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L’IMBARAZZO DELLA SCELTA – Giuseppina Meola

L’IMBARAZZO DELLA SCELTA – Editoriale di Giuseppina Meola

La  parola del giorno è CHOOSY, l’equivalente dell’italiano schizzinoso.
Ho fatto una breve indagine etimologica ed ho verificato che schizzinoso deriva dalla voce settentrionale schizza, cioè naso schiacciato, schiacciato in una smorfia di disgusto.
Molto probabilmente,  anche sul mio volto si è palesata la schizza, quando ho appreso la notizia del ministro Fornero, che biasima i gusti troppo difficili degli italiani, definendoli, di conseguenza, schizzinosi.
Dopo il primo impatto, ho posto maggiore attenzione sul termine esatto usato dalla titolare del welfare con delega alle pari opportunità, tra l’altro.
La Fornero, che, evidentemente, non è l’ultima arrivata, ha impiegato, volutamente, una parola anglosassone, derivato di “to choose”, cioè scegliere.
Questa osservazione mi ha spostata verso un ulteriore profilo d’indagine: la scelta, la libertà di scelta.
In primis, però, voglio ricordare che l’art. 1 della Costituzione, al suo primo comma, recita “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Andando oltre, l’art. 4, sempre della Costituzione, sancisce: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
In poche battute chiare, precise, secche, inequivocabili, come era proprio dei Padri Costituenti, è enucleato un principio fondamentale del nostro ordinamento: il principio lavorista.
In tale sistema, il lavoro non è una qualsiasi attività dell’uomo, ma è uno strumento di realizzazione della personalità e di adempimento del dovere di solidarietà. È un diritto-dovere.
Urge precisare che il lavoro non è un valore supremo di matrice economicistica. Se così fosse, ci troveremmo nella patologica situazione di considerare un minus habens chi non lavora ancora o non più per ragioni anagrafiche, chi non può lavorare a causa delle proprie condizioni psico-fisiche, per esempio.
Il diritto al lavoro è il primo diritto “sociale”, volto ad assicurare a tutti non solo i mezzi di sussistenza , senza i quali anche il godimento di altri diritti verrebbe di fatto vanificato, ma anche la possibilità di inserirsi nel contesto sociale e sentirsi parte attiva della res-publica.
In una società come quella italiana (o europea o anche del mondo occidentale in generale), nella quale il tasso di disoccupazione è elevato e nella quale si soffre per un lavoro troppo spesso poco gratificante, è ancora più forte il problema non del diritto al lavoro, ma di un diritto diverso, che è quello di avere chances al lavoro.
Non si può parlare di pretesa ad ottenere un lavoro con l’aiuto dello Stato (così non saremmo schizzinosi, ma bimbi o bamboccioni di brunettiana memoria da imboccare addirittura!!!). Si discute di un intervento statale –previsto già a livello costituzionale-, che promuova una forza lavoro competente, qualificata, adattabile, da inserire in un mercato del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici.
Come sosteneva Massimo D’Antona, occorre pensare al lavoro non nell’ottica dei diritti soggettivi, ma avendo quale faro politiche economiche in grado di garantire una tutela che assicuri, a chi cerca o tenta di conservare il lavoro, uguali punti di partenza, non di arrivo.
Questa è meritocrazia.
Questa è uguaglianza sostanziale.
Questo sistema offre la vera possibilità di scelta.
Si deve scegliere perché è sintomatico dell’autodeterminazione: vagliare le offerte in quanto  l’occupazione risponde sia ad esigenze economiche sia alla realizzazione della persona sociale, dell’individuo.
Dovremmo essere lontani dall’idea di un’impresa economica e di un lavoro finalizzati al solo incremento della produzione, creando un clima di ostilità tra gruppi, un modello improntato alla preminenza dell’avere sull’essere.
Non è così.
Siamo vittime delle diseguaglianze che alimentano l’insoddisfazione e le spinte disgreganti. Siamo tenuti in scacco non dalla sana competizione, ma dalla fatica del tirare a campare, del vivere alla giornata, per occupare un angusto lembo di terra che offra non gratificazione personale-profesionale, ma risorse per ridurre, ahimè irrisoriamente, il debito col futuro, anzi il DEBITO DI FUTURO!!!
Quale futuro per un chossy qualunque?
Il futuro di un choosy-ricercatore costretto a lasciare l’Italia, perché questa Italia non finanzia la ricerca? (Forse la Fornero ritiene che questo ricercatore sia choosy-schizzinoso dinanzi ad un piatto di spaghetti, che sa poco di pasta in un falso ristorante italiano nei pressi di Harvard, tanto per dirne una?!?)
Il futuro di un choosy-centralinista che, al posto del microscopio e dei vetrini, come da laurea in biologia, ha cuffie e microfono e mi chiama per propormi un nuovo piano tariffario per rete telefonica fissa e mobile? (Forse la Fornero ritiene che sia io choosy-schizzinosa rispetto ad una vantaggiosa offerta all-inclusive senza canone e internet no-limits?!?)
Il futuro di un choosy-lavoratore dell’Irisbus di Flumeri (AV), che protesta perché la fabbrica chiude, non produce più pullman, ma i bus che circoleranno in Italia saranno comprati all’estero? (Forse la Fornero ritiene che sia choosy-schizzinoso il viaggiatore che sale sul pullman, pretendendo solo il posto accanto al finestrino?!?).
Potrei continuare, ma mi fermo.
Mi fermo anche perché so che ci sono tanti lavoratori che, realmente, attendono la manna dal cielo, non si rimboccano le mani e glissano offerte di lavoro. Ci sono mestieri in via di estinzione, quasi fossero panda. È un allarme lanciato a più riprese dalle associazioni di categoria, soprattutto nell’artigianato. Ci sono, poi, mestieri accettati solo dagli immigrati.
Tutto incontrovertibilmente vero.
Però, è altrettanto incontrovertibile che, in piena crisi, da un Ministro del lavoro mi aspetterei un’osservazione meno qualunquista del choosy quale unica etichetta per i giovani italiani considerati in blocco.
Come sottolineato in apertura, la Chiarissima Professoressa ha impiegato il termine anglosassone e non quello italiano perché, in fondo, sa benissimo che, per tanti, per troppi, non c’è scelta.
Non si può scegliere e se non si può scegliere significa che non c’è varietà. È questa un’assenza che implica mancanza di confronto, di dialogo, di crescita.
Questo è sinonimo di stallo.
In un tempo tanto lontano e tanto, tanto, tanto diverso, al suddito schizzinoso, in luogo del pane mancante, avrebbero consigliato di mangiare brioches.
Poiché quello è un tempo passato, guardando al presente, mi chiedo: ma è il cittadino-commensale ad essere schizzinoso o sono le Istituzioni-chef ad aver sbagliato gli ingredienti ed i tempi di cottura?

Giuseppina Meola

TUTTI I COSTI DEI CONSIGLI REGIONALI – Quanto pesano al cittadino

Ecco quanto ci costano i Consigli Regionali, Regione per Regione

A cura di Carlo Manzo

Lazio ma non solo, anche Sicilia, Sardegna e Lombardia fra le Regioni più sprecone. Tra indennità (stipendi dei consiglieri inclusi rimborsi spese, assicurazioni, benefit) vitalizi, somme destinate ai gruppi consiliari e spese per il personale, ecco quanto pesa, regione per regione, la macchina del Consiglio Regionale

THE GAY AFTER, ovvero la differenza fra scopare ed avere uno scopo – Enrico Maria Troisi

Lo psichiatra Enrico Maria Troisi

 

Doc3, Rai3, “Prima di tutto” (in ultima serata!?), documento del 19.9 su una famiglia gay che risale la china della conquista del diritto di cittadinanza grazie alla disobbedienza civile di tanti uomini e donne italiani. La salute ed il sorriso di due figli, e il loro diventare uomini, questo era/è l’unico scopo della coppia, oltre alla realizzazione di se stessa. Guardavo, con invidia e nostalgia la coppia e i due figli, avuti dall’utero di una splendida statunitense, coniugata e già mamma, ma, nello stesso tempo, ero attraversato da una profonda inquietudine. Quella di essermi lasciato convincere a non avere più pregiudizi, ora che valori e schemi tradizionali sembrano solo stereotipi. devo provare a falsificare la prova che quella improbabilitá sia normale, come testimoniato dal film. Solo così la considererò un dato incontrovertibile. Per esempio, la coppia gay del documentario è sufficientemente ricca e colta, ha una cospicua rete di fiducia e due famiglie benestanti alle spalle, con regole tradizionali ma senza riserve. Cioè, se puoi contare su danaro, cultura, amici e una robusta famiglia, puoi rovesciare il tavolo. Sennò sarai perlomeno malamente discriminato. Ma queste sarebbero anche le variabili che condizionano la vita di una famiglia tradizionale. Quindi potrebbe essere la poca e maldistribuita ricchezza, materiale e non, a determinare l’anomalia di un’unione gay con figli? In un epoca in cui le differenze di ruolo, sesso ed età tendono ad annullarsi mentre quelle economiche vengono magnificate, parrebbe proprio di sì.

Enrico Maria Troisi

I FIORI INNOCENTI DELL’INVERNO – Salvatore Maresca Serra

Salvatore Maresca Serra

TEOCRAZIA O RATIOCRAZIA – EDITORIALE

Quando parliamo di comunicazione globale ci accade di immaginare prevalentemente il globo usufruttuario del progresso, beneficiario della portata, con tutti i suoi popoli, priva d’ogni barriera, quindi libera: con una parola ancora in uso “moderna”. Dimentichiamo spesso (troppo), noi occidentali e tecnologici, proiettati verso la natività digitale, che la nostra post-modernità convive con il corso storico di altre civiltà, globalizzate di fatto ma ancorate a ben altra globalità: la teocrazia.

I  FIORI  INNOCENTI  DELL’INVERNO

Quando parliamo di comunicazione globale ci accade di immaginare prevalentemente il globo usufruttuario del progresso, beneficiario della portata, con tutti i suoi popoli, priva d’ogni barriera, quindi libera: con una parola ancora in uso “moderna”. Dimentichiamo spesso (troppo), noi occidentali e tecnologici, proiettati verso la natività digitale, che la nostra post-modernità convive con il corso storico di altre civiltà, globalizzate di fatto ma ancorate a ben altra globalità: la teocrazia. Accade che il nostro dio è morto, ma lo abbiamo dimenticato nel coma farmacologico a cui lo abbiamo sottoposto, secolarrizzandolo e relativizzandolo, mentre il dio altrui è bello che vivo: sente, reagisce, presenzia la storia e v’interagisce, è capace di motivare ardentemente anche il supremo sacrificio, la vita, e attende i suoi figli martiri nel paradiso con la sua riconoscenza tangibile. Noi non ci scandalizziamo più di niente, chi ha un dio vivo sì. Noi siamo in un corpo inscalfibile perché morto agli dèi e rinato alla neodèa Ragione rivoluzionaria, non abbiamo quindi più il divino dietro o dentro le istituzioni civili, stati e rupubbliche e leggi. Non c’indigniamo neanche se il nostro comatoso dio viene fatto accoppiare e riprodurre biologicamente, o se viene tentato per l’ultima volta sulla croce, o se diventa una pop star in una commedia rock. E, in ogni caso, quello che resta nel laico del religioso è solo un dio d’amore supremo, che si offre al martirio e alla morte di croce, e che predica insegnando la non violenza perché il suo regno ultramondano vale di più di questo, ammesso che (questo) non sia solo il regno della corruzione del pensiero forte, quindi, nel post-moderno, diventato filosoficamente debole per forza di cose. Le nostre verità vacillano ormai da una sponda all’altra della logica come risposta fisiologica agli assoluti mendaci di un passato sorpassato. L’emancipazione dalla fede ci ha resi credenti neopagani, e così i nostri miti sono nostri contemporanei, possiamo ascoltarli ai concerti e magari strappargli un autografo, possiamo addirittura ancora e nuovamente anche accoppiarci, con questi dèi di un olimpo patinato, markettizato, in vendita. Senza dimenticare che il primo dio posto in vendita nell’occidente è stato precipuamente quello che concedeva indulgenze e perdono a pagamento, nell’enorme operazione di marketing di Leone X e dei frati domenicani. A nulla sono valse le proteste e le tesi di Wittenberg: ormai la vendita era irreversibile. Ciò ci ha resi tutti in vendita: puttane ansiose pronte al miglior offerente,  che ha il suo nome nel “profitto”, e la sua identità nella reificazione. E, di profitto in profitto, abbiamo incorporato nel nostro corpo debole le moschee di un dio vivo, le sue comunità di fedeli, le sue culture e subculture sfaccettate, il suo petrolio-sangue indispensabile, abbiamo anche rimosso dalle scuole il nostro povero dio crocifisso, quando ci è stato detto che tenerlo appeso costituiva un atto antipluralistico. Noi occidentali siamo sempre più riproiettati nell’imitazione dell’impero romano: lasciamo convivere le religioni e le culture e gli uomini senza volerli deformare, non c’interessa farlo, e poi perché, cui prodest? Basta che paghino le tasse, siamo protesi a dargli cittadinanza, a immetterli nel corpo civile, a occidentalizzarli depotenziandoli con i diritti, i piaceri industriali, l’infinità dei desideri pubblicitari, e dulcis in fundo con la professione di fede democratica: il libero pensiero.

