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ANCORA LEI – Sandro Capodiferro

Ancora Lei

Seduto su di un divano di certezze, guardo le immagini da uno schermo colorato mentre volute di fumo accecano i miei occhi: un provvidenziale fastidio per non vedere e fingermi distratto. Nel silenzio del mio salotto asettico e piatto, mi trovo ad ascoltare la voce di un anonimo cronista che riporta la notizia assurdamente declamata tra le tante che impegnano i neuroni per il solo tempo di una frazione di secondo, quasi a fiaccarne la gravità nella scusante di un palinsesto tiranno. Un’altra lei a riempire un minuto scarso di comunicazione, a ritagliare sulle coscienze dei più l’ennesima reazione di salvifico sconforto, mentre intorno a me tutto tace come in attesa di una ribellione che non arriva, se non dentro di me. Questo ambiente che mi accoglie descrive tutto ciò che mi accomuna ad un genere, ad una stirpe, a un modo di essere solo fortuitamente cromosomico. E’ maschile una tenda bianca e ritta sugli attenti, un mobile d’acciaio freddo e lucido. Lo è un frigorifero semivuoto convinto della sua astinenza da un proprietario pigro che spaccia tutto questo per essenziale e utile; è virile una tavola di vetro dove non mangi mai perché un tappeto ha tutto ciò che può servirti ad essere più maschio durante il tuo letale pasto a ventre gonfio e irsuto. E’ così che ci si uccide di soli carboidrati e proteine proclamandosi asciutti e troppo impegnati; si riempiono le vene di insalubri sostanze fatte transitare per gozzi voraci e mal rasati, si iniettano gli alveoli polmonari di nebbia argentea e puzzo di bruciato, rigettandone con maschia decisione pezzi di vita, sprezzanti del pericolo. Quella notizia già non è più nulla e quella lei galleggia nei pensieri di chi dorme consapevole e appagato di quanto tutto questo faccia da sempre drammaticamente parte del gioco. Ma quale è gioco? E’ quello della vita ed è la sua per giunta. Non è un discorso dal quale lasciarsi annoiare nel ripetersi continuo di una storia millenaria fatta di tante lei che nell’anonimato di un istante hanno svettato, celebri un minuto, per esser dimenticate il successivo. E allora guardo ancora la mia stanza e provo a disegnarla nello spazio di un pensiero come se tutte quelle vittime fossero qui. Vedo lo sguardo attento dai mille toni d’espressione, arguto, indagatore, vero, forte ma anche scettico, disilluso, coinvolgente, freddo, colato via in una riga di rimmel che lascia traccia liquida delle proprie emozioni. Ascolto nell’aria le parole giuste, salaci, spontanee o programmate, perfide o dolcissime, di conforto, d’ira o d’amore, pronunciate da bocche morbide e taglienti mentre i denti mordono la patina vivida di un rossetto che ne accentua il lucido pensiero. Seguo intorno a me i gesti di mani capaci di essere ali per librarsi in volo oppure forti strumenti di precisione durante le innumerevoli attività delle quali sono in grado; mani che accarezzano e ora graffiano la mia anima, lucide di smalto, bagnate di saliva. Raccolgo tutto questo intorno a me e me lo metto addosso per ricordare la lei che sono anch’io come lo siamo stati tutti e ancor lo siamo. Fin dalla nascita virile che per prima ha ucciso questa lei, perché essere maschi e non evolvere in uomini è come aver sedato nel cloroformio degli istinti più terreni quella parte femminile che sostiene ogni nostro gesto. Non capire questa nostra comune radice è una bugia della quale fare scempio, è la codarda ipocrisia che è divenuta necessaria per non sentirsi poco più di nulla a confronto di quelle tante lei per le quali una dimensione non ha mai fatto la differenza, un lavoro è sempre stato soltanto una delle tante facce della vita, un amore è diventato il luogo dove essere e non soltanto comparire per sparire impaurite. Sul mio divano ora mi rivesto di me, lavando via il rimmel di quegli occhi, il rosso delle bocche e il brillio di quelle unghie, confondendoli con le mie cromie di nulla come di sottomarca, dolce amica, portando te che ridi in un ricordo di quanto poveri son gli uomini quando per esser come te ti uccidono eliminando la fonte del confronto, illudendosi così di non averne, sodomizzati dall’effimera illusione di un possesso contro natura, come la vile assuefazione alla cronaca che ancora una volta parla di te.

Sandro Capodiferro

VADE AL RETRO, SILVIO!

Personalmente non aspettavo altro che Berlusconi si ricandidasse, per confermare una mia vecchia teoria – molto empirica, devo dire: quando uno nasce tondo, non può morire che facendosi tonto. Silvio sopravvive a tutto e a tutti, e se ci riesce è perché è una macchina, non un uomo. Va avanti perché tiene il motore acceso, sempre. L’imput iniziale che ha ricevuto dall’alto, il suo mandato divino, il culto di sé, lo specchio del reame, il ruscello di Narciso, tutto lo mantiene amortale. Amortale perché tonto. Pronto a riportare l’immagine dell’Italia al bunga bunga, dopo sacrifici del popolo italiano, dopo i suicidi, dopo lo spettro miseria, dopo la perdità della sovranità, dopo l’uomo o gli uomini che ci hanno commissariato dalla Trilateral, dopo la Merkel che ci ha bacchettato fino alle piaghe sulle mani, dopo Napolitano, dopo il palloncino scoppiato di Sarkò, dopo i grillini, dopo ABC, finache dopo Obama ecco che torna Lui, l’uomo del destino. Il Cavaliere Nero.

Già tutti sono in agitazione, fibrillano perché torna la pappa pronta, la mangiatoia bassa anticervicale, il cocco mondato e pronto, la provvidenza divina, il ritorno al futuro.

E già: qualcuno aveva veramente creduto che la partita si fosse chiusa? Ma scherziamo? Angelino candidato premier? Il partito degli onesti? Finiamola! Per favore, finiamola!

