corruzione

LO SVILUPPO O LO SVILUPPO DELLA CORRUZIONE? Giuseppina Meola

L’avvocato Giuseppina Meola

LO SVILUPPO O LO SVILUPPO DELLA CORRUZIONE?

In occasione della recente conferenza internazionale dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico è stato diffuso il rapporto “Italia. Dare slancio alla crescita e alla produttività”.
Il documento e gli studi che ne costituiscono il prius logico-cronologico evidenziano quanto in Italia il livello di corruzione sia superiore a quello della media dei Paesi OCSE.
Il Presidente Monti è intervenuto sul punto stigmatizzando “l’inerzia non scusabile” di alcune parti politiche, che ha ostacolato l’iter parlamentare del ddl anticorruzione.
Non un fulmine a ciel sereno, ma l’ennesimo tuono in una notte buia e tempestosa per l’italica penisola, bagnata dal mare e affondata dalle falle partitocratiche, politichesi e finanziarie.
Un’Italia corrotta nel corpo e nell’anima. Nell’immagine!
Da questo dato preoccupante, ma non nuovo, si può procedere verso una breve riflessione in termini di raffronto tra la criminalità da strada e quella dei palazzi.
Il delinquente “semplice”, il mero mascalzone, che commette reati comuni, più o meno gravi, è considerato un criminale, è il reo per antonomasia, gode di pessima considerazione da parte della società. Ciò fa sì che la commissione di un reato ordinario tenda ad unire la collettività. La “gente onesta” si compatta per esprimere ad una voce la più dura riprovazione nei confronti di un ladro, di uno stupratore, di un omicida.
D’altra parte, il white collar crime ha una forza disgregante, alienante, rende tutti un po’ più monadi alla ricerca di un clinamen che non accenna a delinearsi.
I reati dei colletti bianchi mettono in discussione la legittimità dell’ordine sociale, la fiducia nelle Istituzioni, nella Giustizia, nel “noi” elevato a sistema!
I colletti bianchi appartengono alla classe dominante; un reato commesso da un colletto bianco è un reato commesso da chi ha potere. E’ il reato nelle mani di chi detiene il potere!
La corruzione e le finitime fattispecie penali inglobano la patologia dell’atto del singolo e macchiano il sistema, sporcano tutto e tutti, colpevoli ed innocenti.
Sono espressione del male delle società avanzate, più del traffico di stupefacenti, più del tanto pubblicizzato “delitto passionale”. Sono l’emblema della perversione del privato convinto che solo influendo con offerte, doni o promesse di doni sia possibile aprire le porte sulle meraviglie del pubblico ad uso e consumo ed abuso del privato.
E’ il reato che sale sul trono, che diviene dittatore della democrazia.
E’ il cancro capace d’infettare fasce sempre più ampie e capace di farlo sempre più velocemente.
L’evoluzione tecnologica nelle strutture deputate agli scambi di moneta e titoli, la moltiplicazione delle transazioni finanziarie, le enormi possibilità di connessioni intersoggettive, lo sviluppo del remote banking fanno sparire il provincialotto che porta il cappone all’impiegato piccolo borghese.
In un mondo che è villaggio globale si assiste anche alla globalizzazione della corruzione.
Ecco perché sentirsi dire che l’Italia è più corrotta della media OCSE disgrega ad un livello maggiore: internazionale, sovranazionale.
Non si può e non si deve cadere vittime della logica da erba sempre più verde nel giardino del vicino, ma, allo stesso tempo, non si può trascurare che sentirsi etichettati quali “cattivoni più cattivi degli altri cattivi” ha un peso in termini di fiducia globale, di capacità di attrarre investitori esteri, di spread.
