Arte

“Orchestra” – Salvatore Maresca Serra

Olio su tela cm 84x139

Olio su tela cm 84×139

Alfredo Meluccio, l’istinto del colore

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Alfredo Meluccio, forse per dar ragione ad André Malraux, diventa pittore
fin da ragazzo non per imitazione della Natura, bensì per amore di altri
pittori, aggirandosi con lo stupore negli occhi per le gallerie degli Uffizi, in
quella magica Firenze dove compie gli studi superiori, ed è grazie a questo
soggiorno che noi oggi possiamo guardare nei suoi dipinti quanto fossero
grandi, già da allora, questo amore, questa passione, questo istinto del colore.
È affatto da giovane che Meluccio si immerge nella bellezza, conservandone
le stimmate per tutta la vita, armonizzandosi anche per gradi tecnici e di
ricerca, speculazione, curiosità, deja vu, proiezione con la sfera psichica del
linguaggio di ciò che chiamiamo Arte. Senza voler perseguire utile altro che
la capitalizzazione interiore di ciò, arricchendosene – senza dubbio – come
farebbe chiunque altri che guardasse oltre la superficie delle cose per
carpirne i segreti, mantenendo intatta la meraviglia di esse per sperimentarne
la sostanza sulla propria pelle. Poi e da solo. E solo per questo.
Per secoli i pittori hanno utilizzato ogni possibile mestiere per sopperire alle
deficienze d’ogni genere e rendere la visione delle proprie opere confacente
ai gusti dei committenti, dei critici, dei mercanti e del pubblico: il mestiere ha
accompagnato la laboriosità indefessa delle botteghe, degli allievi, dei
maestri. Meluccio è un pittore allo stato puro, senza alcun mestiere, senza né
trucchi né tantomeno artifizi, quindi compromessi. I suoi lavori lo rivelano, in
quella nudità dove non sussiste mediazione concettuale o tecnica, ma solo
purezza d’intenti. Il suo obiettivo è sempre centrale: dipingere, ovvero
maneggiare in libertà il colore per sperimentarlo nell’emozione.
Non vi sono altri intenti ed è bene tenerlo presente sempre nella visione delle
sue opere: niente mestiere e solo passione. Diletto allo stato puro, come
affermava Edgar Degas nella Parigi del XIX secolo, quale conditio sine qua
non dell’arte.
Ciò nonostante, Alfredo Meluccio è un affabulatore che talvolta “usa” la
pittura per raccontare storie, ma questa con tutta probabilità è la parte di sé
dove si riveste d’ogni nudità e mette in campo le sue capacità letterarie, che
pur sussistono e scandiscono momenti di racconti di vita, di fantasia e libertà.
Il pittore che non deve sottostare a tutti i costi a coerenze stilistiche si fa
plastico e multiforme, eclettico, a volte contraddittorio, eppure mai
conflittuale: tutto converge comunque sempre in quell’armonia alla quale ci
invita a guardare, oppure ci obbliga quando è impattante nell’estro e diretto.
Come ogni autore Meluccio ha creato un suo mondo di cui è il dominus,
senza vane glorie, senza celebrazione dell’effimero che non sia invece
citazione postmoderna di esso come nell’ultima produzione dove si confronta
col ritratto multiplo femminile, filtrato dalla moda e dalla pubblicità. Di pari
passo, così padrone del suo mondo, Meluccio – quando ne avverte l’esigenza
– non si sottrae al tema sacro, all’uso anche magico del colore, anche
simbolico, spirituale, immergendosi/ci in distese di rossi vermigli e verdi
veronesi, di blu manganesi o gialli cadmi, e così di terre di siena e rossi
veneziani o pompeiani… Conferisce agli incarnati tonalità spesso chiare e
luminose affinché si riflessino dei colori scanditi dagli abiti o dagli sfondi,
una antica maestria alchemico-cromatica che ritroviamo a ritroso nelle tele
dei grandi ch’egli ha studiato e di cui, per puro istinto, si è contaminato.
Meluccio è un pittore interessante e sempre gradevole, dotato di un rapporto
col colore istintuale che fa di lui un’oasi di libertà creativa.

Salvatore Maresca Serra

 

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È in corso fino al 25 Aprile 2014 una esposizione personale del pittore presso la sala storica ex Dogana dei grani ad Atripalda AV.

L’artista è presente nel pomeriggio

ACHILLE BONITO OLIVA

Achille Bonito Oliva,

Io cavaliere solitario, intellettuale non conformista

ABOminevole, uno Yeti nel mondo dell’arte. Viaggio nel sistema del narcisismo tra chi passa alla storia e chi alla geografia… gli artisti di oggi con la ventiquattr’ore.