Tutto quello che c’è passato addosso come un caterpillar in questi lunghi mesi che fra poco fanno un anno non è servito a niente. I sondaggi lo danno chi dice ventitré chi ventotto chi anche di più. Ma chi li fa questi sondaggi? Chi è il vero pusher di Silvio? Sorvoliamo. Lui è pronto. Turgido. Tonico. Nella pausa s’è finito di rifare anche la faccia con nuovi ritocchi estetici. Molti italiani hanno rimpianto i suoi tempi. Sono pronti statisticamente a rivolerlo. Meglio lui che Monti! Si sa, meglio il male minore, o non si crederà mica che quegli italiani pronti a rivotarlo (o rivoltarlo…) abbiano creduto davvero alla cattiva favola dell’Europa in crisi. Dello spettro Grecia. Sta per finire l’era del tecnico. Sta per tornare la politica, quella che credevamo di esserci lasciata alle spalle, ma quando mai? La politica italiana. Quella degli sprechi di massa. Dell’ottundimento generalizato, sistemico. Della propaganda che, in fondo, ci manca. Quella del gossip. Quella dei Ballarò, Porta a Porta, Matrix, In Onda, Report, Servizio Pubblico. Nuovo pane per i Travaglio. Nuovo travaglio per i giornali mondiali. Nuove sceneggiate. Nuovo populismo, diretto e di riflesso. Nuove inchieste pittoresche che non approdano a nulla di fatto. Nuovi lodi. Nuovi magistrati all’assalto della rocca inespugnabile dei Ghedini & Co. E, se davvero ce la facesse, nuovo impulso al voto-mercato. Ma ce la farà, ne sono certo. Il potere del tonto è illimitato e inarginabile. E viene da pensare che l’Italia intera è tonta. O una buona parte. Ma noi, da che parte stiamo noi?

A Berlusconi va riconosciuto un merito storico: Lui ciclicamente denuda la vera faccia degli italiani. La fa emergere dalla coltre di teorie che si sgretolano poi nei seggi, niente di concreto, solo teoria. E nei seggi, si sa, fanno di tutto. E poi, dobbiamo chiederci: chi si intesterà il merito di aver mostrato responsabilità sia nel dimettersi che nell’aver sostenuto questo intervento tecnico di riabilitazione della credibilità Italia? Bersani? Casini? Lo stesso Alfano? No! Ci vuole un nome! Alfano è solo un pupazzetto, di quelli che piegano volenterosamente la testina in basso e dicono con la molla carica “Sì! Sì! Sì!” Sempre e solo sì. Il nome è Lui. Già immaginiamo la nuova campagna elettorale. Nel 2013 avremo finache l’aria che scandirà il merito di Silvio, l’uomo del destino. La roccia. Il grande statista. In più s’intesterà anche tutto il disprezzo che ha ricevuto come una stimmata di santità e sacrificio. Ci dirà che avremo finalmente una grande stagione di ritorno alla grandezza del nostro paese. Che ci guiderà lui come il profeta alla terra promessa fin dall’inizio da Forza Italia. Ma la verità è che ritornerà ancora la terra della diaspora. Ancora, invece di pensare al lavoro, alla disoccupazione, alla crisi, ai disperati, lo spazio dei media scoppierà perché tutti saranno costretti a parlare di Silvio. Finache i media internazionali, i leaders esteri, gli intellettuali, le agenzie stampa, ancora qualcuno scriverà qualche libercolo su di Lui. L’Italia intera, da grigia e seriosa, si tingerà di nuovo di quel grottesco rosa a chiazze marroni. Quella macula tra edonismo, malcostume e merda. Perché ci aspetta una nuova montagna di merda. Ci seppellirà del tutto? Vedremo. Intanto, chiudiamo se non gli occhi almeno le narici. Se qualcuno si chiedeva quale ormai poteva essere il peggio, adesso sappiamo: è arrivato.

Salvatore Maresca Serra, Roma 12 luglio 2012

EDITORI A PAGAMENTO

Essere pubblicati, o non essere pubblicati (quindi auto-pubblicarsi, in qualche modo o maniera) dagli “editori”? Questo è il problema.

Il problema che non è più quello degli scrittori e basta: essere scrittori – da quando l’editoria ha spalancato le porte ai dilettanti, agli improvvisati e agli assassini, ai volti diventati noti per qualsiasi storia che la società dei media ha fatto ingurgitare al pubblico passivo prolassato neuronale per definizione – è l’aspirazione più funzionale a questo sistema culturale: bastano un editor (spesso anche no), un correttore di bozze (se c’è), un ufficio stampa (o gli amici sfigati su Fb), e un pubblico che non sia un pubblico di «lettori» – che in Italia non esiste quanto dovrebbe, ma esiste quando non dovrebbe -, e che siano quelli che implicitamente autorizzano chiunque non solo a scrivere, ma a cercarsi poi – di pari passo – un editore: chiunque e comunque esso sia. Siamo tutti scrittori e abbiamo tutti una motivazione per esserlo, non c’è dubbio. Allo stesso modo, tutti dipingono e credono d’essere artisti, tutti poetano e credono d’essere poeti, tutti suonano e credono… e così via. Perché no? Trovare un editore, dicevamo: questo sembra essere il problema, oppure non essere affatto, non sembrare – neanche – tale: visto che, da Lulu.com (adesso anche punto it) a un’interminabile ridda di nomi, pagare e “diventare di colpo «scrittori»” sembra invece che sia la cosa più facile, da un po’ di anni. Il colpo è la regola. Anni disastrati da un’altra cosa, che si chiama «conflitto d’interessi, e corruzione», e che – dopo aver vomitato milioni di parole sui media, nel parlamento, nelle sedi e le riunioni dei partiti che hanno avuto la loro occasione di eliminare il conflitto (chissà perché sprecata), nelle abiure di scrittori “dotati di etica”, nei sommovimenti viscerali di lettori schierati – continua, in sottotono, a far parlare di sé, anche dopo la presa di posizione di certo Vito Mancuso, e l’ennesima legge ad personam (“ad aziendam”, dice Antonio Moresco nel 2010) per salvare Mondadori (gruppo) dal fisco. Vicende ormai – in parte – sorpassate dai Saviano, eccetera. Brevemente, mi sembra utile ricordare, da quando Berlusconi “apprese” della morte di Formenton, quella che, in termini processuali, fu la vicenda che portò Mondadori, Einaudi, Piemme, Sperling&Kupfner, eccetera a diventare una proprietà di famiglia B. e un 50,41% di Fininvest: nel 2007 in appello Cesare Previti, avvocato Fininvest, accusato di corruzione giudiziaria, fu condannato a un anno e sei mesi; Attilio Pacifico, avvocato Fininvest, accusato di corruzione giudiziaria, fu condannato a un anno e sei mesi; Giovanni Acampora, anch’egli avvocato Fininvest, accusato di corruzione giudiziaria, fu condannato a un anno e sei mesi; Vittorio Metta, ex giudice, accusato di corruzione, fu condannato a due anni e otto mesi. Perciò, se lasciamo parlare le sentenze, Mondadori fu conquistata da Silvio Berlusconi grazie a una corruzione portata in atto da alcuni suoi avvocati di Fininvest, in altre parole la sentenza del gennaio del 1991 che annullava il lodo arbitrale fu conseguenza di una corruzione, altrimenti la cordata di maggioranza sarebbe andata a De Benedetti. Corruzione, corruzione, corruzione…

Per qualcuno, una dote che si richiede oggi a uno scrittore è – tra le altre (?) – quella limpidezza tale che consentirebbe a chiunque di non considerarlo un ignavo, quindi che non sia, apocalitticamente, vomitato dalla bocca di Dio. Un dio che potrebbe essere il mercato, quindi il naturale coagulo dei lettori-compratori – in una logica aziendale, ma che invece – s’intenda – in un «linguaggio teologico», quindi non aziendale…, trattasi bensì di una divinità che – per prima (si suppone) – debba stare lì ad animare e (con)sustanziare il primo gesto di uno scrittore: contaminarsi o meno di tutto ciò che vige e opera dietro il logo del suo (reale o potenziale) editore.