Nel 2013, sulla base dei dati forniti dal Consiglio d’Europa, dall’OCSE e dalle Nazioni Unite nonché da esperti indipendenti, verrà pubblicata una relazione sulle dimensioni del fenomeno della corruzione e sulle buone pratiche realizzate dagli Stati membri dell’UE per contrastarlo.
L’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione, datata 1999!!!
Quale aderente al Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO), il nostro Paese è stato sottoposto a valutazione, sfociata in un rapporto finale nel quale si rileva che, malgrado la determinata volontà della magistratura inquirente e giudicante di combatterla, la corruzione è percepita in Italia come fenomeno consueto e diffuso, che interessa l’urbanistica, lo smaltimento rifiuti, gli appalti pubblici, la sanità e la pubblica amministrazione. Il rapporto rivolge all’Italia ventidue raccomandazioni, suddivise tra il settore della repressione e quello della prevenzione, ritenendo che la lotta al fenomeno deve diventare una questione di cultura e non solo di rispetto delle leggi.
Siamo al cospetto di una minaccia allo sviluppo, alla democrazia e alla stabilità, attraverso la distorsione dei mercati e l’erosione sia del servizio pubblico sia della fiducia nei funzionari pubblici.
Il prezzo della corruzione è alto (circa l’1% del PIL dell’UE). Ancora più alto se letto in chiave sociale tout-court.
All’aumentare della crisi aumenta la percezione ed il collegamento con il dato che è sotto gli occhi di tutti, coinvolgendo il concetto dinamico di cittadinanza, profondamente intriso dell’idea di progresso economico-capitalistico.
Per i giuristi segna il passaggio dai diritti civili a quelli politici e poi a quelli sociali.
Il taglio socio-politico degli studi permette di convogliare una serie di gravissimi problemi che evidenziano, per esempio, la tendenziale incompatibilità dell’economia di mercato in relazione all’affermazione di effettivi diritti sociali.
Nella nostra tradizione giuridica, il nucleo concettuale di cittadinanza è dato dall’appartenenza. Un soggetto è ascritto ad uno Stato e perciò è titolare di diritti e doveri. Se lo Stato è la fonte esclusiva della produzione giuridica, diviene storicamente il garante dei diritti nel momento in cui, divenendo Stato costituzionale, è esso stesso a positivizzare e porre quei diritti.
Oggi evidentemente la sovranità degli Stati è profondamente in crisi, così come il concetto di garanzia dei diritti medesimi.
I surrogati (holding, banche, furbetti vari) non hanno legittimazione di sorta, non offrono l’idea di appartenenza: non si può essere cittadini di una banca, ergo manca chi tuteli effettivamente il cittadino, sempre più in balia di un meccanismo perverso e malato.
La bilancia del potere tra la politica e l’economia, tra i governi e le multinazionali pende sempre più inequivocabilmente a favore delle grandi corporazioni. Come scriveva Willke, rispetto alla politica esse possiedono il vantaggio di un’opzione strategica aggiuntiva accanto a voice e loyalty, quella di exit verso collocazioni più vantaggiose.
La partita si gioca tra lo scetticismo circa le residue capacità di governo delle istituzioni politiche ed il razionalismo giuridico che mira ad uno Stato costituzionale e cosmopolitico, capace di dare attuazione a rivendicazioni anche etiche.
Ecco dunque, l’importanza di una seria presa di posizione del legislatore italiano sul tema della corruzione, al fine di ripristinare o semplicemente rinsaldare l’asse verticale protezione-obbedienza, allo scopo d’impiegarlo come una bussola nella difficile navigazione dei cittadini irrequieti, sradicati, sfiduciati, quasi “meno cittadini”.