Professore, abbiamo un amico comune che tra l’altro viene dalla mia città che è l’Ingegnere Gianni Silva.
Sì, grande amico mio, persona di qualità – Presidente di MetroNapoli – è un monzese che è riuscito a fare a Napoli ciò che un napoletano non avrebbe mai potuto fare.
Riordinare il sistema dei trasporti?
No, non solo i trasporti, un uomo che ha una vitalità, un ottimismo che in ogni caso evince sulla cultura del ritardo o dell’umorismo ad oltranza tipicamente napoletana. Con Silva stiamo facendo un lavoro, con » Le Stazioni dell’Arte abbiamo già accumulato 140 opere di grandi artisti mondiali inserite nelle stazioni dei grandi architetti, un fenomeno che non ha precedenti in nessuna città del mondo e trovo che Gianni Silva viene da questa città che tutto sommato mi fa grande simpatia anche per quella bella Villa Reale che voi avete… e poi c’è anche una buona casa editrice, la Johan & Levi.

Una casa editrice a Monza?
Sì, lei si chiama Giovanna e il marito è un grande imprenditore farmaceutico (Lucio Rovati» Rottapharm). Questa casa editrice, Johan & Levi, fa dei libri straordinari: ha tradotto la vita di Marcel Duchamp, ha fatto un libro, una biografia su Rauschenberg, fa molti libri buoni, molto importanti.

Un parallelismo ardito: ABO come Gio Ponti “uomo del fare”. Si offende?
Ma vogliamo scherzare? Gio Ponti è il padre dell’eclettismo, dell’architettura e del post modernismo; ha profetizzato un atteggiamento rilassato quasi pre-transavanguardistico. L’intreccio tra astratto e figurativo, il passaggio da un linguaggio all’altro, il nomadismo culturale, il gusto per la manualità, la ceramica, la policromia è uscito fuori dal clima quaresimale del movimento moderno, dalla rigidità del nazionalismo. Gio Ponti è stato profetico come architetto e come intellettuale e a lui dobbiamo anche una grande rivista che è stata Domus.

Dobbiamo? Al passato?!
Sì, ma adesso però abbiamo una speranza, è tornato ad essere direttore Alessandro Mendini, un mio compagno di strada, un grande architetto e designer… spero che ne possa rinverdire i fasti, seppur i tempi sono cambiati e, come dicevo, non bisogna mai regredire ma riuscire a confrontarsi col proprio presente seppur complesso.

Per essere uno che vive all’avanguardia, lo sguardo è sempre rivolto al passato. Dal Manierismo in poi la definizione dell’artista come artigiano…
Io più che artigiano lo definisco artefice e poi deve pensare che ho scritto un libro che si chiama Passo dello strabismoFeltrinelli, 1981 – un occhio al futuro e uno al passato per vivere il presente e poi io dico sempre che… insomma un occhio all’arte e due alla vita.
Professore, lei si è definito un traditore nella sua attività di critico, ma l’ha mai tradita qualcuno?
Traditore come posizione filosofica ed è una posizione che riguarda tutti gli intellettuali e gli artisti, ma non da adesso, dal ‘500 in avanti. Dopo il rinascimento un’artista, l’intellettuale assume questa posizione nella lateralità che è la posizione della riserva mentale di chi guarda il mondo, non l’accetta, vorrebbe modificarlo, non agisce con un’azione immediata ma riflette e questa riflessione avviene nel campo dell’allegoria, della metafora nel campo del linguaggio. È un tradimento filosofico di cui io parlo e di cui me ne faccio carico. Perché lei invece mi fa una domanda molto più, come dire, da Mosconi come si diceva una volta, o come gossip, come notizia di cronaca rosa, nera come vuole lei e io francamente non mi sento tradito. Un vero traditore nel suo piano filosofico, come ritengo io di essere, è come dire… ritiene che quelli che lei chiama tradimenti sono piccole scorrettezze rispetto al grande tradimento che è la vita, il mondo ecc ecc.