Per essere scrittori oggi (gli aspiranti tali lo sappiano!) in Italia bisogna assumere da subito i tratti militari dei difensori della civitas, della democrazia, della giustizia. Dulcis in fundo, dell’etica.

Altro che essere pubblicati o auto-pubblicarsi! Sempre per qualcuno, essere scrittori deve assiomaticamente suonare così: essere contro la corruzione. Ma come si può fare, nei fatti?

Lo scopo principale dell’assiomatizzazione di una teoria è proprio quello di costruire una gerarchia dei concetti che la costituiscono, in modo da organizzarla. Quindi, siamo qui per fare questo.

Nel gioco grottesco-danzante dei paradossi, si deve a Berlusconi se questo processo gnoseologico sembra essersi verificato: quanto è necessario conoscere ciò che si è, oggettivandolo e, inevitabilmente, lo si diventa ignorandolo? Trascurandolo? Sottodimensionandolo?

Va da sé che, d’un tratto, dovremmo appiccicare addosso ad ogni scrittore mondadori un marchio – magari sulla fronte, proprio come nell’Apocalisse – d’ignominia, che deriverebbe dall’aver avuto rapporti – contronatura, democraticamente parlando – con quella sudicia e conflittuale cloaca che inquina corrompendolo lo Stato italiano che – sappiamo bene, per excursus storico – è del tutto alieno a tutto ciò che, nel rapporto col potere, coi massimi sistemi, con le anticamere o i salotti dei circuiti clientelari, con le satrapìe del momento o del memento potrebbe – “adesso”, invece – straripare e colludere e diventare una minaccia aperta ed esiziale, allagando nauseabondamente in quell’alluvione cosmica e diabolica i luoghi deputati alla cultura, quindi alla formazione delle nuove generazioni e delle future classi dirigenti: le librerie. Anche le librerie. Finanche le librerie. Non escludendo neanche gli stores online.

La scrittura d’invenzione, la saggistica, la scrittura specializzata, la poesia, la satira, la scienza, l’opinionistica, i libri per ragazzi, le favole, i libri di cucina e di ricette… tutto potrebbe essere la naturale e contro-naturale pròtesi di quel piano gelliano che voleva – e vuole ancora – un’Italia soggetta alla peggiore dittatura granfratellista, populista, post-craxista, pseudoliberista e pseudopopolarista: una minaccia che dovrebbe – da sola – attanagliare d’orrore e d’abominio anche la più convinta vocazione a diventare scrittori. Basterebbe, da sola, Mondadori a scoraggiare. Il terrore di un marchio, se – nell’assenza di una così sviluppata coscienza civica, che qualcuno immagina ipertrofica – si dovesse aspirare a diventare mondadoriani, che oggi molti scrivono e pronunciano con altri termini (…).

In questa Italia ex dell’intellighenzia letteraria e altro, ora sembra che l’ingnorantia abbia sottratto (logandole o legandole) molte delle menti e delle penne in circolazione. Qualcuno dice «perché il gruppo Mondadori è l’unico a rendicontare e a pagare gli scrittori con serietà e professionalità»: anche se – di contro – frodasse il fisco, perpetuasse nella sua logica corruttiva il malcostume, schierasse la sua depauperata e cachettica immagine “culturale” e il suo frame (ammesso che esista) a sostegno degli attacchi – per esempio – che Berlusconi ha mosso a Gomorra (accusato di far pubblicità alla mafia: “Sappiamo tutti quanto abbia pesato e pesi l’omertà nella lotta alla criminalità organizzata… ma certo una pubblicistica a senso unico non è il sostegno più efficace per l’immagine del nostro Paese”, firmato Silvio Berlusconi), statisticamente parlando, quanti aspiranti scrittori se ne fregherebbero della questione etica? Non sono certo tutti assetati – come S.B. – inesaustamente di Immagine Italia!

Quanti vorrebbero vedere approvate e pubblicate le loro opere da Giulia Ichino e compagni?

Quanti invece s’interrogano sul giuslavorismo di Ichino pater collocato per riflesso di discendenza in un ambiguo contesto – al dire di molti, moltissimi -, talmente ambiguo da dare adito a sperticate e surreali indagini (intellettuali) dove non si fa altro che parlare di resistenza alla corruzione operabile solo ed esclusivamente dall’interno del sistema di potere e giammai da un esterno che nella realtà non sussiste affatto e che solo gli sciocchi ci crederebbero non avendo mai letto e semmai capito gli urli munchiani degli scrittori einaudiani, che s’interrogano senza posa, dall’interno o dall’esterno della loro Q, ma sempre e pur sempre dall’interno della gloriosa Einaudi? Quanta ambiguità c’è nel restare per organizzare la sommossa popolare-intellettuale dall’interno? E quanta ce n’è nell’andar via? Nel farsi ricattare dai censori del costume e da chi vorrebbe tracciare la linea ad altri, come qualcuno ha creduto di dover fare con Roberto Saviano?