Avv. Giuseppina Meola

EDITORI A PAGAMENTO

Essere pubblicati, o non essere pubblicati (quindi auto-pubblicarsi, in qualche modo o maniera) dagli “editori”? Questo è il problema.

Il problema che non è più quello degli scrittori e basta: essere scrittori – da quando l’editoria ha spalancato le porte ai dilettanti, agli improvvisati e agli assassini, ai volti diventati noti per qualsiasi storia che la società dei media ha fatto ingurgitare al pubblico passivo prolassato neuronale per definizione – è l’aspirazione più funzionale a questo sistema culturale: bastano un editor (spesso anche no), un correttore di bozze (se c’è), un ufficio stampa (o gli amici sfigati su Fb), e un pubblico che non sia un pubblico di «lettori» – che in Italia non esiste quanto dovrebbe, ma esiste quando non dovrebbe -, e che siano quelli che implicitamente autorizzano chiunque non solo a scrivere, ma a cercarsi poi – di pari passo – un editore: chiunque e comunque esso sia. Siamo tutti scrittori e abbiamo tutti una motivazione per esserlo, non c’è dubbio. Allo stesso modo, tutti dipingono e credono d’essere artisti, tutti poetano e credono d’essere poeti, tutti suonano e credono… e così via. Perché no? Trovare un editore, dicevamo: questo sembra essere il problema, oppure non essere affatto, non sembrare – neanche – tale: visto che, da Lulu.com (adesso anche punto it) a un’interminabile ridda di nomi, pagare e “diventare di colpo «scrittori»” sembra invece che sia la cosa più facile, da un po’ di anni. Il colpo è la regola. Anni disastrati da un’altra cosa, che si chiama «conflitto d’interessi, e corruzione», e che – dopo aver vomitato milioni di parole sui media, nel parlamento, nelle sedi e le riunioni dei partiti che hanno avuto la loro occasione di eliminare il conflitto (chissà perché sprecata), nelle abiure di scrittori “dotati di etica”, nei sommovimenti viscerali di lettori schierati – continua, in sottotono, a far parlare di sé, anche dopo la presa di posizione di certo Vito Mancuso, e l’ennesima legge ad personam (“ad aziendam”, dice Antonio Moresco nel 2010) per salvare Mondadori (gruppo) dal fisco. Vicende ormai – in parte – sorpassate dai Saviano, eccetera. Brevemente, mi sembra utile ricordare, da quando Berlusconi “apprese” della morte di Formenton, quella che, in termini processuali, fu la vicenda che portò Mondadori, Einaudi, Piemme, Sperling&Kupfner, eccetera a diventare una proprietà di famiglia B. e un 50,41% di Fininvest: nel 2007 in appello Cesare Previti, avvocato Fininvest, accusato di corruzione giudiziaria, fu condannato a un anno e sei mesi; Attilio Pacifico, avvocato Fininvest, accusato di corruzione giudiziaria, fu condannato a un anno e sei mesi; Giovanni Acampora, anch’egli avvocato Fininvest, accusato di corruzione giudiziaria, fu condannato a un anno e sei mesi; Vittorio Metta, ex giudice, accusato di corruzione, fu condannato a due anni e otto mesi. Perciò, se lasciamo parlare le sentenze, Mondadori fu conquistata da Silvio Berlusconi grazie a una corruzione portata in atto da alcuni suoi avvocati di Fininvest, in altre parole la sentenza del gennaio del 1991 che annullava il lodo arbitrale fu conseguenza di una corruzione, altrimenti la cordata di maggioranza sarebbe andata a De Benedetti. Corruzione, corruzione, corruzione…

Per qualcuno, una dote che si richiede oggi a uno scrittore è – tra le altre (?) – quella limpidezza tale che consentirebbe a chiunque di non considerarlo un ignavo, quindi che non sia, apocalitticamente, vomitato dalla bocca di Dio. Un dio che potrebbe essere il mercato, quindi il naturale coagulo dei lettori-compratori – in una logica aziendale, ma che invece – s’intenda – in un «linguaggio teologico», quindi non aziendale…, trattasi bensì di una divinità che – per prima (si suppone) – debba stare lì ad animare e (con)sustanziare il primo gesto di uno scrittore: contaminarsi o meno di tutto ciò che vige e opera dietro il logo del suo (reale o potenziale) editore.

Per essere scrittori oggi (gli aspiranti tali lo sappiano!) in Italia bisogna assumere da subito i tratti militari dei difensori della civitas, della democrazia, della giustizia. Dulcis in fundo, dell’etica.

Altro che essere pubblicati o auto-pubblicarsi! Sempre per qualcuno, essere scrittori deve assiomaticamente suonare così: essere contro la corruzione. Ma come si può fare, nei fatti?

Lo scopo principale dell’assiomatizzazione di una teoria è proprio quello di costruire una gerarchia dei concetti che la costituiscono, in modo da organizzarla. Quindi, siamo qui per fare questo.

