effetto di quei piani diabolici, qualcosa che ancora oggi alla menti illuminate appare impossibile, eppure è accaduto. Ed ogni volta che un’Ida griderà con forza quel suo non posso perdonare tornerà in mente quell’orrore ed ognuno di noi idealmente sarà con lei e con quanti hanno permesso di far sopravvivere quella memoria. Perchè nessuna memoria può andare perduta, rappresenta la nostra storia, il nostro passato, presente e futuro, anche se per un momento, un lunghissimo doloroso momento, la stessa Storia è morta nei fili spinati di ogni campo di concentramento messo in piedi, in ogni forno crematorio acceso. Mi chiedo cosa accadrà dopo che non ci sarà più nessun testimone a ricordarci tutto ciò. Forse rimarremo noi a tenere acceso quel ricordo per sempre, affinchè simili avvenimenti siano impediti. E che adesso Ida riposi in pace.

  2. Non credo affatto che possa essere giustificata sotto il velo dell’esigenza della follia nazista, lo sterminio non di un popolo, ma lo svuotamento del valore della vita in un essere umano. La guerra, per quanto illogica e disumana si poggia su un esigenza di conquista da una parte e sulla necessità di sopravvivere dall’altra. Nel periodo nazista e fascista non vi fu una guerra dichiarata verso un popolo, ma solo il vigliacco stimolo di esercitare il terrore…se fosse stata una guerra fra popoli nella sua ingiustizia ci sarebbe stata logica…ma così no….non si può dimenticare questo: la vigliaccheria di fronteggiare un ipotetico nemico per vincerlo! E questo perchè non consideravano quella gente degna nemmeno di essere un nemico…o forse aveva capito benissimo che erano loro non degni di fronteggiare un popolo vero!

  3. Vittime di un assurdo delirio d’onnipotenza, ma non cobbiamo dimentichicare le vittime del comunismo e tutti gli innocenti schiacciati dalla violenza . Riposa in Pace, Ida, e se puoi chiedi a Dio…perché!

  4. Solo chi ha vissuto l’ orrore può sapere se si può perdonare oppure no.
    E certi orrori non si possono e non si devono perdonare. Si devono solo ricordare.
    Riposa in pace, Ida, e con te riposino in pace tutte le vittime di questo e degli altri orrori passati e presenti.

  5. Mi serve un po’ di tempo per mettere ordine nei ricordi.
    Ida, una delle testimoni più preziose. Faccio fatica a fare i conti con questa perdita! Ma non posso non fare una promessa: ti racconterò Ida, racconterò dei tuoi “orecchini” delle “scarpe da ciclista”, della “torta di cioccolata”. Racconterò dell’inganno sull’età che ha salvato, (si fa per dire..) te e tua sorella Stellina. Racconterò dell’Inferno dove vi hanno portate, del Canada dove avete potuto avere sentore delle centinaia di migliaia di persone che venivano mandata nelle camere a gas. Ricorderò per sempre il tuo modo asciutto, vero, di raccontare, il tuo disgusto per chi specula sulla Shoah, il tuo dolore annegato nella cioccolata…
    70142 tatuato per l’eternità sulla tua carne e nel mio cuore.
    ciao Ida. Sia benedetta la Tua Memoria.
    maria pia bernicchia

  6. Hai ragione Ida quando affermi che non perdonerai mai: il male assoluto, l’orrore, non si possono perdonare, anzi, non si devono perdonare!
    I carnefici devono sapere che nessuno è disposto a perdonarli o a giustificare le loro nefendezze!
    Speriamo che la tua vita dolorosa possa farci rammentare ogni giorno, che non è giusto provocare la sofferenza di altri esseri viventi solo per il nostro egoistico interesse!
    Speriamo soltanto che tu e tante altre persone come te, non abbiamo sofferto invano. Ma che il loro dolore serva da monito a tutta l’umanità e da incoraggiamento a non odiare più nessuno.