Ammesso anche che il teorizzato boicottaggio di mister B, ad opera di scrittori, editors, direttori editoriali, lettori, eccetera sortisse un qualche realistico effetto, a chi si consegnerebbe, poi, dopo, lo strapotere di questa editoria? Una domanda lecita, non si creda che non lo sia: in Italia quello che può e deve preoccupare è che il dopo in genere diventa sempre peggio del prima, quindi…

La risposta di Marina Berlusconi a Saviano sulla questione critiche a Gomorra del padre – che, per caso, è stato anche il presidente del consiglio più longevo politicamente della storia dei governi italiani – mette in luce, nella sostanza delle sue apparentemente ingenue e spontanee dichiarazioni un aspetto delle cose che ha il sapore di una caramella comprata in farmacia: cos’è e com’è da considerare?, un farmaco o un brand per chi assume zuccheri solo a condizione che a venderglieli sia una croce verde? La farmacopea ci salva la vita pur nascendo in quanto veleno: bene. Il papà ha il diritto di muovere critiche. È il presidente del consiglio? È anche l’editore che ha pubblicato il libro a cui muove critiche? Certamente. Ma, certamente, è anche un uomo libero: tutto quello che ha fatto in diciott’anni di democrazia è appunto fondato sul concetto e sulla convinzione profonda di libertà. Ha finanche fondato un partito, il maggiore fino a un attimo fa, che coagula un popolo – addirittura – di uomini e donne e ragazzi e bambini liberi! E quanta libertà c’è nelle esternazioni libere di un presidente del consiglio ch’è anche un editore e che parla male di un libro che egli stesso ha pubblicato nella sua incontestabilmente netta forma mentis di libertà al di là d’ogni ruolo e responsabilità istituzionale? Molta. Moltissima: parlano i fatti. Non si crederà certo che B. in persona si metta  leggere quello che Marina, Giulia, prima ancora Antonio pubblicano? Scherziamo? Scherziamo. Né prima né dopo: chi crede che B. si metta a leggere Gomorra? Scherziamo? Scherziamo. Quando per esempio l’immagine internazionale della nostra bella Italia era compromessa dalle fotografie amatoriali dei turisti a caccia di sensazioni olfattive forti tra miliardi di chili di immondizie che oggi si chiamano monnezza e basta come la serie di Tomas Milian, il più grosso editore italiano era non poco preoccupato di come ciò potesse ridicolizzare l’Immagine Italia, screditarla e inibire quel flusso creativo ch’è l’industria del turismo, giustamente affidata a una Brambilla, e rivalorizzata sempre giustamente dal riflesso narcisistico che, per primo, deve permeare la scuola e gli studenti, facendogli se non altro intuire che l’Italia (o “un’Italia”) – il posto dove sono nati e dove voteranno un giorno nell’esercizio sacrosanto della democrazia – è quel bel paese che gli dà identità, non a caso, dove tutti c’invidiano bellezze che la scuola riverbera poi, giustamente affidata a una Maria Stella Gelmini, nelle consapevolezze delle giovani vite di cui uno Stato e un partito dimostrano di prendersi la giusta cura a partire – per esemplificare – dalla Domus dei gladiatori, giustamente affidata a un poeta, un vero poeta come un Bondi, che ha sofferto l’indicibile sulla propria pelle, della macchina del fango che si è scatenata anche per un’archeologia del presente che ha messo radici strumentali e surrettizie in quella del 79 d.C. Ma si sa: i veleni ci salvano la vita, non ci uccidono più; e la storia contemporanea diventa con immanenza addirittura passato, archeologia, maceria, disidentità nello stesso medesimo istante in cui si compie e qualcuno – assurdo – tenta di scriverla. La stessa ragione per cui anche tutta la campagna mediatica contro l’editore più grosso d’Italia, quello degli editti bulgari contro Biagi, Santoro, eccetera, nel nome di un’etico comportamento in sede di servizio pubblico pagato coi soldi dei contribuenti di cui il provetto premier si prende cura come un vero pater familias, per intenderci, viene volgarmente attaccato – ogni santo giorno per non diventare archeologia – per delle sciocche – nel senso d’insignificanti e non indicative o compromettenti -, puerili, fanciullesche ormonali e innocenti patonzate («insomma, la patonza deve girare!», intercettazione telefonica tra Berlusconi e un tale Tarantini), uno che telefona a tutte le ore al premier e gli dà consigli illuminati di gestione della cosa pubblica, oppure della cosetta che sta tra le cosce delle ragazze, queste povere e perseguitate ragazze strumentalizzate dalle tentazioni istituzionalizzate a cui lo stesso Oscar Wilde dice di cedere per polverizzarle. Più e più volte viene fatto intervenire alle festicciole Fabrizio Del Noce «è il direttore di Rai uno e della fiction su Rai uno, quindi uno che può cambiare il destino di queste ragazze!, ma si rendono conto – queste – che hanno a che fare con chi gli può cambiare il destino?!» (i.t. con Tarantini, ancora): insomma, al di là di questa spensierata goliardica gerontofania dell’ormone dopato dai farmaci e dal potere, che tra tutti i farmaci della farmacopea risulta essere il più efficace e pervicace alterando definitivamente lo stato cenestetico dell’editore più grosso d’Italia («a tempo perso il primo ministro»), tutta questa purezza, questa angelicata palestra della frequentazione sacrosanta della bellezza femminile disponibile, questa etica nell’uso della opportunità di raccomandare una ragazza o l’altra non all’editoria privata Mondadori oppure a Mediaset (si badi bene), bensì al servizio pubblico pagato dai contribuenti, tra cui anche gli aspiranti scrittori – disperati alla ricerca di un editore e pronti a mettere mano alla tasca per inventarselo dal nulla, «un editore» – c’è un popolo d’intellettuali che ancora trascorre le ore della propria esistenza, breve per definizione, a interrogarsi se affidare le proprie opere al gruppo Mondadori oppure no.

Qualcun altro se andar via da Mondadori oppure restare.

Qualcun altro ancora – è possibile? – se mirare a Mondadori per il proprio esordio, oppure no.

Una cosa è certa: l’Immagine Italia è il nucleo centrale etico del più grande editore italiano.