Nel gioco grottesco-danzante dei paradossi, si deve a Berlusconi se questo processo gnoseologico sembra essersi verificato: quanto è necessario conoscere ciò che si è, oggettivandolo e, inevitabilmente, lo si diventa ignorandolo? Trascurandolo? Sottodimensionandolo?

Va da sé che, d’un tratto, dovremmo appiccicare addosso ad ogni scrittore mondadori un marchio – magari sulla fronte, proprio come nell’Apocalisse – d’ignominia, che deriverebbe dall’aver avuto rapporti – contronatura, democraticamente parlando – con quella sudicia e conflittuale cloaca che inquina corrompendolo lo Stato italiano che – sappiamo bene, per excursus storico – è del tutto alieno a tutto ciò che, nel rapporto col potere, coi massimi sistemi, con le anticamere o i salotti dei circuiti clientelari, con le satrapìe del momento o del memento potrebbe – “adesso”, invece – straripare e colludere e diventare una minaccia aperta ed esiziale, allagando nauseabondamente in quell’alluvione cosmica e diabolica i luoghi deputati alla cultura, quindi alla formazione delle nuove generazioni e delle future classi dirigenti: le librerie. Anche le librerie. Finanche le librerie. Non escludendo neanche gli stores online.

La scrittura d’invenzione, la saggistica, la scrittura specializzata, la poesia, la satira, la scienza, l’opinionistica, i libri per ragazzi, le favole, i libri di cucina e di ricette… tutto potrebbe essere la naturale e contro-naturale pròtesi di quel piano gelliano che voleva – e vuole ancora – un’Italia soggetta alla peggiore dittatura granfratellista, populista, post-craxista, pseudoliberista e pseudopopolarista: una minaccia che dovrebbe – da sola – attanagliare d’orrore e d’abominio anche la più convinta vocazione a diventare scrittori. Basterebbe, da sola, Mondadori a scoraggiare. Il terrore di un marchio, se – nell’assenza di una così sviluppata coscienza civica, che qualcuno immagina ipertrofica – si dovesse aspirare a diventare mondadoriani, che oggi molti scrivono e pronunciano con altri termini (…).

In questa Italia ex dell’intellighenzia letteraria e altro, ora sembra che l’ingnorantia abbia sottratto (logandole o legandole) molte delle menti e delle penne in circolazione. Qualcuno dice «perché il gruppo Mondadori è l’unico a rendicontare e a pagare gli scrittori con serietà e professionalità»: anche se – di contro – frodasse il fisco, perpetuasse nella sua logica corruttiva il malcostume, schierasse la sua depauperata e cachettica immagine “culturale” e il suo frame (ammesso che esista) a sostegno degli attacchi – per esempio – che Berlusconi ha mosso a Gomorra (accusato di far pubblicità alla mafia: “Sappiamo tutti quanto abbia pesato e pesi l’omertà nella lotta alla criminalità organizzata… ma certo una pubblicistica a senso unico non è il sostegno più efficace per l’immagine del nostro Paese”, firmato Silvio Berlusconi), statisticamente parlando, quanti aspiranti scrittori se ne fregherebbero della questione etica? Non sono certo tutti assetati – come S.B. – inesaustamente di Immagine Italia!

Quanti vorrebbero vedere approvate e pubblicate le loro opere da Giulia Ichino e compagni?

Quanti invece s’interrogano sul giuslavorismo di Ichino pater collocato per riflesso di discendenza in un ambiguo contesto – al dire di molti, moltissimi -, talmente ambiguo da dare adito a sperticate e surreali indagini (intellettuali) dove non si fa altro che parlare di resistenza alla corruzione operabile solo ed esclusivamente dall’interno del sistema di potere e giammai da un esterno che nella realtà non sussiste affatto e che solo gli sciocchi ci crederebbero non avendo mai letto e semmai capito gli urli munchiani degli scrittori einaudiani, che s’interrogano senza posa, dall’interno o dall’esterno della loro Q, ma sempre e pur sempre dall’interno della gloriosa Einaudi? Quanta ambiguità c’è nel restare per organizzare la sommossa popolare-intellettuale dall’interno? E quanta ce n’è nell’andar via? Nel farsi ricattare dai censori del costume e da chi vorrebbe tracciare la linea ad altri, come qualcuno ha creduto di dover fare con Roberto Saviano?