  7. Sono nato da una madre fascista, ch’era stata fin da giovanissima anche segretaria nell’ufficio del Fascio di Caserta, e che aveva vissuto la disfatta storica di Mussolini come un lutto personale, e un’immane tragedia. La madre di mia madre era anch’essa fascista, e così la sorellastra di mia madre – più giovane -, nata dal secondo matrimonio di mia nonna rimasta vedova. Mio padre non s’interessava né di politica né di questioni storiche e relative piaghe: viveva nel suo piccolo mondo fatto di architettura e arte. Quando decise di sposare mia madre aveva più di quarant’anni. Io nacqui nel 1956, da un padre qualunquista e da una madre fanatica e nostalgica, rimasta fascista nel suo animo e nei suoi modi. A casa dei miei, ricordo che ogni settimana si ascoltavano dei dischi a 78 giri con i discorsi di Mussolini dal balcone di piazza Venezia. In particolare, la dichiarazione di guerra esaltava gli animi, nello scroscio interminabile di applausi della “folla femmina”, di mia madre, mia zia e mia nonna; mio padre si teneva in disparte. Io, da piccolino, imitavo il Duce con grottesche rappresentazioni che inscenavo per gioco, le mani piantate sui fianchi, le spalle dritte e lo stomaco in fuori. Tutti ridevano e mi accarezzavano. Sono figlio unico…
    Poi crebbi: le cose cambiarono.
    Per una ragione che ancora mi risulta del tutto ignota, all’età di dieci anni divoravo libri che tentavano di spiegare la storia recente e il suo disastro. A dodici anni avevo un’idea abbastanza precisa di cos’era stato il nazifascismo, ma che le donne della mia famiglia distinguevano: per loro nazismo e fascismo erano due cose differenti; Mussolini era un eroe ingiustamente ucciso da una razza bastarda che loro chiamavano “partigiani”: un martire.
    A tredici anni il mio ideale filosofico era il comunismo.
    A quattordici partecipavo a tutti i cortei in piazza con indosso la maglietta col Che Guevara. Spesso e volentieri tornavo a casa con gli occhi gonfi dai lacrimogeni e la testa rotta. In genere, arrivati in piazza Dante, ci si scontrava puntualmente con i “fascisti”, i mazzieri del MSI. Le loro mazze mascherate da bandiere del partito facevano veramente male. Ma anche i nostri cazzotti, i calci, e forse anche i nostri insulti.
    Dai cortei, la battaglia ideologica si trasferì presto dentro casa.
    Una battaglia durata l’intera vita. Fatta di interminabili discussioni esacerbate dagli atteggiamenti delle donne della mia famiglia; che non ammettevano né critiche né repliche, e che ti liquidavano con uno: “Stai zitto! Tu non capici niente e non conosci niente!”
    Il mio cercare un possibile dialogo civile, un confronto, uno scambio anche sereno e lucido, feci presto ad accorgermi ch’era solo un fallimento.
    Mio padre continuava a tenersi in disparte. Ma, in segreto, mi diceva: “Lascia perdere… Loro sono fatte così.”
    Presto imparai anche gli orrori dei regimi comunisti, e di quelli post-comunisti che cominciavano ad affacciarsi alla storia contemporanea, quella di cui anche tutti noi facevamo parte.
    Smisi di sentirmi “comunista”. Smisi di scendere in piazza coi miei amici.
    A sedici anni era tutto finito. Ma solo in apparenza. La mia testa non si rompeva più ma si rompeva peggio: il mio cervello non trovava mai le soluzioni. Ero solo. Solo con tutti i nodi che non riuscivo a sciogliere. Solo col conflintto che c’era nella famiglia: un aspro e increscioso conflitto che io stesso avevo creato. E che non si risolse mai.
    Il pur forte affetto che ci legava era attraversato spesso da insanabili disistime. Alla fine, solo la mia ironia riuscì a mettervi un tappo.
    Mi resi conto che tutte le mie critiche e le mie analisi storiche non servivano a niente: mia madre, mia zia e mia nonna erano come delle macchinette che si accendevano automaticamente appena si nominava la parola “Mussolini”…
    Tutti i 78 giri li avevo fatti a pezzi e li avevo calpestati sotto i piedi in una sfogata di rabbia, anni e anni prima. Ricordo che piansero e mi odiarono. Io risi e le odiai con tutte le mie forze. Attaccai con la colla tutti i frammenti del vinile su un giubbotto mimetico che avevo comprato al ponte di casanova, che mi pare venisse dall’america. Lì, tutti i musicisti rock di Napoli andavano a rifornirsi di capi unici da esibire nei concerti che tenevamo nei localetti undergroud: il mio giubbotto fece furore, tutti me lo invidiavano appena sapevano cos’erano tutti quei frammenti di dischi.
    La morte di Ida Marcheria mi ha fatto ripensare a tutta questa storia, una storia molto dolorosa. Irrisolta. Irrisolvibile.
    La mia storia di adolescente alla ricerca di una possibile verità.
    Ricordo che una volta, in un momento di relax, chiesi a mia zia: “Ma adesso che siamo soli, onestamente, dimmi che cosa pensi degli orrori della deportazione degli ebrei dall’Italia verso la Germania… Come fai a sentirti “fascista”…”
    Mia zia mi disse: “Devi pensare che non era mica come in Germania. Mussolini era un buono. Era obbligato a farlo, ma li proteggeva!”
    “E come?!” risposi io.
    Lei mi guardò e mi disse: “Cerca d’immaginare… Su cento persone, sessanta li facevano scappare e solo quaranta venivano deportate…”