Quindi, scegliere Mondadori per mirare all’esordio su un editore è una scelta che va accompagnata da un’ottima dose di trascendenza, di fede nella libertà di esercizio del pensiero che – da sola – garantirebbe a chiunque di aver fatto la sola ed unica scelta seria, professionale e irrinunciabile in quell’universo così precario, reso tale da una cattiva abitudine di leggere solo quelle cosette di poco conto che vengono macerate-strizzate come mozzarelle di bufala campana alla diossina, per produrre quel latte grasso, da vacche grasse, e che ben indica la formula della fortuna additandola nefastamente a chi, della scrittura, ha fatto un piano e un obiettivo che si ponga nel rispetto dello statuario assetto di quest’epoca strabiliante per libertà, dove le camicie di forza di retaggi che definire obsoleti è poca cosa, rispetto alla vera capacità d’innalzarsi dai ruoli, quindi da quelle ipocrisie tombali che ci hanno accompagnato per anni e anni, dove tutto lo si nascondeva nella sacca malevola di un Eolo che soffiava poi solo nel nascondimento, nel dolo del segreto, mentre adesso è più luminoso-intercettato-consapevole di esserlo che mai: e questo – da solo – dovrebbe essere la garanzia più grande di libertà a viso aperto, per scardinare un passato vergognoso e definitivamente detronizzarlo e deistituzionalizzarlo perché falso, surrettizio, ipocrita, nauseabondo di fronte a tale purezza e spregio della retorica ipocrita di certe classi dirigenti di quel passato che ormai sprofonda nell’insana e subdola vocazione a voler rappresentare una morale comune che di comune ormai ha solo la disidentità del vero. Vero è che il potere viene sempre esercitato per scopi che poco o nulla hanno a che vedere con quella meritocrazia che non sia una meritocrazia reale di rendimenti e performances per arrecare piacere ai potenti, e solo a quelli. Alla luce di ciò, con una netta limpida inconfutabile coscienza bisogna affermare dovunque sia possibile che lo sguardo non raggiunga la vera sostanza delle cose, che bisogna guardare senza affettazioni moralistiche le cose del mondo, e gioirne. Se, per esempio, qualche aspirante scrittore c’è che voglia credere nella propria opera al di là di valutazioni che vengano da sedi istituzionali dell’editoria, e che potrebbero demotivarlo, farlo traballare, anche, nella sua certezza precaria in cerca di conferme da addetti ai lavori, ebbene ci si ricordi sempre e comunque che è grazie al fatto che un editore si è messo a fare anche il presidente del consiglio che tanta, cotanta verità e nudità (nuda veritas) e trasparenza sono venute a galla determinando un’Italia diversa, finalmente!, che ormai veleggia verso una totale libertà meritocratica. Se, dunque, riceverete un rifiuto da Mondadori, allora interrogatevi su quanta schiettezza ci sia nel vostro testo; quanta nudità pari a libertà abbiate scritto; quanta onestà intellettuale vi siate caricati sulle spalle e sulle penne; quanto ciò che vorreste comunicare ad ad altri possa realmente reggere il confronto con l’onestà e la limpidezza che l’editore più grosso, ma anche più illuminato d’Italia ha saputo incarnare per tutti, con la consapevolezza piena e determinata che il confronto non sarà facile per nessuno.

Se dovesse restare alla fine quale unica possibilità affidarsi a quegli angeli inviati dal Signore misericordioso che nella loro misericordia vi pubblicheranno per duemila o tremila euri, allora abbiate considerazione che comunque non avrete alterato di un micron la vostra posizione in questa società, e, in questo, ci vedo una profonda, religiosa coerenza delle cose e del fato: se, da un lato, il confronto etico con un uomo insuperabile che detiene anche lo strapotere dell’editoria libraria vi ha visti perdenti perché non abbastanza meritocratici, dall’altro le braccia aperte degli editori a pagamento avranno ristabilito la loro fraterna apertura in quell’afflato universale che fonde i perdenti in ogni caso. Per essere vincenti, è necessario o essere bellissime ragazze dispensatrici di giovinezza e spregiudicatezza e apertura (mentale), oppure essere voi quei compagni affettuosi leali rotti a tutto per autentica amicizia anche a farsi indagare e magari condannare da qualche invidioso magistrato ormai relitto di una società che va scomparendo, come Tarantini. Eppure, se tali questi ultimi voi foste, allora non avreste una ragione di scrivere: quelli veri come Tarantini non scrivono, telefonano.

Salvatore Maresca Serra, Roma febbraio 2012

Noam Chomsky DOPO L’11 SETTEMBRE

LA NOSTRA IDENTITA’ Lettere agli amici

Cari amici, percepisco da tempo che si è consumata una stagione politica e del costume: vi sono tutti i segnali, le avvisaglie dei fermenti che si coagulano in un distacco – nel comportamento – dalla passione politica, ma anche dall’euforia dopata che ha accompagnato – in alcune aree culturali deboli – quella forma odiosa di edonismo spiccio figlio della televisione. In apparenza questo, ch’è uno dei fenomeni in progress, potrebbe sembrare una sorta di nichilismo, o di sconfitta della società che scivola ineluttabilmente nella depressione post-crisi. Io ritengo invece che si tratti di una riflessione placentare, che possa “presto” generare una coscienza che si va nutrendo – nelle generazioni che si affacciano – di una osservazione prospettica senza precedenti. Con tutta probabilità è vero che si tratta di un “pensiero debole post-moderno” anch’essa, e ho la sensazione che sia stato anche di passaggio nel tentativo di analisi corretta che generazione TQ ha fatto di recente da Laterza a Roma. Ho seguito con interesse questo incontro. Vi sono state cose che condivido, e altre che mi lasciano estremamente perplesso, ma una cosa è certa: i gangli che innestano nel tessuto vivo e reale gli intellettuali sono – indiscutibilmente – da (re)individuare. Sia che li si cerchi dalla visione del popolo (alquanto improbabile), sia – come detto – che siano gli intellettuali a lamentarne sulla propria pelle la deprivazione; oppure l’assenza; oppure la mistificazione deformante che viene dalle leggi del mercato, nel caso specifico che riguarda gli scrittori. La saldatura tra pensiero e comportamenti si è dissolta con la reificazione; se c’erano tracce ancora presenti di possibili ideali, ebbene esse sono state anche travolte dal sospetto che potessero tramutarsi nuovamente in spinte ideologiche. Nell’alveo di una propaganda a cui le menti di molti hanno ceduto, assumendo per vera la strumentalizzazione che si è fatta dello spettro del comunismo, delle strategie staliniste, e dove l’antifona della “demonizzazione dell’avversario politico” – oramai destituita d’ogni credibilità, agli occhi degli uomini “medi” – in passato, ha visto arruolare moltissimi giovani nella destra populista berlusconista. In apparenza, il mondo s’era fatto un oggetto talmente veloce che un possibile ideale poteva essere di troppo, se non paradosso materialistico-edonistico,​ e – dopo la crisi – di sopravvivenza delle ambizioni di benessere (scardinando comunque la tensione propositiva di partecipazione alla società civile: luogo di tutti, e dove tutti dovremmo rifondare, testimoniandoli quotidianamente, i valori che la reggono in piedi). Mi ritrovo a domandarmi spesso se una vera solidarietà anima ancora gli atti e le scelte di chiunque. Pur consapevole che una società reale esiste ancora, e di cui sento di fare parte, mi sforzo costantemente d’individuarla anch’io, anche qui. È indispensabile coagulare in ogni modo le persone che stanno realizzando la riflessione di cui dicevo pocanzi. La prospettiva nuova potrebbe essere dotata di una sua forza, solo a condizione che operi un taglio orizzontale e netto. E ciò credo sia possibile solo se ci sarà un superamento di ciò che solo uno stato nascente possa determinare in quanto “vecchio”, inadeguato politicamente, obsoleto nel pensiero, archiviato nel passato al solo scopo di farne un monito per le generazioni future. Bisogna eliminare tutto ciò (e chi) che ha fatto presa sulle paure di alcuni, le xenofobie, i razzismi, le prevenzioni, i preconcetti. Ripartire dalla solidarietà, nel lavoro, negli spazi condivisi culturalmente, nello stare bene insieme, nella stima delle menti fertili e oneste. Intanto… In definitiva, solo riappropriandosi dell’identità, è possibile concepire una estensione di essa che inerisca alla funzione sociale di ognuno. Una identità che sappia guardare oltre questo immaginario e mendace steccato e concreto stercato. La politica non deve mai più dividere, a patto che si fondi sull’onestà del binomio amico-nemico, necessario alla trasfigurazione… Spero molto in questa riflessione.