È passato quasi mezzo secolo dalla sua partecipazione con un gruppo di intellettuali che avrebbero dato vita all’attività culturale contemporanea. Oggi ci sono le condizioni per la nascita di nuove avanguardie?Il Gruppo 63 ed anche il Gruppo 70 erano due gruppi d’avanguardia assolutamente irripetibili, nati in un momento particolare, quando l’Italia si avviava verso il boom economico, c’era un clima di euforia, di trasformazione, un ottimismo produttivo, direi anche di idealità in ogni ambito che permetteva di armare ogni azione di buone intenzioni quindi quei gruppi, per esempio in Germania si chiamano Gruppo 47… nel dopo guerra c’erano questi gruppi e questo è successo fino agli anni ‘60, gruppi che costituivano delle contro comunità, era un vivere insieme, un discutere, c’era una grande complicità e grande senso del gioco nel desiderio di rinnovamento dei linguaggi, nel costume e nel comportamento. Diciamo però che quello è uno zoccolo duro che non si perde nel tempo. Vede per quanto mi riguarda mi sento ancora armato ma diciamo di quell’entusiasmo, di quel piacere, di quel senso di scoperta, di quel gioco, del piazzamento, del nomadismo; il bisogno di movimentismo che continua ad armare il mio lavoro, la mia vita nel pubblico e nel privato, quindi io non ho nostalgia, non ne ho mai avuta e non ho pateticamente mai bisogno di tornare là dove sono stato bene, nemmeno in vacanza, vado sempre oltre ma sicuramente essendoci già stato, in vacanza, sono pronto a combattere di nuovo.
Quindi non si sente, come direbbe nel suo libro Pierluigi Battista – I conformisti. L’estinzione degli intellettuali in Italia, Rizzoli, 2010 Bernardo Bertolucci – un conformista intellettuale?
No… No… io non mi sento né un conformista (a parte che Il conformista è un bellissimo film – Bernardo Bertolucci, 1970 – forse il più bello di Bernardo Bertolucci, bellissimo, molto molto bello)… conformista intellettuale è un ossimoro, è una contraddizione. L’intellettuale è qualcuno che vive in un sistema di crisi come il pesce nell’acqua, un intellettuale è quello che non ha sponde e non le cerca, è quello che può dare il meglio di sè perché in fondo la cultura è proprio riflessione, è domanda sul mondo, non è soluzione. Quindi il conformista invece è quello che vive al riparo nelle convenzioni, c’è un libro di Diderot che si chiama Il nipote di RameauBUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 1998 – in cui viene tracciata la figura di questa sorta di intellettuale organico alla Cortez, al signore, che poi sarebbe il cortigiano. Francamente per un fatto di temperamento credo di essere un cavaliere solitario e in questo senso non conformista, ma non mi dichiarerei nemmeno intellettuale, mi considererei un soggetto vivente e pensante.
Solo antipatico, come la definiscono: le piace essere chiamato in questo modo?
Io ho scritto un libro che si chiama AntipatiaFeltrinelli, 1987 – proprio teorizzando il genio antipatico, ovvero non che io mi consideri un genio, ho fatto una mostra che si chiamava così, dicendo e dimostrando come l’artista, l’intellettuale non è uno che vive in simpatia, in empatia col mondo, in sintonia… ma anzi vive il pathos della distanza, vive un’antipatia col mondo, ma proprio per quel desiderio naturale di lotta di cui ha bisogno e di cui la sua vitalità deve nutrirsi. Il desiderio di trasformazione non è importante perché la cosa riesca, è una spinta necessaria alla vita e… sono contro l’entropia che come lei sa non è un’aspirina, non è un medicinale ma un termine per definire che tutto lentamente va verso lo spegnimento. È per questo che esiste l’avanguardia, il desiderio di imitare la convenzione, il codice… la quiete anche nella comunicazione… suscitare energia e sorpresa.

Ama definirsi un militare dell’arte più che un militante – aggiunge Abo… Senza aver fatto il servizio militare e senza neanche avere la patente, pensi un po’Ma che c’azzecca firmare il Manifesto degli Intellettuali della Sinistra Arcobaleno che ha sottoscritto nel 2008?
Ma io ho sempre votato Rifondazione, sostengo Nichi Vendola ritengo… Ha fatto un atto militante solidale e bisogna che tutti riconoscano la coerenza di Fausto Bertinotti: una persona per bene che si è ritirato nel momento in cui si è esposto politicamente e nel partito è uscito sconfitto. Io vedo invece in giro un conformismo anche a sinistra, parole d’ordine fuori luogo anche stonate, sento dichiarazioni affrettate, incolte, insomma a destra e sinistra oggi c’è veramente un grande vuoto e per cui quella firma io la ribadisco.