    Quanta tristezza provai. Ogni tentativo di dialogare con loro è stato sempre inutile: non potevo sconfiggere un mito. E quel mito, per alcuni, è stato un uomo che si chiamava Benito Mussolini. Le donne di casa mia hanno vissuto le loro intere esistenze con quel nome nella testa e nel cuore.

    Stando a mia zia, Ida Marcheria era tra quei poveri “sfortunati” che Mussolini non fece a tempo a proteggere dalle SS…
    Nessuno è più sordo di un coglione.

    Nel tempo, a causa della musica e del jazz, diventai buon amico di Romano Mussolini. Me lo presentò Edda Ciano, a cena a casa sua ai Parioli.
    Edda me la presentò Giovanna, mia zia Giovanna.
    Mi raccomandò inizialmente di evitare discorsi, come mio solito, e io accettai. Avevo circa trent’anni. Quello fu il patto. Nonostante la nostra storia, mia zia (sedici anni più vecchia di me) mi stimava moltissimo, e sapeva che non avrei mai fatto riferimento a…
    Tra me e Edda si stabilì presto un rapporto autonomo da mia zia. Un rapporto fondato sull’ironia. Tutte le volte che ci vedevamo, io la corteggiavo, come fosse stata una mia coetanea. Era un gioco che la faceva divertire, distrarre dai suoi orribili fantasmi, che si vedevano con chiarezza guardandola negli occhi ceruleo chiari. Tutto era molto chiaro, tra lei e me. Da soli parlavamo spesso della storia e della politica. E sempre io l’ascoltavo. E sempre le rispondevo, consapevole perfettamente che quella storia di cui si parlava era accaduta quando io non ero neanche nato. E che tutto ciò che io potevo sapere di quella amara storia era solo ciò che avevo sentito dire da altri, altri che si sono presa la briga di scriverla o descriverla – una differenza notevole, sia tra me ed Edda, che tra questi ultimi.

    Edda Ciano non ha mai parlato con me di storia. Ha solo parlato della sua storia, pur s’è inscindibile da quella di tutti, e lei lo sapeva – ovviamente – perfettamente. E così anche Romano. Col quale parlavamo quasi esclusivamente dei grandi mostri del jazz. Per un periodo, Romano e io suonammo spesso assieme in jam-session, in vari locali romani e non. Appena potevo, gli organizzavo io stesso concerti per l’Italia. Aveva bisogno di lavorare per vivere. Aveva due famiglie e doveva essere all’altezza… Veniva sempre ai miei concerti e alle mie esposizioni. Alla fine, qualche anno prima della fine, accettò di far parte del mio movimento di opinione, nel 1999. Partecipò a varie conferenze, si fece riprendere dai fotografi e dalle televisioni con me e gli altri. Il mio movimento era un movimento democratico e liberale, antifascista per antonomasia…

    Una volta mi fermai a riflettere: ero diventato buon amico dei figli dell’uomo che più intellettualmente ho odiato, per ovvie ragioni, ragioni che avevano devastato l’affetto tra me e mia madre, mia zia, mia nonna. Oltre a tutte le infinite altre.

    Sia Edda che Romano erano due vittime della Storia. Una storia tanto più grande di loro, quanto più grande di molti è stata questa follia, questo orrore, questa atroce vergogna del genere umano: una vergogna assoluta, che non dovrà mai essere dimenticata. Mai!
    La vita a volte è strana e imprevedibile. Ti mette di faccia a quelli che dovrebbero essere i tuoi nemici, per definizione e per genesi. Per poi farti scoprire una cosa ovvia, e niente può essere più illuminante che toccare con la mano ciò ch’è ovvio: ho sempre provato e continuo a provare, anche dopo la fine di entrambi, un sentimento di fraterna partecipazione al loro dolore. Il dolore che nasce dal caso. Così come fu il caso a farci conoscere.
    Tra le vittime di questa vergogna e di questi schifosi assassini, per tutt’altri versi, dobbiamo includere anche Edda Ciano e Romano Mussolini, nonostante a volte atteggiamenti pubblici che non rispondevano al vero, nell’intimo. Io posso testimoniarlo.