Noi siamo laici. Pluralisti. Democratici. Liberi.

Ma siamo certi che tutta questa libertà gl’interessi davvero? Siamo altrettanto certi che il loro dio o il loro profeta siano entrambi inclini a prostituirsi anch’essi? Oppure, siamo in condizione di offrirgli una vera libertà? Di esemplificarla? E poi: cos’è la libertà?

Quindi se il mondo multietnico che abbiamo teorizzato con la globalizzazione ci si rivolterà in pancia, con la Medea di Seneca, dovremo dirla tutta: cui prodest scelus, is fecit…

Nel mio romanzo d’esordio – Il Costruttore di Specchi – in uscita l’anno prossimo, ho trattato della comunicazione di massa, della rete, delle religioni, delle verità contrapposte tra esse. Così ho posto una serie di domande a me stesso e al lettore, e tutte vertono su una sola cosa: l’equilibrio del mondo contemporaneo. Quanto è forte? Quanto è fragile? In quanto tempo può modificarsi? In relazione alla comunicazione globale, ho intravisto scenari nei quali le guerre acquisiscono nuove e impensabili armi come un semplice piccì e una connessione internet, a patto che li si sappia usare. Le risposte probabili a questi nodi sono sotto gli occhi di tutti: sono i fatti e non le idee. L’ideazione la fa il mondo, nel suo proprio caos perfetto. Produce fatti alla velocità digitale. E ne conserva all’infinito la memoria, almeno fino a che i server resteranno in vita. Perché di vita si tratta. In un passaggio della trama ho sfiorato anche la profezia Maya. Mi sono chiesto se le condizioni dell’estinzione della specie umana, la più predatrice e assasina di tutte, siano più presenti oggi che in precedenti periodi storici. Al di là delle condizioni cosmiche, delle catastrofi naturali, e del destino dei calendari, caduti nelle mani dei gesuiti. I fatti di questi giorni sembrano indicare che le condizioni per una guerra globale ci sono tutte. Affatto, il progresso tecnologico ha percorso una serie di avanzamenti segmentati ognuno con una sua comune stimmata: il disinteresse verso le multiple implicazioni. Gli effetti della globalizzazione asincroni, la discrasia sistemica dei vecchi poteri inoculata dalla nuova consapevolezza della comunicazione di massa, tra le culture mondiali, tutti gli elementi indispensabili ad uno squilibrio che si pone nella genesi della nuova comunicazione-partecipazione interattive: essi sono gli elementi. È normale che gli elementi vi siano, là quando e dove nasce una nuova cultura del comunicare. Un bigbang dello stare insieme. Insieme nella stessa stanza del mondo: la propria, seduti davanti ad un computer che contiene l’intero mondo.

Ma ormai è obsolescenza anche la stanza. Le guerre si fanno coi telefonini di nuova generazione, camminando, fotografando per tutti, filmando, scrivendo, comunicando.

Se c’è un paradosso lampante è che non siamo affatto nella babele, ma di contro in un linguaggio universale. Ognuno capisce perfettamente il sublinguaggio dell’altro. Ognuno spia le debolezze del sistema altrui. Ognuno cerca di controllarle e metterle a frutto.

È storia di adesso.

La storia di un video che ha compromesso definitivamente la potenzialità di specchiarci gli uni negli altri. Gli specchi si sono rotti. Il progresso si è frammentato in due schegge precise. La dualità riemerge. È il momento dell’assoluto. L’assoluto è forte. Manca di autocritica, e la sua forza – da sempre – è questa. Il divino – nella sua cronica condizione pre-storica – è preistorico. Non ragiona perché la dea Ragione non la conosce. Il divino uccide. Il divino condanna senza appello. Il divino ha ancora un popolo, e non siamo noi.

Non verrà quest’anno la fine del mondo? Chi può dirlo? Non verrà, ne sono certo. Ma le condizioni le abbiamo create noi, e sono lì, tutte pronte per usarle. Se i gesuiti incendiarono o inquinarono ogni possibile residuo delle conoscenze Maya, una cosa – anche senza la speculazione new-age – ci è giunta. E non ci piace.

Non siamo preparati a lottare contro un dio. Non lo saremmo mai. Certo, abbiamo ghigliottinato l’ancien régime con la nostra dea Ragione per procedere poi ad affermare libertà, fraternità e uguaglianza. Ancor prima i papi hanno riconquistato il santo sepolcro strappandolo con la guerra giusta di Agostino agli “orribili musulmani”. E, tra santa e giusta, ci è sembrato che fosse la giustizia ad uscirne vittoriosa. Abbiamo anche assegnato una patria a Sion, prima durante e dopo la shoah. La nostra sentinella, il nostro avamposto nel mondo di Maometto. L’abbiamo dotata di termonucleari. Abbiamo puntualmente derubricato ogni sua inadempienza ai trattati ONU territoriali con la Palestina. Abbiamo così forse parteggiato per il dio degli eserciti, ma il sincretismo religioso ci è sembrato una soluzione ideale per affermare con Giovanni Paolo II che, in fondo, Dio è Uno. Soltanto uno. Gli immensi e indecodificabili intrecci dei capitali ebraici non ci sono sembrati mai nemici, e nel nostro immaginario l’escalation nucleare bellica di Israele non ci ha mai visti veramente turbati, a differenza di quella iraniana, o della presunta e posticcia irachena; entrambe minacce insopportabili che hanno turbato e turbano i popoli a cui apparteniamo. Avevamo un trattato di non proliferazione nucleare che ci metteva al riparo. Credevamo. E, se non bastava, le false prove di Tony Blair ci hanno permesso di rimuovere il dittatore Saddam Hussein e di bombardare democrazia intelligente come pacco regalo ai civili. Se guardiamo attentamente l’Iraq di allora e quello di oggi, i risultati civili sono lampanti. La difficoltà connaturata alla nascita e crescita della democrazia ci fa dire che poi, tutto sommato, se scoppiano ogni santo giorno i corpi e le vite di centinaia d’innocenti è tutto sotto controllo, tutto regolare, storico, plausibile, giusto, il prezzo è giusto. È sempre la dea Ragione che ci anima e ci esenta dal poter anche pensare che ogni cultura forse trova il suo naturale equilibrio da sola. E che, forse, la nostra valorosa  e sanguinaria democrazia ha solo dato la stura a infinite e interminabili lotte tra etnie e fedi e politiche diverse, che nella libertà hanno trovato il loro campo aperto di battaglia. Ormai non riusciamo più a tenere il conto dei morti, mentre non ci sfugge mai quello dei nostri soldati, che abbiamo mandato lì per istruire sul posto alla pace, al non confliggere, alla stabilità della politica, alla cultura delle elezioni e dei governi autonomi democratici. In Afghanistan abbiamo cercato in lungo e in largo Osama Bin Laden, con azioni militari degne di un film di fantascienza, penetrando finanche il sottosuolo e le caverne con le nostre bombe magnifiche e magnificenti. Mentre i droni hanno dimostrato tutta la loro impagabile intelligenza sterminando decine di migliaia di civili d’ogni età. Abbiamo isolato i talebani rendendoli inoffensivi politicamente. Abbiamo posto alla presidenza un uomo pulito e fuori da ogni logica del crimine… Se non siamo del tutto riusciti a smantellare le coltivazioni dell’oppio, forse è perché abbiamo una forma di partecipazione umana al dramma economico di quei poveri contadini, o chissà, forse ci saranno altre ragioni. Ragioni, ragioni, ragioni. Sono tutte ragioni. Abbiamo ragione, sì: noi abbiamo sempre ragione. I torti non sono mai i nostri. Basterebbe leggere anche superficialmente Noam Chomsky per rendersene conto. Se anche è stato un insuccesso il nostro in Afghanistan, con migliaia di nostri concittadini giovani soldati, a volte rimasti uccisi, da sporadici attentati, ci siamo tolti gli schiaffi dalla faccia quando Osama lo abbiamo preso, ammazzato a casa sua, sbattuto sulle pagine dei giornali di tutto il mondo e sulla rete di tutti. La Ragione ci ha dato ancora una volta ragione. Ad libitum, ancora “forse”. E, se tutto si compie in stagioni pre-elettorali o elettorali, neanche ci sogniamo di analizzarle, le ragioni. Sogniamo d’essere fatti della stessa sostanza della realtà, scriverebbe oggi in una nuova tempesta William Sheakspeare. E avrebbe anch’egli ancora ragione. Netanyahu minaccia Obama di spostare i voti degli ebrei nell’Ohio e in Florida a Romney se non scenderà affianco ad Israele in guerra all’Iran? Questo potrebbe farci ipotizzare che dietro il filmaccio che insulta Maometto vi possa essere una strategia compulsiva a latere ebraica anti-islamica, e che potrebbe anche essere concordata con Romney? Sono “ragioni” queste?, mi domando. E perché dovrebbero interessarci più di tanto? Non è forse dotata di automatismo asettico e impersonale la Ragione che “anima” noi occidentali? Abbiamo questione etiche che ci tolgono il sonno? Abbiamo capacità di scegliere concrete? Noi, per esempio italiani, abbiamo avuto qualche chance di scelta per l’avvento di un governo di tecnici?, e di un presidente del consiglio che proviene da Bilderberg – http://www.bilderbergmeetings.org/index.php, Goldmann Sachs – http://www.goldmansachs.com/, Trilateral – http://www.trilaterale.it/, Moody’s – http://www.moodys.com/ e chi più ne ha ne metta? La ragione dovrebbe fornirci una risposta: infatti è “No!” Ma quanto è razionale questa risposta? Quanto è democraticamente plausibile che un presidente della repubblica che occulta i suoi dialoghi con un indagato, e sospettato da molti di mafia può anche decidere chi deve governare il paese? Ed è accettabile? Se non gli interessa lasciare in eredità ai suoi successori un fulgido esempio di trasparenza, ci domandiamo perché – se tanto gli sta a cuore la democrazia quella vera – vuole lasciare tutto il suo conflitto di competenza, invece? Troppo potere ai magistrati impegnati nella lotta alla Mafia? Isolarli ancora di più è democraticamente corretto? Non coincide forse col deprivarli d’ogni scudo delle istituzioni dello stato? E perché il presidente minimizza enfaticamente il boom del Movimento 5 Stelle? Non è forse il fenomeno più interessante e problematico che emerge nel paese? Un presidente della repubblica italiana non dovrebbe essere invece un acuto osservatore e ratificatore delle realtà che si fanno strada dal basso verso la politica? Non dovrebbe non perdere mai l’occasione d’essere il primo a prenderne atto in nome di tutti i cittadini? In nome della Storia? E non dovrebbero i nostri media centrare – visto che sono veramente bravi – il vortice attorno a cui si rende possibile il fenomeno Grillo? Non è forse la rete e la comunicazione globale quel medium affrancato dalla istuzionalizzazione data dalla televisione ai fatti che dovrebbe farci toccare con mano che, quando si parla di rinnovamento, bisogna non uscire mai nel ragionare dal “del veicolo oltre che della sostanza”? Non potrebbe essere che solo chi ha in mano e tiene stretto il veicolo mondiale nuovo della partecipazione può avere un futuro, da qui a qualche breve anno? E questo non dovrebbe determinare una nuova consapevolezza anche nei partiti e nei media dell’establishment mainstream? E, da qui a qualche anno, non saranno forse defunti realmente quelli di cui Beppe Grillo dice “vi seppelliremo”, con la loro clientela storica? Siamo troppo vecchi per scorgere il nuovo del rinnovamento, in Italia? Probabilmente, chi dovrebbe accusare il dovere (ché così accade coi doveri) verso se stesso e i suoi elettori di cavalcare l’onda del vero rinnovamento parla di rottamare senza sapere di cosa parla. Non sono stati i trasportati dai carri, ma le ruote la grande rivoluzione del genere umano, perché potevano salirci tutti, sulle ruote. La ruota contemporanea è destinata a far girare il mondo intero, come abbiamo visto. E si chiama internet. Può creare una democrazia liquida? Voi che dite? Diretta? Voi che dite? È così difficile fare una previsione a breve? La “maledetta primavera che fretta c’era” scritta da molti su Twitter di cinque giorni fa, primavera o non primavera, non si è affermata nella e con la rete e con i cellulari? Allora, al di là della sostanza, quanto vale la nuova ruota?  Le prime elezioni di Obama, e quelle di adesso, dove corrono?, sui fili del telegrafo? E non è stato il petrolio a cambiare il mondo dal secolo scorso in pochi anni definitivamente?