Si faccia un epitaffio, è ancora giovane, come vorrebbe essere ricordato?
L’ho già detto più volte… sono stato una spina nell’occhio dell’arte e della critica.
Nel secolo scorso lei ha dichiarato d’essere la cocaina dell’Europa nel mondo dell’arte, oggi la confermerebbe?
La caffeina dell’Europa, quello era Marinetti. 
No, no! Lei ha parlato di cocaina dell’Europa
Ma come dire, bisogna contestualizzare le dichiarazioni sennò… ecco adesso non userei più questa parola perché è inflazionata, è questo il punto, le pare? È paradossale.
E quindi cosa sdoganiamo nel 2010?
Il problema è che non bisogna sdoganare la chimica per esaltarsi.

Allora, sdogani una nuova visione.Ma è quello che cerco di fare, di prolungare la mia. Intanto mi pare che ancora funziona per leggere le cose, il mondo, i libri che pubblico, le mostre che preparo… bisogna smetterla con il vizio e la fobia dell’intellettuale che per ogni cambiamento di stagione ha un nuovo paio di occhiali per leggere il mondo e quelli erano occhiali che l’ideologia prestava… come dire… gratuitamente a tutti e tutti presumevano di poter leggere il mondo. Il mondo nella sua complessità. Credo che sia importante il fatto che ho insegnato anch’io coi libri che ho scritto, dall’Ideologia del traditore – Feltrinelli, 1976 – alla transavanguardia – La transavanguardia italiana, Politi Editore, 1980 – al Passo allo strabismo Feltrinelli 1978 – e tanti altri miei libri, che esiste un corpo a corpo, un presente permanente più che un futuro garantito.

Perché l’Arte va messa nei party?
Come battuta ed anche perché già ci sta. Voglio dire nel senso che ormai l’Arte contemporanea fa molta immagine per cui tanti assessori, ministri, imprenditori, finanzieri ritengono molto chic frequentare grandi artisti, grandi critici e avere arte contemporanea in casa e quindi delle volte l’arte sta nei party ma vorrebbe stare da parte, eppure è costretta in quanto viene cooptata, acquisita e direi anche precettata.

Perché tira fuori improvvisamente che la Nouvelle Vague sarebbero Banksy – Bristol, 1974, è un artista inglese, uno dei maggiori esponenti della street art – Adam Neate – 1977, è un artista britannico, uno dei più importanti street artist a livello mondiale – Olivier Doria – artista – … è una battuta?
Ma sì! Io francamente…
O crede nella street art?
Io mi sono occupato di graffitismo quando nessuno se ne occupava perché ho visto bene … a Los Angeles, a New York negli ‘60. Ho fatto anche delle mostre molto importanti portando in Italia Basquiat – Brooklyn, 1960, pittore e writer statunitense – Rammellzee – graffiti writer – A-One – graffiti writer – e tanti altri importanti e… non a caso questi poi hanno sfondato anche nell’arte, perché in fondo erano artisti che dipingevano all’aperto. Erano come dei libri a striscia, en plen air metropolitani. Oggi la Street Art è un fenomeno veramente decorativo di persone inconsapevoli, senza cultura, senza nemmeno nessuna rabbia, sono fenomeni di ripiego, sono dei remake.

E quindi si è distratto, al posto di uccidere i pittori si è distratto lei questa volta?Perché mi sono distratto?
Perché li ha consacrati lei in qualche misura.Ma no! Perché poi in mezzo a questi c’è sempre pure qualcuno in fondo che è meno peggio degli altri. È il fenomeno di gruppo del Leoncavallo che mi sembra patetico e provinciale.
Quali contaminazioni, scambi, aperture tra Arte, Architettura e Design?
Io credo che l’architettura moderna dopo lo scontro, il corpo a corpo tra movimento moderno e postmoderno e lo scontro frontale, oggi viva una situazione di maggior equilibrio, infatti l’astuzia culturale del termine transavanguardia non si è mai definita né post né anti ma trans, attraversamento. Questo attraversamento l’hanno capito anche gli architetti, le cosiddette archistar, che coniugano forme che provengono dal movimento moderno e anche dall’epoca della post modernità e tuttavia bisogna anche dire che spesso queste architetture che loro realizzano sono delle sculture vanitose, orgogliose dei propri volumi, non sono spazi per abitare ma per essere guardati. Sono dei veri propri gadgets all’aperto, sculture macroscopiche che servono anche come riconoscimento dell’attività politica per committenze che un assessore, un ministro può dare a questi architetti… ma ne è anche il limite principale, alcune volte sono forme performative e autoreferenziali ma ci sono anche, per esempio, Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Massimiliano Fuksas, Rem Koolhaas. Io sto preparando l’apertura del Maxxi a Roma – Museo Maxxi, sarà inaugurato il prossimo maggio – con la grande mostra di Gino De Dominicispittore, scultore, filosofo ed architetto nato ad Ancona nel 1947, può essere considerato uno degli artisti di maggior rilievo nel degli anni Sessanta e Settanta – C’è l’architetto Zaha Hadid, che io stimo molto come stimo Mario Botta. Voglio dire… ci sono architetti, loro sono archistar, tra l’altro hanno avuto l’astuzia di recuperare spesso stimoli e forme sperimentali che provengono dalle arti visive dove la sperimentazione è meno costosa e quindi loro possono, come in laboratorio, frugare, recuperare e ingrandire poi nelle architetture che costruiscono.