Cari amici, vi ho letti tutti con attenzione e passione, arricchendo le mie possibilità prospettiche e confrontandomi con il vostro pensiero puntualmente preciso, quindi oltre modo responsabile. Affatto, è il senso di responsabilità individuale ch’è al centro della mia riflessione, nell’ultimo post. Una responsabilità che non può prescindere nella sua realizzazione collettiva-partecipativa dal senso della cultura. Là dove – in questa attualità dell’Italia – sembra che, spesso, l’interfaccia tra pensiero ed azione abbia perso di efficacia, e tragicamente. Evidentemente, il pensiero sgorga e lo riteniamo tale solo da questa responsabilità che accusiamo sulla pelle, con sofferenza, vedendo l’idea che abbiamo della società e della politica ridursi a mera mistificazione, figlia della reificazione. In altro luogo scrivevo che gli impulsi mortiferi, esiziali di un contrabbando di idee (tali solo in apparenza, nella loro strategia) hanno portato masse di persone a fidarsi di una visione dello stato uguale azienda, di berlusconiana memoria. Affatto, molti hanno preso per buona questa pseudoconcretezza che gareggiava impropriamente con un materialismo filosofico che ben conosciamo, e che – personalmente – del pensiero marxiano, ritengo una perdita sciocca e scioccamente deturpante (nella sua alienazione) del volto etico delle sinistre italiane che vi hanno rinunciato storicamente. Ben diverso, e abissalmente distante da ogni tentativo di prenderne un pezzo (la parte dei padroni-manager-imprendito​ri) e proporla in quanto misura del concreto, quindi del pragma, contrapponendolo alla visione idealistica della solidarietà e della sacrosanta equiparazione di ognuno all’altro, dove la proprietà diventa e rimane semmai un volano inalienabile della collettività tutta. Si è giocato molto e molto con disinvoltura con le persone, con i giovani, con la loro consapevolezza in formazione, riguardo ad un taglio chirurgico col passato vocato all’ideale comunista. Usando la demonizzazione di termini e concetti, là dove “comunista” poteva essere un’ingiuria assimilabile al totalirismo, ai GuLag, allo sterminio operato nelle repubbliche socialiste e nelle epistemi del comunismo sovietico quando c’era da cancellare testimoni del vecchio e dissidenti, rispetto ai trasformismi delle nomenclature. Nell’immaginario di molti sprovveduti, il populismo neoliberale berlusconista si è posto come sentinella della libertà di progredire nel benessere individuale, esemplificato, quindi incarnato, dal self made man Berlusconi, leader di un sogno collettivo, che ipotecando anche una naturale emulazione individualista di molti italiani, ha giocato – come dicevo – su uno squallido spauracchio, dove i comunisti riprendevano a mangiar bambini. Ma anche a sbarrare la strada dell’autoaffermazione. Mentre, invece, ognuno di loro faceva i fatti propri, strumentalizzando opportunisticamente tutta la cosa pubblica. Gli esempi degli scandali di fronte alla barca di D’Alema, ai vestiti radical-chic di Bertinotti, alle ricchezze delle coop rosse, eccetera devono farci ricordare quanta pochezza si è inoculata strumentalmente nelle menti di molti ch’erano disposti a credere ai politici, anziché alle correnti di pensiero libero. Resta il fatto che, alla base di ogni disgregazione del valore marxiano come faro culturale, si è imposto nuovamente lo spauracchio dell’accusa di essere dei cadaveri che volessero continuare su un’idea assurda quanto colpevole di totalitarismo stalinista. Là dove – storicamente – forse qualcuno non ricorda che da Togliatti a Berlinguer i fischi presi al Cremlino per aver nominato solo la parola “democrazia” ancora risuonano nell’eco dei nostri leaders di sinistra… Chi ricorda la Gladio di Cossiga e altri, potrebbe facilmente congiungere il tutto in un corpo unico e comprendere quanto di strumentale e grottesco ci fosse nel disegnare una possibile invasione potenziale delle URSS nel bel paese. Anche tutte le tensioni a cattorifondare una sinistra non hanno emendato i “leaders” venuti dopo dallo sciocco imbarazzo che hanno capitalizzato di fronte alle accuse che ho menzionato, e che hanno poi trovato fertile terreno nella caduta del muro di Berlino.