Non ragionare della tecnologia, non investire nella ricerca, non curare la scuola pubblica significa trascinare un popolo nella stessa propria morte cerebrale. Quello che ha fatto l’ultimo governo Berlusconi agli italiani vale esattamente in termini negativi: dobbiamo interrogarci sulla quantificazione oggettiva del valore di ciò che Berlusconi non ha fatto in questi anni. Ed è presto fatta la stima: la risposta è la posizione dell’Italia nell’Europa, con un governo di tecnici. In parole povere, il massimo possibile del peggio che Berlusconi e la sua inconsapevole (ma non incolpevole) ignoranza ha prodotto. Quella stessa che gli fa pronunciare goo-gle al posto di gu-gh-l…

La stessa inaccettabile ignoranza muove Mario Monti verso l’attacco allo statuto dei lavoratori. Anche qui la questione resta la pronuncia dei nomi: statuto dei lavoratori ha un suono civile, sanguinoso, storico, patriottico, italiano-puro in assoluto; per Mario Monti statuto dei lavoratori ha un suono cachettico da prolasso neuronale, amorale e immorale al contempo, sordido e subdolo come tutte le cose che pronuncia, anche sorpassando Berlusconi nella cacofonia etica di un italiano-spurio senza patria e storia. E, se abbiamo un governo senza storia né patria, che storia è questa? Dobbiamo chiederlo a Napolitano? Ad ABC? O piuttosto non possiamo domandarlo al nostro cuore ché alla Ragione? Quanto populismo vi è stato nell’inneggiare a un presidente non politico? Molti hanno ravvisato in questo uno slancio civile di onestà perché super partes. Li ho visti, li ho ascoltati per strada, nei luoghi che frequento, ovunque. Erano prevalentemente persone di mezza età, o anziani, dicevano in coro “sa il fatto suo”, “è uno onesto”, “basta politici, ci voleva Monti”, “un dono dell’onestà di Napolitano al Paese”… Ma ora siamo al redde rationem, e i dati ci dicono cosa ha fatto Monti per noi tutti, questa volta chiediamo alla ragione.

Ognuno può e deve rispondersi, ma non con un cor duplex.

Monti è super partes?… O non piuttosto è super partners?… I suoi naturali partners, per colpa o per ignoranza, siamo noi. I cittadini. Ripeto: la Ragione nel nostro mondo è solo un automatismo. Non ci vede protagonisti. Non abbastanza da sopravvivere ai soprusi. Non abbastanza da avere anche noi un dio che ci fa scendere in piazza e fare la rivoluzione. Magari un dio non preistorico, ma dentro la storia. Lo stato, per molti, è una entità distinta dalla nostra, con soluzione di continuità. Perché la soluzione è stata resa troppo facile, e quel po’ di benessere che ci hanno fatto introiettare si è reso efficace per rinunciare nonsolo all’identità, ma al pensiero. Si sa: i cani alle mense dei potenti non pensano: aspettano solo quell’osso a cui attribuiscono anche funzioni taumaturgiche che gli verrà lanciato, tra oscene risate, nell’orgia del baccanale politico. E siamo all’osso ormai. E, molti tra noi, sono stati cani. Molti ancora lo sono e lo resteranno.

Se c’è una menzogna è giudicare populista la ribellione del cittadino. La sua voce che si vuol far passare per isterica, per demenziale, per comica o capocomica o capofallica. Va da sé che siamo tutti teste di cazzo per i potenti, e da tali ci trattano. Quando la Merkel e Monti, come un suono e una meccanica eco, dicono “c’è il pericolo di nuovi populismi e disgregazioni nell’Europa”, stanno dicendo “guardate, che c’è il pericolo che le teste di cazzo si sveglino, che comincino davvero a ragionare, perché gli ossi stanno finendo, e questi vanno verso il potere”…

Grillo e Berlusconi sono come la Terra e la Luna. Grillo raccoglie da terra quello il senno di Berlusconi, nell’ampolla sulla Luna, ha seminato gettandolo. I cittadini morti-macerati nella terra ora fioriscono, e danno frutti. Sono semi figli d’altri semi gettati da sempre perché non valgono nulla per il politico medio. La politica non può permettersi programmi e ideazioni lungimiranti, la società civile sì! Se Monti e Casini e Fini e altri s’inventano un nuovo degasperismo e si riempiono la bocca di statismo, di una attenzione alle nuove genrazioni, è solo perché non vedono che le nuove generazioni sono già qui. Non potrebbero: la sete di potere li rende ciechi, stolti, inutili, dannosi, perniciosi, ottusi, idioti. Sine baculo. Il solo potere che gli rimane si regge solo su se stesso, nel palazzaccio che dice Renzi, sfortunatello, ma che non distingue dalla sua casa. E se si rivolge ai mentecatti-delusi di Berlusconi è perché attua un autentico neopopulismo nel definirsi “giovane”. Renzi ha perso il suo treno: non sarà mai giovane quanto lo è la storia. Perché finge di non vederla. Lo dico con simpatia, ma in realtà dico la cosa peggiore che posso perché non posso altro: fingere e peggiore ch’essere davvero ciechi. Il sogno di Renzi è essere qualcuno. E chi sogna questo è perché sente di non esserlo, e profondamente. Chi oggi “è” non ambisce ad una società verticale. La piramide lascia il posto ad uno scenario liquido, paritario e paritetico alla sua propria interscambiabilità e al suo rinnovarsi di continuo. È tardi per tornare indietro, anche per Renzi che proclama il mandato dei cittadini nella politica limitato. Ma sa bene che le sue ambizioni sono lungimiranti, se in realtà non fossero anacronistiche. Quando dico “sfortunatello” non è per dileggiarlo, ma perché appartiene ad un mondo in disfacimento. Ed è tardi per tornare indietro. Se anche ce la facesse, se raccoglierà il consenso che merita la sua intelligenza, o la sua furbizia, la sua problematica diventerebbe insopportabile. Il partito ritorna ab ovo usque ad mala. E mi sembra che siamo alla frutta. Quelli che sopravviveranno saranno sauri nei musei di scienze naturali del giurassico, da qui a poco. La sola forma futuribile è il movimento delle opinioni. Le strutture partitiche piramidali, i dirigenti, i moduli molecolari dell’architettura gerarchica territoriale, dal basso all’alto e viceversa sono fantasmi per buona metà o tre quarti. L’opinione in rete li scardinerà del tutto: frammenti di un passato obsoleto.

Avremo sempre più rapidamente un contrapporsi di obsolescenze paradossali nel mondo. Superata e a-funzionale sarà la democrazia come l’abbiamo immaginata finora. Le sue anime conservatrici repubblicane o la destra, quelle progressiste o la sinistra con tutta probabilità e in breve si ritroveranno disarticolate da una società civile a cui non interessa minimamente né stare a destra né a sinistra, e che – dove c’è ancora – ha capitalizzato già da tempo la fregatura del centro.

Il paradosso emergerà dal contrasto stridente tra un mondo evoluto e democratico e un altro che giudichiamo medievale, perché fanatico, teocratico, che ignora del tutto la libertà, i diritti, la secolarizzazione del clero, lo stato laico. E quindi la nostra dea Ragione. Eppure il loro dio cammina nuovamente su gambe giovani, e forse, per questo, “innocenti”.

E la loro primavera non a caso rischia di fiorire in inverno, il nostro inverno.

E non è quella che avevamo immaginato.

Salvatore Maresca Serra – Roma, 17 Settembre 2012

ASPETTO IL SOLE – Maria Pia Monicelli

Aspetto il sole

Mi ritrovo in un gioco all’abbaglio, un diversivo per gli dei, gli stessi che demolimmo addobbati da giganti.

La giostra nuova reclama cavalieri adusi al luccichio dei ferri e non dei lustrini che mascherano bombe.

Aspetto il sole!

La maschera di latta si scioglie al sole cocente della verità e non sotto la luce fredda della retorica.

Siamo una società asociale, un nucleo frammentato di gente votata alla sodomia.

Ci piace gracchiare come cornacchie ma al primo ostacolo vero diventiamo struzzi addormentati.

La mia impotenza reclama una breccia. I miei ideali, le mie ragioni, devono uscire, volare insieme a quelle di altri candidati all’utopia, fuori da questa gabbia di matti! Fuori dal delirio di onnipotenza di una classe dirigente del nulla.

Non sono votata al suicidio e grazie ad un pizzico di follia neanche ad essere il bullone di una macchina da guerra. Non mi piace l’isolamento ma neanche essere parte di una folla assente: sono un essere umano!

Potrei svegliarmi come un automa, mettermi in fila all’idiozia che supera ogni cattiveria, o morire da aliena caduta su questo suolo inquinato dove la salvezza appartiene soltanto ai morti. Alla prossima alba, me ne renderò conto, intanto annaffio l’unica piantina rimasta sul balcone e aspetto il sole.

Maria Pia Monicelli

PAPE SATAN, PAPE SATAN “ALEPPO” – Enrico Maria Troisi

PAPE SATAN, PAPE SATAN “ALEPPO”.
Ho preso in prestito deformandole, le famose parole pronunciate all’indirizzo di Virgilio e Dante da Pluto, guardiano del quarto cerchio nel Canto VII della Commedia, : “Pape Satàn, pape Satàn aleppe”. Secondo una delle tante interpretazioni la frase, molto oscura, potrebbe derivare dall’Arabo. Abbūd Abū Rāshid, primo traduttore arabo della Divina Commedia interpretò questi versi come la trasformazione fonetica di una espressione araba, traducendoli in arabo come Bāb al-shaytān. Bāb al-shaytān. Ahlibu (“La porta di Satana. La porta di Satana. Proseguite nella discesa”). I versi pronunciati successivamente da Virgilio in risposta alla oscura minaccia del Guardiano, tendono a rassicurare l’ormai terrorizzato Dante: Non ti noccia / la tua paura; ché, poder ch’elli abbia / non ci torrà lo scender questa roccia. Il richiamo all’inferno della guerra civile in Siria mi è sembrato perfetto. La Commedia sembra calzar bene ad Assad e a pennello per i Ribelli. Pluto incita, sfida i Poeti ad affrontare il terrore e Virgilio esorta ancora Dante al coraggio. Mi ha colpito la determinazione del tiranno Assad nell’ordinare la distruzione della sua gente e della sua terra, e la forza, altrettanto cieca, che ne ha ricavato il popolo in rivolta. Tutto in Siria finisce, davanti ai nostri occhi, in una colossale ed irrefrenabile autodigestione. Diceva Alfieri che “…Nelle repubbliche vere amavano i cittadini prima la patria, poi la famiglia, quindi sè stessi: nelle tirannidi all’incontro, sempre si ama la propria esistenza sopra ogni cosa…(De La Tiranide)”. Se le idee camminano sulle gambe degli uomini, è forse lo smisurato amore per sé che spinge Assad ad ordinare il massacro indiscriminato della sua gente, pur sapendo che non c’è alcun futuro per il suo regime, ma soprattutto per sè. Ed allora l’amore si converte in odio. Ma altrettanto, i combattenti sono animati da un desiderio di autodistruzione che si afferma sfruttando la catena di trasmissione della vendetta, e non si giustifica con la conquista di diritti negati, di legalità, di democrazia. Tutta questa autodistruttività azzera le gerarchie familiari e calpesta la morale: non ci sono bambini da risparmiare, o giovani o donne o anziani. Ovunque cadono tonnellate di esplosivo e si consumano stragi. Ragioni geo-strategiche impediscono ai soliti sceriffi di intervenire, mentre L’Europa è distratta da una guerra finanziaria senza precedenti, l’ONU è del tutto impotente, Papi e Ayatollah non riescono a tappare ll vaso di Pandora, nè invocano più la pace. Questa mi sembra una guerra civile diversa dalle altre. Più morbosa, più “sacrificale”, più “emotiva”, meno “tattica”, totale. La rete e i filmati catturati qua e là testimoniano di una carneficina senza logica se non quella della distruzione come fine, non come mezzo. Cosa accadrà ancora varcata la porta…?