L’anno scorso, ad ArteFiera 2009, la ascoltavamo nel suo dibattito con Mario Botta che lei definiva come tutte le archistar, un geometra del narcisismo, ma proprio lei che è un narcisista…
Ma io sono un architetto del narcisismo, infatti. Geometra lo dicevo nel senso buono in quanto Mario ha l’umiltà di ritenersi un misuratore della terra, poi Mario Botta viene, come lei sa, da Carlo Scarpa che non era un architetto, ma è stato straordinario sia per quello che ha prodotto come architetto sia come designer e Mario, in quel senso, vuole adottare quella semplicità del geometra. Io dico architetto perché ho sdoganato il critico d’arte come figura, come servo di scena, ho dato protagonismo, ho dato corpo al critico fino a denudarmi proprio perché ho un buon rapporto con il mio corpo e proprio perché anche il lavoro del critico è un lavoro che ha a che fare con l’erotismo. L’incontro con l’arte, l’assedio – seppure con lo sguardo – di un capolavoro o di un quadro o di una pittura, quindi il corpo a corpo che il critico d’arte ha, è un corpo a corpo con l’arte che si può sostenere solo se si è difesi e come autodifesa c’è una forte dose di narcisismo.

In quell’occasione portava al polso uno Swatch con il simbolo della Svizzera; era una citazione, un omaggio a Botta?No, no, no e nemmeno all’economia della Transavanguardia. Piuttosto è un vecchio Swatch e deve sapere che la Swatch mi ha mandato sempre in omaggio i vari orologi che realizzava e questo è quello a cui sono più affezionato, mi piace molto.

Sono 10 anni che le fanno la stessa domanda chiedendole Ma cosa ci sarà di nuovo? E sono 10 anni che lei risponde che dopo la transavanguardia non c’è stato più nulla!No! No! Io se ho risposto così schematicamente è per dire questo: che negli anni ‘80 c’era questa fiducia nel futuro e quindi prevaleva il valore della novità, con la crisi dell’ideologia, della società, dell’economia, della morale eccetera. Come avvenne dopo il Rinascimento con il Manierismo, al principio di sperimentazione si è sostituito quello della citazione: la ripresa di stili e linguaggi del passato rielaborati in maniera diversa. Quindi non c’è più quell’euforia sperimentale degli anni ‘60 dopo gli anni ‘80, dopo la transavanguardia ed è l’ultimo gruppo possibile come avanguardia. Credo che oggi gli artisti procedano in fila indiana, singolarmente, perché non c’è manco più la solidarietà come valore connettivo e non c’è più quindi il bisogno, il desiderio di gruppo; c’è una sorta di solitudine, solo ogni tanto si socializza per fatti generazionali in mostra o in libri.
Mi sta dicendo che non ci sono le condizioni per la nascita di una nuova avanguardia?
Ma anche perché l’arte ha un suo respiro biologico, può essere fatto in gruppo o in maniera solitaria anche perché non è che ci vuole sempre il partuso per fare sesso. Non le pare? Come le sembra questa metafora che non c’è sempre bisogno del… quindi non c’è bisogno sempre del gruppo per fare avanguardia? (ride)

Questo essere la spina nel fianco dell’artista e della critica… Ha dichiarato che dello stato dell’arte di oggi non la convincono i prezzi, ma i prezzi e le quotazioni le ha costruite anche lei posizionando la transavanguardia.
Questo è vero, non mi convince quello che è successo negli ultimi anni attraverso la bolla finanziaria che aveva esasperato dei prezzi che guarda caso si manifestavano specialmente nella pubblicità dell’asta. Nelle aste i finanzieri d’assalto spesso compravano opere d’avanguardia per dimostrare ai propri clienti solidità economica e in realtà si è sgonfiata la bolla. Alcuni pezzi si sono ridimensionati e si può guardare all’arte con più verità e umanità e bisogna aggiungere che l’arte italiana si è salvata perché ha avuto sempre prezzi ragionevoli.