Ammesso anche che il teorizzato boicottaggio di mister B, ad opera di scrittori, editors, direttori editoriali, lettori, eccetera sortisse un qualche realistico effetto, a chi si consegnerebbe, poi, dopo, lo strapotere di questa editoria? Una domanda lecita, non si creda che non lo sia: in Italia quello che può e deve preoccupare è che il dopo in genere diventa sempre peggio del prima, quindi…

La risposta di Marina Berlusconi a Saviano sulla questione critiche a Gomorra del padre – che, per caso, è stato anche il presidente del consiglio più longevo politicamente della storia dei governi italiani – mette in luce, nella sostanza delle sue apparentemente ingenue e spontanee dichiarazioni un aspetto delle cose che ha il sapore di una caramella comprata in farmacia: cos’è e com’è da considerare?, un farmaco o un brand per chi assume zuccheri solo a condizione che a venderglieli sia una croce verde? La farmacopea ci salva la vita pur nascendo in quanto veleno: bene. Il papà ha il diritto di muovere critiche. È il presidente del consiglio? È anche l’editore che ha pubblicato il libro a cui muove critiche? Certamente. Ma, certamente, è anche un uomo libero: tutto quello che ha fatto in diciott’anni di democrazia è appunto fondato sul concetto e sulla convinzione profonda di libertà. Ha finanche fondato un partito, il maggiore fino a un attimo fa, che coagula un popolo – addirittura – di uomini e donne e ragazzi e bambini liberi! E quanta libertà c’è nelle esternazioni libere di un presidente del consiglio ch’è anche un editore e che parla male di un libro che egli stesso ha pubblicato nella sua incontestabilmente netta forma mentis di libertà al di là d’ogni ruolo e responsabilità istituzionale? Molta. Moltissima: parlano i fatti. Non si crederà certo che B. in persona si metta  leggere quello che Marina, Giulia, prima ancora Antonio pubblicano? Scherziamo? Scherziamo. Né prima né dopo: chi crede che B. si metta a leggere Gomorra? Scherziamo? Scherziamo. Quando per esempio l’immagine internazionale della nostra bella Italia era compromessa dalle fotografie amatoriali dei turisti a caccia di sensazioni olfattive forti tra miliardi di chili di immondizie che oggi si chiamano monnezza e basta come la serie di Tomas Milian, il più grosso editore italiano era non poco preoccupato di come ciò potesse ridicolizzare l’Immagine Italia, screditarla e inibire quel flusso creativo ch’è l’industria del turismo, giustamente affidata a una Brambilla, e rivalorizzata sempre giustamente dal riflesso narcisistico che, per primo, deve permeare la scuola e gli studenti, facendogli se non altro intuire che l’Italia (o “un’Italia”) – il posto dove sono nati e dove voteranno un giorno nell’esercizio sacrosanto della democrazia – è quel bel paese che gli dà identità, non a caso, dove tutti c’invidiano bellezze che la scuola riverbera poi, giustamente affidata a una Maria Stella Gelmini, nelle consapevolezze delle giovani vite di cui uno Stato e un partito dimostrano di prendersi la giusta cura a partire – per esemplificare – dalla Domus dei gladiatori, giustamente affidata a un poeta, un vero poeta come un Bondi, che ha sofferto l’indicibile sulla propria pelle, della macchina del fango che si è scatenata anche per un’archeologia del presente che ha messo radici strumentali e surrettizie in quella del 79 d.C. Ma si sa: i veleni ci salvano la vita, non ci uccidono più; e la storia contemporanea diventa con immanenza addirittura passato, archeologia, maceria, disidentità nello stesso medesimo istante in cui si compie e qualcuno – assurdo – tenta di scriverla. La stessa ragione per cui anche tutta la campagna mediatica contro l’editore più grosso d’Italia, quello degli editti bulgari contro Biagi, Santoro, eccetera, nel nome di un’etico comportamento in sede di servizio pubblico pagato coi soldi dei contribuenti di cui il provetto premier si prende cura come un vero pater familias, per intenderci, viene volgarmente attaccato – ogni santo giorno per non diventare archeologia – per delle sciocche – nel senso d’insignificanti e non indicative o compromettenti -, puerili, fanciullesche ormonali e innocenti patonzate («insomma, la patonza deve girare!», intercettazione telefonica tra Berlusconi e un tale Tarantini), uno che telefona a tutte le ore al premier e gli dà consigli illuminati di gestione della cosa pubblica, oppure della cosetta che sta tra le cosce delle ragazze, queste povere e perseguitate ragazze strumentalizzate dalle tentazioni istituzionalizzate a cui lo stesso Oscar Wilde dice di cedere per polverizzarle. Più e più volte viene fatto intervenire alle festicciole Fabrizio Del Noce «è il direttore di Rai uno e della fiction su Rai uno, quindi uno che può cambiare il destino di queste ragazze!, ma si rendono conto – queste – che hanno a che fare con chi gli può cambiare il destino?!» (i.t. con Tarantini, ancora): insomma, al di là di questa spensierata goliardica gerontofania dell’ormone dopato dai farmaci e dal potere, che tra tutti i farmaci della farmacopea risulta essere il più efficace e pervicace alterando definitivamente lo stato cenestetico dell’editore più grosso d’Italia («a tempo perso il primo ministro»), tutta questa purezza, questa angelicata palestra della frequentazione sacrosanta della bellezza femminile disponibile, questa etica nell’uso della opportunità di raccomandare una ragazza o l’altra non all’editoria privata Mondadori oppure a Mediaset (si badi bene), bensì al servizio pubblico pagato dai contribuenti, tra cui anche gli aspiranti scrittori – disperati alla ricerca di un editore e pronti a mettere mano alla tasca per inventarselo dal nulla, «un editore» – c’è un popolo d’intellettuali che ancora trascorre le ore della propria esistenza, breve per definizione, a interrogarsi se affidare le proprie opere al gruppo Mondadori oppure no.