    Ida Marcheria, per tutto ciò ch’è stata, e che ha accettato di essere per gli altri – per tutti noi – merita un posto nella memoria di chiunque. Chiunque abbia compreso – a differenza dei coglioni – che solo la memoria della più grande sofferenza, quella che gronda dolore assoluto, orrendamente incancellabile e diventato valore supremo, per un assurdo logico che invece dovrebbe spingere chiunque lo abbia sopportato sulla sua stessa pelle a dimenticare per sempre, solo la memoria è il modo unico possibile per continuare a sentirsi uomini con piena consapevolezza di cosa l’uomo è capace.

    Sono perfettamente d’accordo con chi, in alto, ha scritto che il Male non è mai banale, a differenza di ciò che ha affermato Hannah Arendt. Il Male non è mai banale. Banale è chi lo dimentica. Chi finge di derubricarlo a impossibiltà di scelta, a incastro diabolico di eventi storici, di casuali nascite e casuali posizioni nella Storia.

    Ognuno è padrone della sua storia, e può sempre scegliere.
    E può sempre scegliere il Bene.
    Anche quando questa scelta comporta una sofferenza indicibile, spesso inenarrabile.
    Proprio come ha fatto Ida Marcheria.
    Che affermando “Io non perdonerò mai” ha svelato a tutti noi l’unico Bene possibile: la memoria del Male. Una memoria, purtroppo vastissima: la Shoah è solo un pezzo di essa. Paradossalmente molto piccolo.

    Salvatore Maresca Serra

  8. Difficile scordare anni di tristezza, anni di sofferenza di milini che hanno visuto del campi di concentramento: Difficile scordare ogni persona che mancata con dolore nei occhi, di morte inguista…..
    Czesc ich oamieci….

  9. Difficile scordare anni di tristezza, anni di sofferenza di milini che hanno visuto del campi di concentramento: Difficile scordare ogni persona che mancata con dolore nei occhi, di morte inguista…..
    Czesc ich oamieci….

  10. IDA,TU HAI FATTO IL VIAGGIO CON MIO PADRE ED I MIEI NONNI DA TRIESTE AD AUSCHWITZ IL 7 DICEMBRE 1943, LORO NON SON TORNATI MA GRAZIE A DIO TU L’HAI POTUTO FARE E RACCONTARE AL MONDO QUELLO CHE ALCUNI ANCORA NEGANO
    GRAZIE ANCORA IDA

  11. Sono felice per lei, e commossa fino alle lacrime.
    Oggi, lei che non aveva più lacrime, ne’ fede, finalmente incontrerà il Creatore, e la sua anima abbagliata finalmente di luce, di gioia e meraviglia potrà ricongiungersi con chi aveva perduto per non lasciarsi mai più.
    Le avevo scritto una lettera il 30 gennaio del 2010, dopo aver sentito le sue testimonianze agghiaccianti, e sopratutto il suo disperato bisogno di essere ricordata lei e tutta la tragedia di cui si stava facendo carico: continuava a dire che nessuno si ricordava di lei, che non importava nulla alle nuove generazioni…
    Le ho scritto per dirle che a me invece importava, e le ho scritto piangendo tutte le mie lacrime per darle conforto e speranza in un Dio che presto l’avrebbe consolata di ogni orrore. Le ho scritto iniziando con queste parole: Ave a te Ida, piena di grazia…- Perchè tutta l’amarezza che aveva in corpo era l’amarezza che hanno le creature benedette e privilegiate da Dio, quelle che invise a Satana e da questo mostro perseguitate.
    Oggi dico: Ave Ida, piena di grazia, che tu sia felice nel seno di Dio.-

  12. Ida aveva un sguardo dolcissimo nonostante il male che hanno visto i suoi occhi. Io la ringrazio per la sua testimonianza e mi auguro che nel tempo in tv vengano riproposti spesso i servizi che la riguardano e che parlano della cattiveria del razzismo. Non dobbiamo dimenticare e bisogna far conoscere ai ragazzi ciò che è successo perché si impegnino affinché non accada più. Non riesco a rassegnarmi a tanta cattiveria, brutalità e mancanza di rispetto verso l’essere umano. Speriamo che veramente le coscienze degli uomini cambino portando nel mondo solo amore. Ciao Ida e felice incontro con tutti i tuoi cari.

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