Lei sostiene che gli artisti di oggi si spostano con la valigetta…Io dico che nel sistema del narcisismo, c’è chi passa alla storia e chi alla geografia, chi fa i traslochi delle proprie installazioni e chi invece crea in stanziale e fa viaggiare l’opera.

Nell’arte c’è veramente sistema? Se ci fosse sistema, avremmo prezzi che tengono, avremmo valori…No guardi, è un sistema perché è una catena di Sant’Antonio in cui c’è una divisione del lavoro intellettuale e in una società postmoderna è una divisione internazionale. L’artista che crea, il critico che riflette, il gallerista che espone, il collezionista che tesaurizza, il museo che storicizza, i media che pubblicizzano, il pubblico che contempla, quindi è un sistema.

L’arte, oggi, è contemporanea?
Un intellettuale o un artista, oggi, vive sotto la spinta anche di un’urgenza creativa e culturale. L’urgenza oggi qual’è? È quella di sviluppare un lavoro con responsabilità personale, questo è il grande ritorno di cui abbiamo tutti bisogno. Un’epoca di peronismo mediatico in cui c’è un controllo dei media che tende poi a trasportare il gusto, diciamo così, pellicolare, spettacolare, televisivo in ogni campo…

Nell’arte, oggi, chi passerà alla storia?
Oggi ci sono grandi artisti come Enzo Cucchi, che io stimo moltissimo e… poi ci sarà una caterva di pittori che io definisco antiquariali o decorativi che troveremo purtroppo nel padiglione italiano.

Achille Bonito Oliva, uno straniero o un “trans” in Italia?Parte nopeo e parte romano! (ride)



Milano, 9 aprile 2010Giovanni Pivetta
HOUSE, LIVING AND BUSINESS

 

 

L’ERRORE FATTO COI PIEDI


Un’infinità di cose che ci appaiono esatte sono in realtà sbagliate. Negli stessi anni in cui Giovan Battista Piazzetta (1683-1754) – caposcuola con Sebastiano Ricci della scuola veneta – commetteva un errore madornale nell’esecuzione del suo “San Giacomo trascinato al martirio” (1722, Venezia -chiesa di San Stae), deformando entrambi i piedi del Martire (come si può vedere perfettamente nel dipinto che mostra la gamba destra essere sorretta da un piede mostruoso che al posto del dito esterno – il mignolo – mostra invece quello interno – l’alluce -, e così l’altro che appare accennato dietro la scarpa del suo aguzzino, anch’esso sbagliato), ebbene, appena qualche decennio dopo, Johann Joachim Winckelmann, archeologo e storico d’arte tedesco, affermava nei suoi affascinanti scritti di avere imparato a saper guardare la differenziazione degli stili nell’arte: “…basta saper guardare” affermava.
Com’è possibile che un artista di rilievo quale il Piazzetta abbia tenuto, sicuramente per mesi e mesi, il suo capolavoro sotto gli occhi per tutto il tempo necessario all’esecuzione eseguendo pennellata per pennellata due piedi mostruosi? È lecito domandarsi fin dove giunge il Manierismo. Successivamente, ci chiediamo quanto l’arte della pittura possa essere eseguita con una superficialità tale, e quindi una distrazione fatale che consegna un grande maestro come il Piazzetta alla storia, ai secoli con un vistosissimo errore che ce lo fa apparire come fosse un “mestierante” della pittura. Diverso è l’atteggiamento del Winckelmann che non sbaglia né con i piedi né con il cervello, ma fondando il suo ethos sull’umiltà della ricerca indica una strada da percorrere. Tutto può diventare “mestiere” alle volte: l’arte, la professione, la vita, la politica, l’intelligenza, la cultura, finanche gli affetti e i valori possono degradare fino all’errore madornale, e così fatalmente ciò che avremmo potuto fare bene lo abbiamo fatto male. Ma l’errore più profondo appartiene per sempre a coloro che si abituano a vivere sbagliando e in un mondo di errori che ci appaiono, in una ipnosi globale, cose esatte.
Impariamo a guardare.

In questo 2009 che si affaccia ai nostri sguardi molte saranno le cose che ci verranno presentate come esatte…ma in realtà lo sono?

Salvatore Maresca Serra

 

 

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