Mi è indispensabile questa lunga (per questa sede) premessa. Quello che sto dicendo è che, depotenziando con queste farneticazioni l’area di sinistra progressista in Italia, si è fertlizzata la strategia del populismo di destra. Il risultato è che l’opposizione che oggi abbiamo al governo di centrodestra è deprivata della sua radice più nobile, simile ormai ad un’arma scarica, incapace di mirare sulle nefandezze e i soprusi, se non in modo disintegrato e anacronistico. Evidentemente, il dividi et impera di Berlusconi e compagni ha sortito un effetto tangibile in tutti questi lunghissimi 18 anni. La precarietà costituzionale dei governi Prodi, le tensioni irrisolte e irrisolvibili all’interno delle alleanze di sinistra hanno fatto il resto. Giusto per fare un esempio alquanto mortificante, la questione no-tav, che oscilla tra Bersani e Vendola in modo teatrale, e che mostra il fianco al martellamento demolitorio della destra, mi sembra estremamente emblematica – per sintetizzare – della situazione in cui versa l’aggregazione potenziale della sinistra per rappresentare una alternativa possibile al governo attuale. È necessario andare oltre. Ricompattare “oltre” i progressisti italiani, con una spinta che solo dal basso io ritengo possibile. La pressione è ipotizzabile solo se allocata in una nuova possibilità di dialogo democratico, ma che abbia in sé una pensiero vivo e rappresentativo, e che non è possibile ipotizzare possa venire da nessun leader che sta nell’agone della politica-partitica attuale: deve venire dall’esterno. Questo cosa vuol dire (quando parlo di onestà, e non solo intellettuale)? Quando anche menziono una individuazione della potenzialità di rifondare in uno stato nascente la saldatura tra pensiero e azione. Voglio dire che ogni area destinata a diffondere pensiero e cultura dev’essere riscattata dalla prigione del libero mercato (tra virgolette), imposto dalla fenomenologia del presente. Un presente del tutto mistificato nella sua portata materialistica di stato-azienda. Un falso nauseabondo. Uno stato si regge sulle spinte idealistiche, anche facendo a meno d’ogni ideologia, ma ricuperando le idee. La buona amministrazione della cosa pubblica non è paragonabile ad un ‘azienda: questo è ridicolo e cialtronesco. Sia chiaro. Non c’è antistatalismo o antidirigismo che tenga. Perché allora sarebbe mille volte meglio avere una gestione statalista sana, anziché una indiscriminata vocazione all’individualismo bieco resosi possibile – teoricamente – in uno stato alleggerito e liberale che si limita a timbrare protocolli di ladrocini. È necessario avere punti cardinali di riferimento in liberi pensatori. E questi uomini e donne di pensiero non debbano mai soggiacere al ricatto dei politici a scendere nell’agone. Bisogna solo plasmare il pensiero dei futuri politici su una matrice di onestà e solidarietà. Visto che forse è impensabile fare un programma attuabile nell’immediato in questa generazione. Abbiamo, grazie a Dio, già delle voci capaci di raggiungere il connettivo sociale: l’importante è che ci si faccia tutti testimoni di questa realtà, plausibilmente ampliandola e sostenendola. Il che vuol dire anche avere delle “parole”, avere degli “scritti”, avere questi punti cardinali che – dalla riflessione in poi – facciano tremare i palazzi del potere. Io credo in questo, e non vedo altra strada da percorrere. Non ci servono amministratori che abbiano il pensiero: non ce l’avranno mai. Abbiamo bisogno di rinascere in quanto pensiero. Per questo affermo che, partendo dal basso, si debba giungere a far partorire al popolo i suoi figli più capaci di generare e diffondere un pensiero che si traduca in scelte e rappresentanze politiche. Ci serve il nuovo. E bisogna crederci, qui ed ora. Fuori da ogni clientelismo. Ripeto: non vedo altra strada davanti a noi, se non un progetto sul medio periodo. Inutile farsi illusioni. Serviranno anni, decenni, ma bisogna cominciare adesso a riappropriarsi dell’identità culturale, dopo tutti gli inganni e i giochini fatti da chi ha inteso deprivare le persone della loro più spontanea identità.

Salvatore Maresca Serra – 7 Luglio 2011

I PADRETERNUCCI – Salvatore Maresca Serra

E’ buona norma igienica – nonsolo in periodi di epidemie influenzali o miasmi “politici” – tenersi a distanza di sicurezza da taluni, in particolare, che stanziano – come acari depositati indefessamente e infestantemente – sulla moquette degli studi televisivi, nel costante calpestio delle suole (a Roma diciamo “sole”), o nelle rubriche dei giornali (leggi “organi di sputtanamento politico”) che nessuno legge mai se non qualche sfigato masochista quotidianista (la maledizione del quotidiano saccente), tra le puntate radiofoniche redazionali (dove qualche editore – si fa per dire – compra o detiene spazi promozionali mascherati da interviste di ambizione culturale, nell’amena speranza di piazzare qualche copia in più dell’ultima fatica letteraria stampata, immensamente faticosa solo per chi decidesse di leggerla davvero), oppure incontrandoli in qualsivoglia topos o “postribolo” di prima, seconda o terza serata, in rete, o in qualche bar dov’è meglio non consumare.

Perchè e chi sono quelli da evitare?

Partiamo da questo: se ne incontrano d’ogni tipo, livello (perchè sono svariati e quantificabili), e traviazione. Per esempio, la traviazione del vecchio e caro “disturbo della personalità”, a cui eravamo abituati con un certo pittoresco affetto, quando si proclamavano Napoleoni o Gesùcristi: oggi le identità millantate e le schizzofrenie – come tutto, d’altronde – sono cambiate (in apparenza).

Ciò che persiste immutata, invece, è la sindrome dei “padreternucci”. Di cui sono affetti. I sintomi? Si manifestano repentinamente: uno o due libricini dati alle stampe, due o tre ospitate in tv, una recensione pilotata, un ufficio stampa che si scapicolla per inventarsi una “sostanza” che non c’è…Insomma, basta questo. Se poi ti becchi anche un premio, allora non saluti più neanche tua madre (aspetti che sia lei a farlo)… Le comunità per le tossicodipendenze si guardano bene dall’accoglierli essendo esse stesse – spesso e volentieri – fondate e gestite da omologhi patetici patologici figli di puttana. A ognuno il suo. L’importante è coglierne il dato settico comune: la coprofagìa. Affatto, amano, nel loro percorso, leccare alla fonte l’escremento. Far di necessità “virtù”. E’ l’unico motore di cui dispongono, e anche l’unico propellente che li sposta e li muove verso le loro mete. Ma qual’è la meta di un acaro che sogna d’essere un padreterno? Partire dalla merda per raggiungere il cielo (del successo), suppongo. E, supponendo, immagino che sia un po’ come quella supposta che sognò di diventare missile. Crisi d’identità estetica. E quindi di destin-a-zione.

Parlare troppo da vicino con questi microbi espone al rischio di assorbire per via aerea la summa delle scorie di tutti i culi che hanno leccato.

O non li avremmo mai visti apparire con le loro testoline da circostanza: faccette tutte uguali e spiritate; voci stentoree che s’imitano a vicenda; posture ad hoc apprese sul cesso la mattina dai manualetti del linguaggio del corpo; abbigliamento distintivo dalla massa (piccolissimi particolari trasgressivi che aspirano a generare mode negli insicuri dipendenti da modelli a buon mercato).

Ce n’è per tutti i gusti. Ma la costante è sempre una e asfissiantemente banale: distruggere (o tentare di farlo) quelli che li hanno preceduti nel cammino onirico della supposta. Sono strateghi da strapazzo; cercano affannosamente i contraddittori per tentare di far emergere quell’improbabile residuo d’attenzione che l’italiano medio – disperato dalla cassa integrazione o dalle rate morose del mutuo – espelle tra uno sbadiglio e un altrettanto teratogeno tentativo d’evasione, mostruoso almeno quanto lo stesso riflesso che ne scorge nel video, quando si concede un’immersione in apnea nella spazzatura televisiva. L’attenzione – si sa – va costantemente espulsa in quest’Italia preidrocefala (manca pochissimo) e postintellettualoide. E’ un corpo estraneo. Una zavorra. Un problema da lettino dello psicoanalista. E poi, stare attenti a chi e perchè!