Enrico Maria Troisi

E’ morto Jon Lord dei Deep Purple L’alchimista “classico” dell’hard rock

Affetto da un tumore al pancreas, il musicista è spirato a Londra per embolia polmonare. Dietro di sé lascia una band leggendaria, una hit eterna come Smoke On The Water e l’unicità di un suono permeato di durezza e classicità
di PAOLO GALLORI

LONDRA – All’età di 71 anni è morto Jon Lord, co-fondatore e tastierista dei Deep Purple. La notizia è apparsa sul sito ufficiale del musicista, dove “con profonda tristezza” si annuncia che Jon Lord, colpito da embolia polmonare, è spirato alla London Clinic, circondato dall’amore della sua famiglia, dopo una lunga battaglia contro un tumore al pancreas.

L’ennesimo lutto di un 2012 terribile per la musica, che colpisce in particolare la grande comunità degli appassionati di hard rock ed heavy metal, milioni in tutto il mondo, per il quale Jon Lord resterà per sempre uno degli autori di Smoke On The Water, il brano più conosciuto dei Deep Purple, sul cui giro di accordi hanno mosso i primi passi tantissimi musicisti in erba. Ma se la firma di Lord campeggia su gran parte del repertorio della band, il suo contributo va ben oltre l’aspetto puramente compositivo.

A Lord si deve infatti la prima e più riuscita commistione tra hard rock e venature classiche, tra chitarre elettriche ruggenti, drumming pesante e coloriture d’organo hammond, di cui Jon era autentico maestro. Un lavoro sublimato nel celebre Concerto for Group & Orchestra presentato per la prima volta nel 1969 alla Royal Albert Hall di Londra, i Deep Purple sul palco assieme alla Royal Philharmonic Orchestra diretta dal maestro Malcolm Arnold. Esperienza ripetuta nel 1999, ancora nel celebre teatro londinese, tre anni prima che Jon Lord desse definitivamente l’addio ai Deep Purple, sfiancati dall’età e da innumerevoli cambi di formazione.

Nato nel 1941 a Leicester, figlio di musicisti, Jon Douglas Lord prese lezioni di pianoforte sin dalla tenera età e, forte di questo bagaglio, si trasferì a Londra nel 1960. In una Inghilterra sempre più affascinata dal blues e dal jazz, pronta a produrre una scena matura, da cui nel seguito del decennio sarebbero scaturiti i Rolling Stones come i Cream, i Led Zeppelin, sarebbe diventato qualcuno Jimi Hendrix e sarebbero passati tutti i grandi del blues revival, Jon Lord non faticò a ritagliarsi uno spazio in una lunga serie di band, accumulando esperienza e conoscenze. Finché, nel 1968, dall’incontro con il chitarrista Ritchie Blackmoore, non scaturì la scintilla creativa all’origine dei Deep Purple.

La prima formazione contava anche sul cantante Rod Evans, sul bassista Nick Simper e sul batterista Ian Paice. Shades Of Deep Purple l’album debutto di una line-up destinata a mutare nel suono, inizialmente orientato verso il pop, e nella personalità. Dopo il terzo, omonimo album, al posto di Simper e Evans arrivarono il cantante Ian Gillan e il bassista Roger Glover, a comporre la formazione dei Deep Purple più amata dai fan. Anche la più ambiziosa, dedita a canzoni dalla struttura complessa e connotata dalle influenze classiche di Lord.

Un suono che raggiunge l’apice con il gran lavoro di Jon Lord per il concerto con la Royal Philarmonic Orchestra. Impresa all’epoca poco apprezzata dalla critica, il che consegnò a Blackmoore la direzione artistica dei Deep Purple. La band si ritrovò così proiettata verso un guitar rock esaltato dalle incredibili altezze della voce di Ian Gillan, una formula destinata al grande successo commerciale, a cominciare dall’album Fireball del 1971.

I Deep Purple avrebbero dovuto registrarne il seguito al Casino di Montreux, in Svizzera, ma un incendio scoppiato nel locale durante un concerto di Frank Zappa sconvolse i suoi piani. In compenso, l’accaduto ispirò Smoke On The Water, la gemma più luminosa dell’album Machine Head, con cui la band entrò a tutti gli effetti nell’elite del rock, status consolidato con Who Do We Think We Are nel 1973.

Ma fu proprio a quel punto che nei Deep Purple iniziarono le divergenze di vedute che avrebbero portato a continue, quasi cicliche rivoluzioni d’organico, con la fuga di Gillan e Glover, rimpiazzati da David Coverdale e Glenn Hughes.

Pur costretto a piegarsi alla dittatura delle chitarre, Jon Lord riuscì comunque a marchiare il sound della band, rivelando alla crescente comunità rock uno stile destinato a rivalutazioni a posteriori e a influenzare altri grandi tastieristi, soprattutto nell’ambito del successivo prog-metal. Oltre a ispirare tante performance con orchestre classiche, quasi un must per ogni grande metal band.

Dal vivo, Jon Lord non nascose mai le sue radici musicali, inserendo in scaletta lunghe digressioni ispirate a Beethoven e Bach. Ma resteranno negli annali soprattutto le sue partiture d’organo Hammond, “esplose” attraverso un classico amplificatore Marshall per chitarra. L’ingrediente segreto dietro l’unicità del suono rock dei Deep Purple, Jon Lord il suo alchimista.

 

FRANCIA: STOP TORINO-LIONE

Tav, la Francia ci ripensa: «Stop Torino-Lione»

La Francia intende riesaminare ed eventualmente rinunciare a dieci progetti di linee ferroviarie ad alta velocità, tra cui la Torino-Lione. E’ il ministro del Bilancio Cahuzac a dire che «lo Stato ha previsto una serie di progetti senza averne fissato i finanziamenti. Il governo non avrà altra scelta che rinunciare ad alcune opzioni».

12 Luglio 2012

La Francia intende riesaminare ed eventualmente rinunciare a dieci progetti di linee ferroviarie ad alta velocità, tra cui la Torino-Lione: è quanto riporta il Le Figaro. «Lo Stato ha previsto una serie di progetti senza averne fissato i finanziamenti. Il governo non avrà altra scelta che rinunciare ad alcune opzioni», ha dichiarato il ministro del bilancio, Jerome Cahuzac. Secondo il quotidiano, sotto esame anche la Torino Lione, a causa del costo elevato (12 miliardi) e del calo del traffico merci.

Nella hit-parade delle linee ad alta velocità minacciate dai tagli della crisi, ci sono – tra l’altro – la Nizza-Marsiglia e la Torino-Lione, scrive ancora Le Figaro. In particolare, aggiunge il quotidiano, quest’ultima sarebbe «squalificatà per il suo costo (12 miliardi di euro)». Ma anche dal calo registrato nel «trasporto merci, sceso a quattro milioni di tonnellate su quella tratta, contro gli undici milioni di tonnellate vent’anni fa, non gioca a favore di quel progetto».

SOVRANITA’ DEL BILANCIO e FISCAL COMPACT

 

Di fronte alla crisi dei debiti sovrani l’Europa ha reagito imponendo regole più severe per evitare comportamenti che possono generare un ulteriore indebitamento. I vincoli di Maastricht e del Patto di Stabilità vengono infatti ulteriormente rafforzati dal c.d. fiscal compact, che richiede che il saldo di bilancio strutturale – ossia al netto dell’andamento del ciclo – non debba superare lo 0,5% del Pil, mentre la distanza fra la quota del debito sul Pil e il 60% deve essere ridotta del 5% all’anno. Vengono poi definite, sempre nel fiscal compact, procedure di controllo e sanzioni per evitare che le regole previste non vengano osservate.

Primo passo
La giustificazione di fondo del fiscal compact risale evidentemente al crescente indebitamento degli stati membri dell’Unione europea. Oggi gli stati dell’eurozona hanno perso in larga misura anche la sovranità relativa alla formazione del bilancio, che deve essere sottoposto a un giudizio preventivo delle istituzioni europee. Se gli impegni assunti al momento della formazione del bilancio non vengono rispettati, le regole prevedono anche sanzioni e, in ultima istanza, un ricorso alla Corte europea di giustizia.

L’avvio di questa Unione di bilancio, fortemente voluta dalla Germania, rappresenta soltanto un primo passo in avanti verso la costruzione di una vera e propria Unione fiscale. E, in effetti, il pareggio di bilancio e la progressiva riduzione dello stock di debito non sono in grado di garantire, da un lato, un rilancio dell’economia europea e, d’altro lato, il rispetto delle regole istituzionali che devono caratterizzare una democrazia compiuta.

Se la ripresa dell’economia non può più fondarsi su un crescente indebitamento, vi è ormai una larga convergenza sul fatto che occorre lanciare in tempi brevi un piano europeo di sviluppo sostenibile, il cui punto centrale sembra essere l’individuazione di fonti di energia diverse dai combustibili fossili, per far fronte al problema dei cambiamenti climatici in primo luogo, ma anche per ridurre la dipendenza dell’Europa dalle importazioni di gas e di petrolio e per mettere a disposizione nuove fonti di energia per i paesi economicamente arretrati, in particolare del continente africano. Il perseguimento di questo obiettivo presuppone una massa ingente di investimenti pubblici, in primo luogo nella ricerca e nell’applicazione dei risultati della ricerca nella produzione di nuove fonti di energia pulita.

Lo strumento per favorire la transizione verso una nuova economia delle fonti di energia pulite è la carbon tax, ossia un’imposta europea che colpisca le diverse fonti sulla base sia del contenuto energetico, sia, e soprattutto, sulla base del contenuto di carbonio. Con la carbon tax il prezzo dei combustibili fossili aumenta in misura proporzionale alle esternalità negative provocate dal contenuto di carbonio, rendendo quindi conveniente il ricorso a fonti di energia alternative.

Tesoro europeo
Il finanziamento del piano farà aumentare la dimensione del bilancio europeo, che non dovrà comunque superare nel medio periodo il 2% del Pil. Ma questo aumento sarà compensato da una contrazione dei bilanci degli Stati membri, trasferendo all’Unione la competenza su spese (in particolare nel settore della difesa, della politica estera, della ricerca) che possono sfruttare le economie di scala possibili a livello europeo.

Il bilancio, finanziato con risorse proprie, dovrà essere gestito da un Tesoro europeo di natura federale, responsabile della realizzazione del piano di sviluppo sostenibile e del coordinamento della politica economica dei paesi membri. Una volta realizzata questa trasformazione istituzionale, appare quindi del tutto realistico prevedere l’istituzione di un ministro europeo del Tesoro, primo fondamentale pilastro di un governo europeo dell’economia.

