Maria Pia Monicelli

ASPETTO IL SOLE – Maria Pia Monicelli

Aspetto il sole

Mi ritrovo in un gioco all’abbaglio, un diversivo per gli dei, gli stessi che demolimmo addobbati da giganti.

La giostra nuova reclama cavalieri adusi al luccichio dei ferri e non dei lustrini che mascherano bombe.

Aspetto il sole!

La maschera di latta si scioglie al sole cocente della verità e non sotto la luce fredda della retorica.

Siamo una società asociale, un nucleo frammentato di gente votata alla sodomia.

Ci piace gracchiare come cornacchie ma al primo ostacolo vero diventiamo struzzi addormentati.

La mia impotenza reclama una breccia. I miei ideali, le mie ragioni, devono uscire, volare insieme a quelle di altri candidati all’utopia, fuori da questa gabbia di matti! Fuori dal delirio di onnipotenza di una classe dirigente del nulla.

Non sono votata al suicidio e grazie ad un pizzico di follia neanche ad essere il bullone di una macchina da guerra. Non mi piace l’isolamento ma neanche essere parte di una folla assente: sono un essere umano!

Potrei svegliarmi come un automa, mettermi in fila all’idiozia che supera ogni cattiveria, o morire da aliena caduta su questo suolo inquinato dove la salvezza appartiene soltanto ai morti. Alla prossima alba, me ne renderò conto, intanto annaffio l’unica piantina rimasta sul balcone e aspetto il sole.

Maria Pia Monicelli

MARIA PIA MONICELLI “Ho nel palmo il mare”

Non è passione

è solo il vento del deserto

e questa polvere rossa

non è sabbia

ma ciò che resta sospeso

di quel che mai fu.

 

Esistono rare forme umane, si chiamano Poeti. Vivono ancora l’incanto del primordio del linguaggio, del segno, della scrittura e della parola che diventano Suono, e Danza. I Poeti sono capaci di dare un corpo – modellandolo tra suoni e pause – anche a tutto ciò che un corpo apparentemente non ha, o non avrebbe, se – a volte – non lo avvertissimo essere presente, e camminarci affianco, quando percorriamo quelle vie nascoste, a volte occultate a noi stessi, dei nostri sentimenti. In realtà, questi corpi celesti ci attraversano, ci materiano, sono la parte più sottile del liquor: quella “vita” intelligente che, se distrutta, non ha il potere di rigenerarsi al pari di altre cellule. Cellule che nascono e muoiono, e che vengono costantemente sostituite da altre. Il Liquor no. Maria Pia Monicelli ha fatto di questa insostituibilità una ragione di vita; una ragione che si nutre di una ragione profonda, e non razionale-logica, bensì olistica, che racchiude in sé una evidente escatologia delle cose tutte, e che – pur inglobandola nel tutto – annienta anche l’invidia che gli Dei provano per noi mortali, per noi dotati di irripetibilità: esseri unici. Mortali.

Nei versi di Maria Pia io avverto anche il riscatto degli Dei.

Lo avverto quando recita: “ma ciò che resta sospeso di quel che mai fu“, attribuendo un corpo dotato di Topos e di Logos a ciò che mai è nato – “mai fu” –, ma che pure ineffabilmente “vive” come antimateria dell’Essere, o dovremmo dire forse antichronos, per comprendere cosa è una Sospensione, se a dirlo è un Poeta.  Dobbiamo quindi (nel vero senso che abbiamo un debito con essi) ai poeti il corpo – e la consapevolezza che ci danno di esso – delle cose che fuggono, e che rapidamente scompaiono dal flebile tessuto della memoria: sono sospese. Vivono in quel tempo parallelo invisibile, anche quando mai furono, e ancor più se non lo furono. Quelle cose che chiamiamo rimpianti quando fanno parte della coscienza, la coscienza dei sentimenti. E questi rimpianti appartengono sia ai mortali che a tutti gli Dei che tutti furono immortali, per dirlo attraverso le parole di Cesare Pavese. Oppure non sapremo mai cos’è la Sospensione, e cosa il Rimpianto.

Scrive Pavese: Nel dialogo Le Muse si definisce la poesia – si dice, tra l’altro, di ogni gesto che l’uomo fa, che “ripete un modello divino” e giorno e notte l’uomo non ha un istante “che non sgorghi dal silenzio delle origini”.

Esiodo viene invitato da Mnemosine  a riferir questo ai mortali – nasce la poesia. *

Nella poesia di Maria Pia Monicelli il silenzio delle origini si manifesta come un’eredità che lei ha raccolto a piene mani, fatta di continui risvegli. E’ come se il Poeta cantasse  ogni parola tra una vita e l’altra, e tra una morte e l’altra, perchè di questo si tratta: di un inarrestabile e costante risveglio. Ecco la presenza di quel che mai fu. Una misura del tutto. Se vissuto fuori dal tempo, una dimensione della natura del Poeta, che ha nel suo destino cantare ciò che fugge, e scrivere di ciò che – per fermarlo – ci sfugge.

Scrivere di un altro artista non è mai cosa né sana né facile, ma sempre una cosa che ti arricchisce nell’anima. Ed è per questo – egoisticamente – che, in breve, l’ho fatto.

Salvatore Maresca Serra


 * Cesare Pavese, La poetica del destino, in Letteratura americana, cit., p. 311

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