Nonostante ciò, il sistema immunitario stanco e provato che giace stravaccato e molle sulla poltrona davanti allo zapping – tra un consiglio e l’altro che faremmo bene a riciclare come spettacolo (almeno è innocuo perchè dichiaratamente commerciale) – ogni tanto apre una qualche falla e diventa permeabile. Inizia la cultura (si legga “Televendita”).

Ecco che l’acaro si cimenta a insinuarsi, si mette in comunicazione con quelle onde cerebrali ormai acritiche per stato crepuscolare, e – come fosse per esse  l’inizio di un normale low profile dell’ennesimo incubetto da stress della giornata -, forte del suo sterco che lo ha sponsorizzato, l’acaro ce la mette tutta e materializza il suo delirio di onnipotenza. Tutto il suo non essere prende a tentare d’essere. Una fatica dimesionale immane, impossibile, che però gli riesce facile (è noto che i visionari non accusano stanchezza né dubbi). L’acaro si muta in mammifero roditore. Rosicchia ogni secondo in più che può ingurgitare al conduttore che lo argina grottescamente (bestemmiando in sé). Affastella contrazioni autistiche delle parole per disperatamente dilatare il tempo che l’ultimo sfintere leccato gli ha concesso, tanto nessuno farà distinzione alcuna in ciò che vaneggia. Urla. Inveisce. Sgrana controllatamente gli occhi per tentare un’ipnosi subliminale. Sviscera tutte le strategie lungamente studiate per compiere il volo mediatico verso le menti aldilà delle telecamere, menti idiotamente visualizzate come bersagli al tiro a segno del luna park sotto casa. Niente elefante peluche o pesce rosso, solo notorietà, notorietà, notorietà, visibilità, visibilità, visibil…à, à , à! Se fai centro, qualche disperato assonnato ricorderà per qualche ora la tua faccetta, i tuoi calzettoni, la tua acconciatura, e magari l’ultimo libercolo che hai travagliatamente partorito e che descrivi come l’ultimo (ma il primo) dei capolavori letterari.

Questo è un tempo in cui dal video sparano di tutto.

Se prima era “Non è mai troppo tardi”, adesso è “Forse facciamo ancora a tempo”…

E, come Sigmund Freud aveva preconizzato, siamo in quell’immane mercato dove, alla fine, ognuno va a vendere se stesso.

Forse siamo all’Apocalisse: ognuno può comprare e vendere solo se ha quel segno sulla fronte (sarà mica 666…meglio sono sono sono).

Reificazione dell’ego? Reificazione dell’ego.

Una novità? No: una cosa già stravecchia (senza botti di rovere, solo muffa) come tutto. La Storia non si scrive più: la si espelle giorno per giorno, cialtrone per cialtrone.

Per questo – ogni volta che qualcuno ci riprova – aumenta il volume di merda che circola nell’aria. Evidentemente, qualche fesso che compra ci sarà sempre.

Come nel dipinto di Hieronymus Bosh, l’ano dei potenti si dilata e sfinterizza una marea di stronzi. Ognuno di essi è un padreternuccio: ovvero, un eternuccio padre. Perchè? Perchè a cosaltro di più alto si potrebbe mai aspirare nel delirio d’onnipotenza che produrre emuli-figli e figliucci? E non sono forse tali quelli che vediamo autoreferenziarsi laddove non c’è alcuna ragione di mettersi in cattedra? Figliucci elettivi di vergogne di vergogne. In realtà dovremmo non vederli perchè sono dietro la lavagna, castigati dal loro stesso ridicolo status quo.

Pupazzi di un regime politico che – da sempre – piazza in video e sui giornali  una selezione autonoma (figurarsi) di facce nuove, culi e tette nuove, deliri nuovi, talenti nuovi, parolai nuovi…

Sembra tutto nuovo. In realtà l’unica cosa che si rinnova purtroppo ad ogni ora che passa è l’indifferenza che produce il degrado in cui versiamo. Più aumenta, più emergono i pupazzi. Inespressivi, omologati, illusi, volgari, incapaci, deficienti, grotteschi e maleodoranti padreternucci di varie “discipline” che occupano clandestinamente per il solo merito indiscusso di avere lingue d’acciaio. D’altronde, i potenti hanno culi forse flaccidi, ma inscalfibili e insaziabili. E tutti lo sanno. Tranne i padreternucci. A questi, niente eternità, solo eternuccità.

Salvatore Maresca Serra, Roma 1 Febbraio 2011

SEGMENTI

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Ci sono solo segmenti, segmenti di vita, che segnalano lo scorrere del tempo su linee ideali. E così i percorsi dei sentimenti, delle speranze e delle passioni, disegnano a tratti il loro – e il nostro – volto. Appaiono come luci improvvise. Poi si spengono.

Quando avverto che un frammento del mondo ideale ha affiancato la mia esistenza, quello è il momento in cui tutto è già terminato. La vita mi appare allora come una pianta nomade, alla ricerca di un terreno solido, stabile, che duri il più possibile, e che non mi costringa nuovamente e dolorosamente a migrare ancora. A cercare ancora. Eppure tutto si ripete in un copione che non si può riscrivere. Anche se i miei sentimenti non sono mai cambiati. Non possono. Quindi, cos’è che cambia?

Forse tutto questo si palesa a chi è alla costante ricerca di ciò che non può mutare, e solo a lui. Come se cercare l’eterno ti sottoponga alle infinite metamorfosi del tuo essere. Diversamente niente di questo ci apparterrebbe, e noi apparterremmo solo ai giorni. Mentre invece mi ritrovo a sognare un tempo dove un solo giorno esiste. Un giorno infinito, mai cominciato, e per questo al quale è ignota la fine. La sua fine. E quindi la mia.

E’ l’esatta sensazione che proviamo quando una musica rapisce il nostro istinto, quando raggiunge in noi quel piacere che non riesce – per un solo istante – a immaginare, a supporre, che il rapimento cesserà. E’ quell’istante a svelarmi che in me il desiderio di eternità c’è. Ed è solo questo che conta: l’aver viaggiato nell’infinito giorno dell’ideale.

Un altro breve segmento rubato a quelle linee. Un altro istante in cui la fine ha cancellato l’essere.

La nostra memoria dev’essere brava a raccogliere e conservare in un tutto unico questi istanti. Perchè la nostra vera vita è tutta lì. Nel rimpianto di ciò che avremmo potuto essere se solo ne avessimo conservato la memoria.