In questa prospettiva il Consiglio europeo deve fissare da subito le diverse tappe e, soprattutto, la data finale che segnerà l’inizio del funzionamento dell’Unione fiscale. Ma un Tesoro europeo potrà operare con efficacia solo se ha consenso. Deve quindi essere soggetto al controllo democratico del Parlamento e agire nel quadro di un governo che sia rappresentativo della volontà popolare.

La decisione di procedere alla costruzione di un’Unione fiscale, con un Tesoro e una finanza federale, deve essere dunque accompagnata da una contestuale decisione che fissi la data per l’avvio della Federazione compiuta, che contempli in prospettiva anche una politica estera e della sicurezza europea.

Percorso a tappe
L’avvio di un piano europeo di sviluppo sostenibile deve essere inserito in un’evoluzione a tappe dall’Unione monetaria a una vera Unione economica e fiscale, che dovrà portare successivamente alla fondazione degli Stati Uniti d’Europa. In questa prospettiva, l’approvazione del fiscal compact può essere vista come la realizzazione della prima tappa nell’ambito, in primis, dell’eurozona.

In una seconda tappa, tuttavia, il risanamento deve essere accompagnato dal varo di un piano europeo di sviluppo sostenibile. Il fiscal compact ha introdotto nuovi principi per la governance dell’economia europea, con controllo dei bilanci e dell’andamento macroeconomico degli Stati membri, ma la definizione del piano e, soprattutto, la sua realizzazione concreta, richiedono una cooperazione più stretta fra la Commissione e i Tesori nazionali, che si può istituzionalizzare con la creazione di un Istituto fiscale europeo – su linee analoghe a quanto è stato previsto con l’Istituto monetario europeo (Ime) in vista della creazione della Banca centrale.

La terza fase, infine, deve portare alla creazione di un Tesoro, responsabile di fronte al Parlamento europeo e al Consiglio, e incaricato della gestione della politica economica e fiscale. Sarebbe così finalmente completata l’Unione economica e monetaria, con un governo democratico dell’economia europea, nella prospettiva di un completamento della federazione con il riconoscimento di nuove competenze nel settore della politica estera e della difesa.

Alberto Majocchi è professore di Scienza delle Finanze presso l’Università di Pavia.

Letteratura Interiore

Potrebbe essere a causa di un caso oppure – viceversa – di un determinismo coatto, che le peggiori inclusioni che deturpano le nostre capacità estetiche hanno forma di libri. E neanche potremmo mai affermare che le scelte che, si suppone, avvengano quando ci si accinge – avventurosamente – a riplasmare forme già acquisite dai nostri sensi confrontandoli con offerte di nuove storie, pensieri, critiche o esposizioni siano poi <<vere scelte>>. In fin dei conti, questi stati della coscienza sono in parte risparmiati – o autoassolti – dal dilagato cogliere caoticamente gli effetti concreti di un mondo che macera di tutto, e più macera più distrugge affermando se stesso quale contenitore della pluralità, che oggi si è mutata in assenza dell’individualità. Ovviamente parlo qui di un caso statistico, che non abbraccia casi altri in cui e da cui sembrano riemergere scrittori dotati di un vuoto di memoria: la memoria del contemporaneo, la cui assenza dovrebbe esentarli dalla omologazione che impone quel “determinismo coatto” di cui pocanzi accennavo. Forme, modi, tecniche, espressioni, tensioni, proposizioni, creazioni appaiono quali autoaffermazioni dell’essere omologati-omologanti, cooptando ambizioni che si assommano nell’insana ambizione di scrivere e diventare scrittori senza per questo mai esserlo. Perché vi sia un paesaggio è necessario che gli elementi presenti siano in un contrasto dettato dalla diversità della natura, una natura congrua e complementare per forme e sostanze e funzioni che interagendo conglobino la diversità nella sfera dell’essere. In questo ecosistema ogni caso è utile all’altro. Ognuno ha bisogno – per esistere – dell’altro. E così possiamo dire che la morte stessa dei soggetti è un’esigenza di rinnovamento: la sola cosa che conta è che non sia la vita a morire – quindi ad estinguersi -, bensì che essa esprima incondizionatamente i suoi infiniti nuovi volti in evoluzione. Il punto è questo: evolvere. È evidente che nella vita delle arti le cose non vanno molto diversamente. Paesaggisticamente la diversità è la sola ricchezza fruibile sia dalla natura stessa – per sua intima costituzione – che dall’occhio dell’uomo: l’unico animale in grado di riceverne un riflesso estetico. Quindi che travalichi la funzionalità “meccanica” del tutto rendendolo “altro da sé”, quindi arte, spirito, elevazione del concetto sintetico del linguaggio (il nome delle cose) per giungere fino all’alveo del nome stesso dell’uomo: il creatore del linguaggio. Colui che si è appropriato del tutto raffigurandolo. La tensione dell’uomo è tutta protesa nel tentativo di sfuggire alla fine e, per questo, tutto ciò che l’uomo ha prodotto in termini di “indistruttibilità” equivale nella modalità all’universalizzazione, quindi alla trasmutazione nel corpo spirituale del tutto. Questo transito propone indefessamente nella vita di ognuno che ne possegga la consapevolezza e l’intimità una cura costante della memoria estetica: non vi dovrebbero essere spazi sprecati; alienati dall’insussistenza della qualità del ricordo; la qualità dovrebbe essere tale solo nella misura in cui ci si possa già essere elevati sufficientemente per ritenere esclusivamente ciò che non volgarizza – banalizzandole – le cose, bensì che le selezioni costantemente quando i sentimenti siano quelli che si espandano verso l’ignoto: la meta finale e logica d’ogni ricerca. Tutto il resto è solo la struttura che sorregge lo slancio verso l’interrogazione che l’estetica impone dall’alto. Di ignoto in ignoto, ciò che ci attende è l’esame estetico del mistero. La sola cosa che possiamo fare: esaminarne – intanto – le proporzioni, in una forma quantitativa dell’indagine; una volta compreso che il mistero avvolge “il tutto” (che l’uomo ha già risintetizzato in simboli vari), lo slancio naturale ci porta verso l’esame delle sfaccettature, infiniti volti simultanei del reale, che in genere è già virtualizzato dal pensiero; quindi si tratterà comunque e sempre di un mistero che vige e domina una apparente astrazione riflessiva. Dove la realtà sarà gia ampiamente dotata di quella letteratura individuale che descrive ad ognuno – nel suo intimo – la parola stessa che avanza, percorrendo spazi interiori vibratili, plastici, armonici. Da questo traguardo in poi, il cammino andrà sempre più selezionando parole semplici, la cui insostituibilità sarà data non dal senso linguistico determinato da scelte razionali, bensì da coincidenze che tendono alla perfezione dell’incontro tra vibrazione emozionale e opportunità immediata di traduzione nel linguaggio interiore, fino a fare a meno d’ogni parola. E se <<In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio>> – in questa percezione estetica profonda dell’evangelista non sinottico – Giovanni -, in seguito il verbo stesso – incarnandosi – smetterà d’essere tale, nel rapporto con se stesso uomo. L’intimità tra uomo e spirito sarà costituita non più dal parlare con se stesso, ma solo dal sentire.

Questo percorso di ricerca interiore presiede alla capacità descrittiva dello scrittore: lo scrittore deve espandere di continuo la sua capacità di sentire. La parola non deve omologarsi in una funzionalità appiattente, ma deve affermare l’identità singolare di ognuno. La letteratura è frutto della letteratura interiore, emotiva e sentimentale. Quando essa non è meccanica; quando non si sforzi di raccogliere superficiali consensi da regole oscure e indecodificabili del mercato della parola. Quindi parlo di uno scrittore e di una letteratura ideali, senza la cui fisionomia mai potremmo ricondurre il discorso alla realtà. Ora, avendo fattolo il discorso ideale, tutto è riconducibile a ciò che dobbiamo tenere presente per ragionare di un mondo dove le spinte alla originalità vengono sistematicamente soppresse dal sistema contemporaneo. Il fatto è che un individuo disturba. Disturba in ogni caso, figuriamoci quando la visione preconcettuale di esso venga dall’alto di un sistema che manovra – per sua costituzione – le sue mosse e le sue intenzioni. Pur se individuo, uno scrittore deve essere parte di un insieme o sottoinsieme o di una scia di eventi, che ne nascondano il volto. Nella fattispecie del mio discorso critico: una semplice rilevazione che può assumere anche esempi, quindi nomi e titoli. Leggere un libro o un altro non dovrà mai condurre comunque in una scoperta autentica: un Autore. Uno che abbia l’autorevolezza di determinare un suo autentico linguaggio, che in molti individuano nel termine “stile”. Ecco che le inclusioni (con cui aprivo il discorso) fanno parte di un determinismo coatto; le inclusioni nella nostra memoria estetica del contemporaneo. In generale e in genere, lo stile non è sufficiente a fare di uno scrittore un autore. La modalità estetica dello stile e del suo esercizio viene ampiamente superata dalla sensibilità originale dello scrittore; la sua capacità di convolgere il lettore in una parola che sappia cogliere – anche nel riflesso dell’altro – la sua origine spirituale interiore, e che sia inequivocabilmente il frutto di questo viaggio ideale dove si torna dall’esame del mistero della parola stessa. La mia menzione del Verbo è appunto una provocazione mirata su tutto questo. Non dobbiamo mai dimenticare che lo scrittore è un demiurgo che mette ordine nel caos. Le storie sono creazioni. Le vite dei personaggi nascono perché chiunque ha immaginato che vi sia un dio che disegni i destini e le sensibilità, gli intrecci e gli eventi, le nascite e le morti, gli odi e gli amori: un dio capriccioso e caparbio che è – di per sé – un autore, uno scrittore. Questa società post-industriale ha raggiunto quel culmine dell’insussistenza di ideali spinte a crescere ancora nella meta del linguaggio. E anche del metalinguaggio di cui – ormai – non faccio altro che parlare pur senza averlo mai nominato direttamente, scandendone il suono del nome. Di contro, è precipuamente il metalinguaggio a riconfigurarsi quale elemento di consunzione della società: il significato “oltre” è possibile solo a condizione che l’individuo medio sia distratto e lo colga per un puro caso; quando è lo stesso abbassamento dell’attenzione a far riemergere quella irrazionalità – che in genere ignoriamo – e che ci permette di cogliere facce delle cose tutte che sembrano inesistere, e che talvolta realmente inesistono. L’uomo è schiacciato dal calcolo razionale del sistema produttivo, che si rifrange grotescamente nella sfera dei sentimenti, delle relazioni, delle occasioni di corroborare lo spirito con lo spettacolo dell’arte. La risposta a questo assetto della società “sistematica” lo vediamo nel diffondersi delle droghe: luoghi mentali che producono il recupero dell’irrazionalità, ma in modo chimico. Un paradosso tutto moderno, per la sola ragione che anche le droghe sono un oggetto-prodotto di consumo: ne deriva che se anche la liberazione di una parte nobile della percezione alterata si verifica, il condizionamento inquinante del sistema ha riprodotto un falso di ciò che un tempo era vero, e l’effetto può essere devastante nel tempo. Il coleottero che si lascia trasportare nel formicaio per dispensare alle operaie l’allucinogeno che ha sulle ali, e che produce iper-produzione lavorativa nella comunità in cambio di cibo e di relax, non somiglia affatto al mercato delle droghe nella società umana contemporanea. In essa la scia delittuosa che l’accompagna dovrebbe – da sola – demotivare chiunque a farne uso. È l’arte quella suprema droga che dovrebbe liberarci dalla camicia di forza del mondo in cui viviamo come macchine, a condizione che gli artisti vengano anch’essi liberati da quella schifosa prigionia fatta di fatturati degli editori, che sembrano avere in mente solo un’ulteriore omologazione del prodotto medio, che non turbi troppo le sensibilità medie, finendo poi per liberale anch’esse e renderle ingovernabili, quindi dotate di libertà di scelte. Dobbiamo lavorare tutti su questo.

Salvatore Maresca Serra – Roma, 24 luglio 2011

LA NOSTRA IDENTITA’ Lettere agli amici

Cari amici, percepisco da tempo che si è consumata una stagione politica e del costume: vi sono tutti i segnali, le avvisaglie dei fermenti che si coagulano in un distacco – nel comportamento – dalla passione politica, ma anche dall’euforia dopata che ha accompagnato – in alcune aree culturali deboli – quella forma odiosa di edonismo spiccio figlio della televisione. In apparenza questo, ch’è uno dei fenomeni in progress, potrebbe sembrare una sorta di nichilismo, o di sconfitta della società che scivola ineluttabilmente nella depressione post-crisi. Io ritengo invece che si tratti di una riflessione placentare, che possa “presto” generare una coscienza che si va nutrendo – nelle generazioni che si affacciano – di una osservazione prospettica senza precedenti. Con tutta probabilità è vero che si tratta di un “pensiero debole post-moderno” anch’essa, e ho la sensazione che sia stato anche di passaggio nel tentativo di analisi corretta che generazione TQ ha fatto di recente da Laterza a Roma. Ho seguito con interesse questo incontro. Vi sono state cose che condivido, e altre che mi lasciano estremamente perplesso, ma una cosa è certa: i gangli che innestano nel tessuto vivo e reale gli intellettuali sono – indiscutibilmente – da (re)individuare. Sia che li si cerchi dalla visione del popolo (alquanto improbabile), sia – come detto – che siano gli intellettuali a lamentarne sulla propria pelle la deprivazione; oppure l’assenza; oppure la mistificazione deformante che viene dalle leggi del mercato, nel caso specifico che riguarda gli scrittori. La saldatura tra pensiero e comportamenti si è dissolta con la reificazione; se c’erano tracce ancora presenti di possibili ideali, ebbene esse sono state anche travolte dal sospetto che potessero tramutarsi nuovamente in spinte ideologiche. Nell’alveo di una propaganda a cui le menti di molti hanno ceduto, assumendo per vera la strumentalizzazione che si è fatta dello spettro del comunismo, delle strategie staliniste, e dove l’antifona della “demonizzazione dell’avversario politico” – oramai destituita d’ogni credibilità, agli occhi degli uomini “medi” – in passato, ha visto arruolare moltissimi giovani nella destra populista berlusconista. In apparenza, il mondo s’era fatto un oggetto talmente veloce che un possibile ideale poteva essere di troppo, se non paradosso materialistico-edonistico,​ e – dopo la crisi – di sopravvivenza delle ambizioni di benessere (scardinando comunque la tensione propositiva di partecipazione alla società civile: luogo di tutti, e dove tutti dovremmo rifondare, testimoniandoli quotidianamente, i valori che la reggono in piedi). Mi ritrovo a domandarmi spesso se una vera solidarietà anima ancora gli atti e le scelte di chiunque. Pur consapevole che una società reale esiste ancora, e di cui sento di fare parte, mi sforzo costantemente d’individuarla anch’io, anche qui. È indispensabile coagulare in ogni modo le persone che stanno realizzando la riflessione di cui dicevo pocanzi. La prospettiva nuova potrebbe essere dotata di una sua forza, solo a condizione che operi un taglio orizzontale e netto. E ciò credo sia possibile solo se ci sarà un superamento di ciò che solo uno stato nascente possa determinare in quanto “vecchio”, inadeguato politicamente, obsoleto nel pensiero, archiviato nel passato al solo scopo di farne un monito per le generazioni future. Bisogna eliminare tutto ciò (e chi) che ha fatto presa sulle paure di alcuni, le xenofobie, i razzismi, le prevenzioni, i preconcetti. Ripartire dalla solidarietà, nel lavoro, negli spazi condivisi culturalmente, nello stare bene insieme, nella stima delle menti fertili e oneste. Intanto… In definitiva, solo riappropriandosi dell’identità, è possibile concepire una estensione di essa che inerisca alla funzione sociale di ognuno. Una identità che sappia guardare oltre questo immaginario e mendace steccato e concreto stercato. La politica non deve mai più dividere, a patto che si fondi sull’onestà del binomio amico-nemico, necessario alla trasfigurazione… Spero molto in questa riflessione.

Cari amici, vi ho letti tutti con attenzione e passione, arricchendo le mie possibilità prospettiche e confrontandomi con il vostro pensiero puntualmente preciso, quindi oltre modo responsabile. Affatto, è il senso di responsabilità individuale ch’è al centro della mia riflessione, nell’ultimo post. Una responsabilità che non può prescindere nella sua realizzazione collettiva-partecipativa dal senso della cultura. Là dove – in questa attualità dell’Italia – sembra che, spesso, l’interfaccia tra pensiero ed azione abbia perso di efficacia, e tragicamente. Evidentemente, il pensiero sgorga e lo riteniamo tale solo da questa responsabilità che accusiamo sulla pelle, con sofferenza, vedendo l’idea che abbiamo della società e della politica ridursi a mera mistificazione, figlia della reificazione. In altro luogo scrivevo che gli impulsi mortiferi, esiziali di un contrabbando di idee (tali solo in apparenza, nella loro strategia) hanno portato masse di persone a fidarsi di una visione dello stato uguale azienda, di berlusconiana memoria. Affatto, molti hanno preso per buona questa pseudoconcretezza che gareggiava impropriamente con un materialismo filosofico che ben conosciamo, e che – personalmente – del pensiero marxiano, ritengo una perdita sciocca e scioccamente deturpante (nella sua alienazione) del volto etico delle sinistre italiane che vi hanno rinunciato storicamente. Ben diverso, e abissalmente distante da ogni tentativo di prenderne un pezzo (la parte dei padroni-manager-imprendito​ri) e proporla in quanto misura del concreto, quindi del pragma, contrapponendolo alla visione idealistica della solidarietà e della sacrosanta equiparazione di ognuno all’altro, dove la proprietà diventa e rimane semmai un volano inalienabile della collettività tutta. Si è giocato molto e molto con disinvoltura con le persone, con i giovani, con la loro consapevolezza in formazione, riguardo ad un taglio chirurgico col passato vocato all’ideale comunista. Usando la demonizzazione di termini e concetti, là dove “comunista” poteva essere un’ingiuria assimilabile al totalirismo, ai GuLag, allo sterminio operato nelle repubbliche socialiste e nelle epistemi del comunismo sovietico quando c’era da cancellare testimoni del vecchio e dissidenti, rispetto ai trasformismi delle nomenclature. Nell’immaginario di molti sprovveduti, il populismo neoliberale berlusconista si è posto come sentinella della libertà di progredire nel benessere individuale, esemplificato, quindi incarnato, dal self made man Berlusconi, leader di un sogno collettivo, che ipotecando anche una naturale emulazione individualista di molti italiani, ha giocato – come dicevo – su uno squallido spauracchio, dove i comunisti riprendevano a mangiar bambini. Ma anche a sbarrare la strada dell’autoaffermazione. Mentre, invece, ognuno di loro faceva i fatti propri, strumentalizzando opportunisticamente tutta la cosa pubblica. Gli esempi degli scandali di fronte alla barca di D’Alema, ai vestiti radical-chic di Bertinotti, alle ricchezze delle coop rosse, eccetera devono farci ricordare quanta pochezza si è inoculata strumentalmente nelle menti di molti ch’erano disposti a credere ai politici, anziché alle correnti di pensiero libero. Resta il fatto che, alla base di ogni disgregazione del valore marxiano come faro culturale, si è imposto nuovamente lo spauracchio dell’accusa di essere dei cadaveri che volessero continuare su un’idea assurda quanto colpevole di totalitarismo stalinista. Là dove – storicamente – forse qualcuno non ricorda che da Togliatti a Berlinguer i fischi presi al Cremlino per aver nominato solo la parola “democrazia” ancora risuonano nell’eco dei nostri leaders di sinistra… Chi ricorda la Gladio di Cossiga e altri, potrebbe facilmente congiungere il tutto in un corpo unico e comprendere quanto di strumentale e grottesco ci fosse nel disegnare una possibile invasione potenziale delle URSS nel bel paese. Anche tutte le tensioni a cattorifondare una sinistra non hanno emendato i “leaders” venuti dopo dallo sciocco imbarazzo che hanno capitalizzato di fronte alle accuse che ho menzionato, e che hanno poi trovato fertile terreno nella caduta del muro di Berlino.

Mi è indispensabile questa lunga (per questa sede) premessa. Quello che sto dicendo è che, depotenziando con queste farneticazioni l’area di sinistra progressista in Italia, si è fertlizzata la strategia del populismo di destra. Il risultato è che l’opposizione che oggi abbiamo al governo di centrodestra è deprivata della sua radice più nobile, simile ormai ad un’arma scarica, incapace di mirare sulle nefandezze e i soprusi, se non in modo disintegrato e anacronistico. Evidentemente, il dividi et impera di Berlusconi e compagni ha sortito un effetto tangibile in tutti questi lunghissimi 18 anni. La precarietà costituzionale dei governi Prodi, le tensioni irrisolte e irrisolvibili all’interno delle alleanze di sinistra hanno fatto il resto. Giusto per fare un esempio alquanto mortificante, la questione no-tav, che oscilla tra Bersani e Vendola in modo teatrale, e che mostra il fianco al martellamento demolitorio della destra, mi sembra estremamente emblematica – per sintetizzare – della situazione in cui versa l’aggregazione potenziale della sinistra per rappresentare una alternativa possibile al governo attuale. È necessario andare oltre. Ricompattare “oltre” i progressisti italiani, con una spinta che solo dal basso io ritengo possibile. La pressione è ipotizzabile solo se allocata in una nuova possibilità di dialogo democratico, ma che abbia in sé una pensiero vivo e rappresentativo, e che non è possibile ipotizzare possa venire da nessun leader che sta nell’agone della politica-partitica attuale: deve venire dall’esterno. Questo cosa vuol dire (quando parlo di onestà, e non solo intellettuale)? Quando anche menziono una individuazione della potenzialità di rifondare in uno stato nascente la saldatura tra pensiero e azione. Voglio dire che ogni area destinata a diffondere pensiero e cultura dev’essere riscattata dalla prigione del libero mercato (tra virgolette), imposto dalla fenomenologia del presente. Un presente del tutto mistificato nella sua portata materialistica di stato-azienda. Un falso nauseabondo. Uno stato si regge sulle spinte idealistiche, anche facendo a meno d’ogni ideologia, ma ricuperando le idee. La buona amministrazione della cosa pubblica non è paragonabile ad un ‘azienda: questo è ridicolo e cialtronesco. Sia chiaro. Non c’è antistatalismo o antidirigismo che tenga. Perché allora sarebbe mille volte meglio avere una gestione statalista sana, anziché una indiscriminata vocazione all’individualismo bieco resosi possibile – teoricamente – in uno stato alleggerito e liberale che si limita a timbrare protocolli di ladrocini. È necessario avere punti cardinali di riferimento in liberi pensatori. E questi uomini e donne di pensiero non debbano mai soggiacere al ricatto dei politici a scendere nell’agone. Bisogna solo plasmare il pensiero dei futuri politici su una matrice di onestà e solidarietà. Visto che forse è impensabile fare un programma attuabile nell’immediato in questa generazione. Abbiamo, grazie a Dio, già delle voci capaci di raggiungere il connettivo sociale: l’importante è che ci si faccia tutti testimoni di questa realtà, plausibilmente ampliandola e sostenendola. Il che vuol dire anche avere delle “parole”, avere degli “scritti”, avere questi punti cardinali che – dalla riflessione in poi – facciano tremare i palazzi del potere. Io credo in questo, e non vedo altra strada da percorrere. Non ci servono amministratori che abbiano il pensiero: non ce l’avranno mai. Abbiamo bisogno di rinascere in quanto pensiero. Per questo affermo che, partendo dal basso, si debba giungere a far partorire al popolo i suoi figli più capaci di generare e diffondere un pensiero che si traduca in scelte e rappresentanze politiche. Ci serve il nuovo. E bisogna crederci, qui ed ora. Fuori da ogni clientelismo. Ripeto: non vedo altra strada davanti a noi, se non un progetto sul medio periodo. Inutile farsi illusioni. Serviranno anni, decenni, ma bisogna cominciare adesso a riappropriarsi dell’identità culturale, dopo tutti gli inganni e i giochini fatti da chi ha inteso deprivare le persone della loro più spontanea identità.

Salvatore Maresca Serra – 7 Luglio 2011

CARMINE BALDUCCI – ALESSIA CRISTIANI

PICCOLI  CRIMINI  CONIUGALI

Scene di Mirco Murgia, Costumi di Chiarastella Vigilante, Suoni e Colori di Gennaro Paraggio, Musiche originali di Salvatore Maresca Serra, Direzione Artistica di Dog Bondo, Organizzazione Teatri&Culture, Ufficio Stampa: Maura Bonelli per D-MOOD, Quadri in scena di Salvatore Maresca Serra.

Teatro STANZE SEGRETE via della Penitenza 3 – Roma (Trastevere) Info e Prenotazioni 06/6972690 cellulare 392/1505171


A LONG TRAVEL IN AMAZON RAINFOREST Salvatore Maresca Serra

COPERTINA-A LONG TRAVEL IN AMAZON RAINFOREST

A LONG TRAVEL IN AMAZON RAINFOREST – SALVATORE MARESCA SERRA Syndicate

 

http://itunes.apple.com/WebObjects/MZStore.woa/wa/viewAlbum?id=334665870&s=143450

 

L’ultimo lavoro di Salvatore Maresca Serra, nei prossimi giorni su tutti i Music Stores del mondo.

Ascoltate l’anteprima per intero del brano in versione Mp3.

Il brano è dedicato alla Causa 12 HOURS PRO AMAZON RAINFOREST, creata da  Salvatore Maresca Serra, e tesa a paralizzare, in segno di protesta mondiale, le reti Facebook dal 14 al 15 Dicembre, simultaneamente ai giorni in cui al Vertice ONU a Copenhagen, il Governo brasiliano dovrà impegnarsi a contenere e – si spera – fermare la deforestazione della Foresta Amazzonica brasiliana.

Aderite alla Causa 12 HOURS PRO AMAZON RAINFOREST qui: http://www.facebook.com/group.php?gid=119604092108

TAM TAM DI DOLORE Antonella Puccio

TamTam

 

Tam Tam di dolore

Madre,
questa notte..è una notte selvaggia
è un tam tam di dolore,
i cuori di acciaio ..verranno
e con pesanti scure ci attaccheranno e ci stermineranno.
Madre,
in questa notte
sento il sangue pulsare
e vano è il tentativo di sognare.
Madre,
stringimi al petto che ti voglio raccontare
ascoltami…
parole pesanti come il piombo
parole come spade che lacerano il cuore,
son state pronunciate sulla sorte di noi alberi giganti buoni.
Madre,
ricordi,quanta fatica per raggiungere il cielo !
noi fratelli uniti e fedeli
maestri gli uni degli altri
sapienti nello spargere amore.
Noi..respiro delle terre morenti.
Sgomento e stupore,
sui volti ,ora di un verde smunto,
di noi fratelli.
Madre,
in questa buia e interminabile notte
un taglio di luce:
dei folli saggi,
artisti d’ogni parte
poeti, pittori e musicisti,
sulla scia di un pianoforte,
su teli, con giochi di acquerelli innamorati del verde,
dentro i versi sognanti di instancabili poeti
evocano la nostra bellezza 
e ne invocano la salvezza.
Madre,
forse che il loro dire,
non sarà voce 
più forte delle pesanti scure?
In questo tam tam di dolore
le foglie, umide di pianto,
intrecciano
un canto di speranza.
 

Antonella Puccio

HO VISTO L’AGONIA DELLA TERRA Angela Rita Iolli

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Ho visto la terra donare frutti meravigliosi cui persino il sole ne invidiava la bellezza
Ne scaldava il colore con i suoi raggi, lasciando all’arte visiva 
l’estasi della contemplazione.
Ho visto boschi verdeggianti abbracciare con i loro rami e le loro foglie l’ossigeno di cui la nostra 
vita ha bisogno. 
I nostri passi hanno saputo solo calpestarne la dignità in segno di non riconoscenza.
Ho visto il mare palcare le sue onde quando aveva bisogno del consiglio di Nettuno, 
cullando i suoi figli prediletti nelle giornate di precario silenzio. 
L’ho rivisto incattivito quando ha scoperto di essere stato ingannato dai suoi stessi figli, 
assistendo inerme all’imbarbarimento delle sue acque.
Ha concesso passaggi a navi ed in cambio ha avuto scie d’inquinamento, che lo stanno spopolando.
Ho visto genti mantenere con forza le loro tradizioni, nessuno le ha capite, molti le hanno cacciate.
E’ rimasto il rumore delle loro lacrime e il vuoto di capanne distrutte. Nessuna pietà.
Ho visto il fuoco divorare la speranza, abbassare occhi stupiti, inermi davanti allo scempio.
Ho visto indifferenza per Madre Natura, un tempo materna adesso cattiva matrigna.
Ho visto malattie minare resistenze e certezze, lasciandosi alle spalle una gelida impotenza.
Ho visto la morte sorridere e farsi beffa degli uomini, spegnendo qualsiasi ottimismo.
Infine sullo sfondo ho visto una figura piccola, meschina, chinata su se stessa,
l’artefice di tutto ciò:
ho visto l’uomo e mi sono vergognata di lui.
Un angelo caduto a cui si sono spezzate le ali.
Ho visto l’agonia della Terra.

 

Angela Rita Iolli

MADRE FORESTA – Maria Pia Monicelli

MADRE FORESTA - Maria Pia Monicelli

 

MADRE  FORESTA

 

Un piccolo mondo oltre le mura
Foresta
Là dove il tempo si è fermato
tra liane e indios
nello spazio più vicino al cielo
là batte un solo cuore
Ogni ferita un delitto
di ferro 
di fuoco
Madre dalle spade nel cuore
prega
tra le ombre pluviali
mescola lacrime
di sangue e pioggia
non solo per uno
sono tanti figli 
di carne e fiori
di frutta e legno
Madre senza angeli
in coro
accoglie straziata 
i lamenti
del suo popolo
solo.

 

Maria Pia Monicelli

Roma, 22 Agosto 2009

ALLE PRIME LUCI DELLA SERA di Angela Rita Iolli

Rosa sul pianoforte

 

Alle prime luci della sera, quando smetti l’abito indossato di giorno e cerchi refrigerio dal caldo, improvvisamente ricordi il canto delle cicale, che non hanno più voglia di cantare, in quel loro assolo tipico a spezzare silenzi notturni scivolati su bicchieri rotti che sanno graffiare. Quando il sapore del vino ghiacciato attraversa gole assetate che non smettono di dissetarsi. Un’arsura le ferisce, e quel bicchiere tenuto stancamente tra le dita serve solo ad attirare sguardi ansiosi di bollicine. Nella stanza dalle finestre aperte appaiono tatuaggi di vita, che neppure un foglio bianco saprebbe macchiare del giusto inchiostro. C’è il pianista, che cerca accordi che non siano i soliti, cerca l’oltre, il pezzo che supera le barriere, e vede Mozart che sorride. Gli gira intorno, accarezzando il pianoforte a coda, sfiorandone i tasti in bianco e nero d’avorio, un tocco di velluto su note irripetibili. Il pianista che sognante vola, immaginando oceani e isole dove trovare esausto il naturale approdo. 
C’è il trombettista che quasi discute con Miles in quel suo don’t play what’s there, play what’s not there, inseguito da armonie che si fondono con la più struggente malinconia. E’ lucida d’ottone quella tromba, non più ascensore verso il patibolo, ma momento di gloria inseguito e raggiunto in quella ricerca di colori dell’anima, che solo un pentagramma baciato dalla sorte può regalare. 
Il fuoco dentro, l’accensione di fiati a cui dare corpo per liberare l’immenso. C’è il batterista con le sue bacchette, capace di addolcire un suono di fronte al quale sa mettersi a nudo. Non esiste nulla intorno, solo quel suono, quel parossismo senza eguali, un annullarsi completamente fino allo sfinimento, in quel fascio di nervi e muscoli tesi come corde. Assomiglia ad una statua dell’antica Grecia, tanta è la bellezza che emana. Momento in cui persino le stelle se avessero un cappello se lo toglierebbero in segno di ossequio. 
C’è il chitarrista con le sue mani che scivolano beate, sembrano intrecci di ricami, pennellate d’autore. Scivolano creando l’armonia, la catarsi e l’orecchio si adegua non potendo fare a meno di ascoltarlo.
Serenata di una notte di mezza estate, in attesa del solstizio in cui fare festa, tra danze e la sensazione fresca dell’acqua sul viso. Gioiosità di figure che girano in tondo in un unico abbraccio. Quando un gioco, un ballo, persino una parola accompagnata da musica aiutano a dimenticare.
La musica che sa giocare, ammaliare, sedurre con il suo ritmo da gustare un po’ alla volta come quel bicchiere di vino, sorseggiando quella cascata di ghiaccio e note senza provare freddo, ma uno strano fuoco dentro. Alle prime luci della sera può accadere che diversi strumenti diventino colonna sonora di un sogno che sa di cinema, di fotografia, di scrittura. Che non si abbandona in un angolo, ma ha bisogno di un palco, dell’applauso, come sangue che scorre dentro. Guardando negli occhi chi lo sa ascoltare, innamorandosene. Fuori il colore rosa del cielo rammenta che il sole è andato a dormire ad occidente, la musica invece resta sveglia, c’è voglia di lei stasera. Nessuno potrà fermarla.

Angela Rita Iolli

ARRIVA EGYPT sul sito di Miriam Maltese

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http://web.me.com/serrasalvatore/Welcome_to_MIRIAM_MALTESE_ARCHEOLOGIA/BENVENUTO.html

VISITATE  WELCOME TO MIRIAM MALTESE ARCHEOLOGIA

So che molti amici ed appassionati attendevano il seguito delle due prime rubriche di Miriam, per le quali sono arrivati complimenti e congratulazioni all’Autrice. In particolare per la fruibilità degli argomenti trattati, ma anche per la passione che è riuscita a trasmettere in modo inequivocabile.

E’ di ieri l’uscita in rete del sito Welcome to Miriam Maltese Archeologia. Troverete a destra della pagina di questo blog un link fisso.

E – come promesso proprio su questo blog – il grande primo protagonista del suo paziente e interessante lavoro è l’Egitto. Credo che questo soddisferà l’attesa dei molti che hanno più volte scritto, domandando quando avrebbero potuto leggere questo Speciale numero. Ebbene, è con grande piacere, e con personale soddisfazione, che annuncio questa uscita. Come sempre, troverete il gusto di una trattazione organica, fruibile, chiarissima. Molti dei segreti che accompagnano da sempre il fascino delle Piramidi prendono corpo, sfaccettandosi in aspetti inconsueti, legati alla storia della progressione ingegneristica e architettonica che ha accompagnato la realizzazione delle più grandi Piramidi, così come le possiamo vedere oggi, ignorandone il più delle volte il dipanarsi di una vicenda che possiede aspetti impensati, e di cui Miriam ci fa dono in questo primo (e non ultimo) numero, che esordisce nel suo personale sito, dedicato in generale all’Archeologia, in particolare ai Misteri dell’Egitto. Alle sue incommensurabili ricchezze. Alle scoperte che saranno ancora fatte nel tempo, e che faranno – se possibile – ancora maggior luce nelle nostre menti. Anche grazie a coloro che con amore e disponibilità – è questo il caso – si offrono spontaneamente alla loro divulgazione, e – sopratutto – alla strutturazione di un percorso organico; letterario e documentale, dove l’accesso alla comprensione della Storia diventa facile più che in tanti altri casi. E dove il loro unico guadagno si chiama soddisfazione culturale…Troverete nel sito anche il personale blog di Miriam: attraverso esso potrete interagire con lei direttamente, coniugando la Vostra passione con la Sua. E’ proprio una bella storia, di cui vado fiero. Come sempre quando mi capita d’imbattermi in persone che hanno dentro una scintilla di luce! Posso affermare con il peso dell’esperienza che, se non vi sono grandi passioni, grandi interessi, il colore dei nostri giorni impallidisce man mano che il tempo avanza…Ed è – di contro – così solare e vincente aprire gli occhi ogni mattina sulla gioia di esserci, quindi di essere. E cosa c’è di più affermativo di noi stessi che le cose, le storie, le materie, le persone, le arti, che amiamo…

Faccio i miei migliori auguri a Miriam Maltese. Apprezzo il suo congruo e valido lavoro. Confermo il mio essere il suo primo fan. Auguri Miriam! Lunga vita alla tua grande passione! Lunga vita all’Egitto!…Una vita…immortale!

Salvatore Maresca Serra

GUARDANDO IL MONDO DA UN’AMACA di Angela Rita Iolli

mondo

 

Tira una strana aria stasera, nonostante il caldo ricominci a non dare tregua. Voci di chi ha trascorso l’intera giornata, ciondolante, davanti ad una cantina hanno il sapore di bocche impastate e disarticolate dal vino mandato giù. Cantano vecchi stornelli con l’aria di chi non ha più niente da chiedere, se non l’ennesima bottiglia da scolare. I cocci li troveremo sparpagliati l’indomani ai piedi di un muretto consumato dalle lunghe chiacchierate di comitive che vorrebbero che la notte non finisse mai. Ora che la scuola ha chiuso i cancelli dell’ennesimo anno rincorso da riforme e malumori, le comitive ritrovano la loro naturale dimensione in appuntamenti rituali in posti impensabili. Li vedi agguerriti davanti ai quadri di ammissione, dentro o fuori, alcuni ancora increduli di avercela fatta, altri con l’ennesima sconfitta da digerire, sarà per un’altra volta. Partono abbracci consolatori e di saluto all’anno che verrà, quando ognuno di loro sembrerà più grande degli anni che ha, vestito di esperienza e avventure piene di illusioni e traguardi da raggiungere. Molti resteranno indietro, affascinati da una vita senza pretese, da svogliatezze inesorabili e da rinunce, facile prede di sirene lavorative. Altri sogneranno di diventare qualcuno, l’ingegnere della monoposto in prima fila a Maranello immaginando sfrecciare la rossa ed il suo motore, dolce musica per le orecchie da intenditori, un rombo che da sempre fa sobbalzare cuori; il medico in cerca di scoperte sensazionali, in questi tempi di ricerca necessaria di cure e protesa verso vite in pericolo; il matematico alle prese con le sue formule per cambiare pensieri e arrovellare meningi già sfiniti da sudoku e cubi magici che sembrano far parte della preistoria; il filosofo amante delle sue belle parole in conflitto con uditori che desiderano altro, com’era ai tempi di Platone quando iniziò a parlare di un mito che non avrebbe pù cessato di esistere nelle fantasie dei posteri: Atlantide immersa in quel sogno che Nettuno in una notte senza tempo fece per sempre suo; lo scienziato che combattuto tra angeli e dèmoni deve convincere se stesso di vedere un altro universo, usando quello specchio capovolto in cui riflettere certezze da secoli oggetto di furioso contendere. La particella suprema da scovare per dominare il mondo non più come Atlante, che se ne caricava tutto il peso sulle spalle, ma come un folletto dispettoso che si diverte a sparpagliare le carte da bravo mazziere; lo scrittore con la sua anima fotocopiata nelle pagine di un libro che solo sa i suoi segreti insieme a chi leggendolo saprà ascoltare fino all’immedesimazione. Il lettore alla ricerca dell’autore in quel rincorrersi tra gli scaffali di una qualsiasi libreria in un patto di sangue che cambierà i destini di entrambi. Infine i tanti peter pan, eterni giocherelloni, schiavi di abitudini bambine che li portano lontano catturati da sogni ripetuti nel tempo, loro alleato principe. Sono loro a non voler cambiare, a non uscire dal guscio in cui si sono chiusi scaldando le loro anime ferite da un progresso che va avanti come un bulldozer, fregandosene delle loro aspettative, del loro fermare gli attimi per poterne respirare i giorni. In un ideale gioco delle parti con la natura, di cui sanno percepire energie a noi sconosciute, frutto di incantesimi e magìa che i loro voli pindarici sanno bene coltivare. Sono loro a regalarsi istanti vissuti tenacemente come le radici che non vogliono staccarsi dal terreno che hanno individuato come loro insediamento. Sono loro a vedere lontano, l’impossibile, l’isola che non c’è e che invece dovrebbe esserci per ognuno di noi, destinato almeno una volta nella vita ad abitarla per toccare con mano ciò che ancora fa compagnia al mare durante i suoi momenti di solitudine: quell’infinito in cui puoi disegnarci la meraviglia, il sogno, l’armonia, la vita. Quella vita che a volte non ci soddisfa, vorremmo diversa, noi che ci sentiamo naufraghi su quell’isola, ma amanti di quel silenzio che ci sa cullare maliziosamente. Come tanti Robinson Crusoe capaci di inventarsi amici immaginari, sulla soglia di quella follia che basta pizzicare per fare nostra. Inevitabile, necessaria per evadere. Guardando il mondo da un’amaca, desiderando che nessuno ci venga a cercare. Tira una strana aria stasera, mentre le mamme faticano a riportare a casa i loro bambini, chissà se conserveranno per loro una carezza o una pagina di un libro di favole, quando stanchi di giocare si addormenteranno, loro sì non fingendo di sognare. Spensieratezza da cui noi tutti dovremmo imparare. L’aria è cambiata, il sole è tramontato, la notte si prepara a vivere il suo momento di festa. Gli altri non vedono l’ora di correrle dietro, chi stremato, chi assonnato, chi spiritato, tutti allegri fantasmi di ciò che solo lei è capace di architettare. 
I vicoli stanno ad ascoltare i segreti degli amanti. Nessuno li disturberà. Qualcuno ha lasciato libero un aquilone. 

Angela Rita Iolli

NUMERI E PAROLE di Angela Rita Iolli

letteregemelle

 

“Anche all’ombra della morte due pù due non fa mai sei” (Tolstoi)

Ci sono giorni la cui somma viene data dall’esperienza che abbiamo avuto nei loro confronti, accorgendoci a malincuore che i conti non tornano quasi mai, fatti di numeri che vediamo di continuo attorno a noi. Quegli stessi numeri che maneggiamo con cura nel fare la spesa oppure con destrezza nel portare a termine un sudoku, quando ci riesce. E che proprio per questa familiarità verso di loro finiamo con il dare per scontati, senza immaginare l’universo di sogni, di idee, di scoperte e storie che ciascuno di loro può regalarci. Offrendoci una ricchezza infinita, nascosta dietro un pallottoliere di affascinanti formule. E così ci immaginiamo tanti Einstein, relativamente geni arrivando persino a convincerci che la matematica più che un’opinione è stata sempre una recondita armonia. Quella che ci porta a parlare di meccanica quantistica e di Gauss, rimanendo noi stessi catturati da quel flusso magnetico, come se stessimo ascoltando un andante allegro del divino Amadeus, un libro sui destini del mondo di George Orwell o riflettendo sul senso della vita. La vita, lei stessa ridotta ad un numero travestito e moltiplicato per gli anni della nostra età, con le sue domande infinite e i suoi calcoli infinitesimali, attraverso i quali si dipana l’intricato gomitolo della struttura del DNA, il sofferto pentagramma su cui Bach scrisse la sua Messa in Si minore, il gusto un po’ strano che caratterizza i sapori dei quark, ma assai elettrizzante. Numeri, soltanto numeri, che abbiamo imparato a conoscere ancor prima di andare a scuola, osservando quelle strane forme sulle targhe delle macchine, sui numeri civici delle vie, sulle foto un po’ sbiadite delle lire, sulle pagine di un libro, ossessionando sino allo sfinimento chi li conosceva già. Salvo poi pentirci di averli conosciuti, quando frequentando le scuole ci apparivano sotto forma di tabelline, memorizzate a pappagallo con grande gaudio di Pitagora che ahinoi così sapientemente ha saputo allinearli. Il nostro incubo dell’infanzia, appena attenuato da filastrocche e canzoncine in cui quarantaquattro gatti in fila per tre col resto di due dovevano portarci a capire che 6 per sette, da quando gli astronomi babilonesi si cimentarono con i numeri restando leggendari, avrebbe fatto per sempre 42. E crescendo avrebbero accompagnato le nostre giornate peggiori in compiti di matematica, dove iperboli assurde segnavano la nostra condanna e improbabili formule chimiche ci portavano a colorare la nostra media scolastica di uno strano rosso, che stava alla vergogna come il quattro impresso sulla pagella. Inesorabile, un colpo ai nostri sogni nel cassetto, schizofrenica convinzione di diventare ingegneri famosissimi. Andando a ritroso nel tempo a quei scienziati egizi, che hanno saputo creare dei veri e propri rompicapo, quasi a voler mantenere il segreto su quei straordinari capolavori di ingegneria. Questione di numeri, questione di solitudine. E i conti continuano a non tornare e noi come piccoli Don Chisciotte a lottare contro i mulini a vento dei nostri pensieri per arrivare a farli quadrare e a scoprire i nostri portafogli sempre più vuoti. E se i mesi sono fatti di 30 e 31 giorni, salvo una rara eccezione durante l’inverno, che fatica arrivare al 15 con l’acqua alla gola e la paura di non farcela. Anoressia da numero. E noi ad ascoltare promesse che non arriveranno mai, sotto smentite spoglie di chi con un sorriso vorrebbe ingannarci, mentre c’è chi non riesce nemmeno più a sorridere, invitandoci a segnare indelebilmente a matita un segno su speranze elettorali ormai andate in fumo. E i conti continuano a fare acqua da tutte le parti, mentre c’è chi fa mettere l’abito della festa a finanziarie senza scrupolo accumulando altri debiti sulla propria personale disperazione e sui nodi alle cravatte che stringono sempre di più. E i conti che ci inseguono con i loro numeri, che moltiplicati si divertono a farci recapitare bollette aggiungendo un pizzico di suspense subito svanito dopo l’apertura della buste. Numeri approssimativi su fragili giornate dove gli orologi spietati continuano a girare le loro lancette fino alla mezzanotte, quando solo la pienezza della luna illumina stanze dove non si riesce più a dormire e se solo si potesse ci piacerebbe puntare sui numeri sognati e dettati con una smorfia dal morto che parla, assolutamente da affiancare alla paura, in un ambo che ci regalerebbe ossigeno. La teoria della probabilità, che rovesciata si chiama sfortuna, lei sì che ci vede bene. Numeri e la loro solitudine insieme a chi li sta a guardare e come un bambino felice vorrebbe soltanto contare uno.. due .. tre … stella. Ma i conti non tornano più e i numeri hanno smesso di parlarci.

 

Angela Rita Iolli

IN MY CITY – Salvatore Maresca Serra

 

IN MY CITY è una raccolta di brani di solo pianoforte, dedicati alla città di Napoli.

Molti di essi sono stati registrati dal vivo, in concerti tenuti in varie città e nazioni; altri registrati in studio, o nei backstages dei concerti. Entro il 2009 verrà pubblicato in tutto il mondo il CD omonimo, che si potrà trovare in vendita su 500 stores musicali online, a partire da iTunes, nonchè nei negozi di dischi. Questo tema – molto caro a Maresca Serra – è pregno di valenze e significati: tutto nelle musiche. L’ascolto è esemplificato in questo ed in altri video presenti in rete, dove le variazioni sui temi rendono il lavoro complessivo di particolare interesse per tutti coloro che seguono l’artista, e ne conoscono le capacità improvvisative. Gli appassionati del Maestro e di questo genere musicale ne faranno una lettura a vari livelli, e ne rintracceranno i semi di quella vision che caratterizza da sempre la sua sfera compositiva: la fusione tra il classico e il jazz.

Buon ascolto a tutti!

Janet Zawinull

“OVER THE SHADOWS” – Ascolta e scarica il brano
SAKVATORE MARESCA SERRAPartitura per pianoforte “OVER THE SHADOWS”

 

E’ possibile scaricare il brano ed eseguirlo con la partitura allegata. Per tutti gli appassionati di Salvatore Maresca Serra e della sua musica innovativa. Per una esecuzione fedele e corretta bisogna attenersi al file audio. Grazie!