Qualcun altro se andar via da Mondadori oppure restare.

Qualcun altro ancora – è possibile? – se mirare a Mondadori per il proprio esordio, oppure no.

Una cosa è certa: l’Immagine Italia è il nucleo centrale etico del più grande editore italiano.

Quindi, scegliere Mondadori per mirare all’esordio su un editore è una scelta che va accompagnata da un’ottima dose di trascendenza, di fede nella libertà di esercizio del pensiero che – da sola – garantirebbe a chiunque di aver fatto la sola ed unica scelta seria, professionale e irrinunciabile in quell’universo così precario, reso tale da una cattiva abitudine di leggere solo quelle cosette di poco conto che vengono macerate-strizzate come mozzarelle di bufala campana alla diossina, per produrre quel latte grasso, da vacche grasse, e che ben indica la formula della fortuna additandola nefastamente a chi, della scrittura, ha fatto un piano e un obiettivo che si ponga nel rispetto dello statuario assetto di quest’epoca strabiliante per libertà, dove le camicie di forza di retaggi che definire obsoleti è poca cosa, rispetto alla vera capacità d’innalzarsi dai ruoli, quindi da quelle ipocrisie tombali che ci hanno accompagnato per anni e anni, dove tutto lo si nascondeva nella sacca malevola di un Eolo che soffiava poi solo nel nascondimento, nel dolo del segreto, mentre adesso è più luminoso-intercettato-consapevole di esserlo che mai: e questo – da solo – dovrebbe essere la garanzia più grande di libertà a viso aperto, per scardinare un passato vergognoso e definitivamente detronizzarlo e deistituzionalizzarlo perché falso, surrettizio, ipocrita, nauseabondo di fronte a tale purezza e spregio della retorica ipocrita di certe classi dirigenti di quel passato che ormai sprofonda nell’insana e subdola vocazione a voler rappresentare una morale comune che di comune ormai ha solo la disidentità del vero. Vero è che il potere viene sempre esercitato per scopi che poco o nulla hanno a che vedere con quella meritocrazia che non sia una meritocrazia reale di rendimenti e performances per arrecare piacere ai potenti, e solo a quelli. Alla luce di ciò, con una netta limpida inconfutabile coscienza bisogna affermare dovunque sia possibile che lo sguardo non raggiunga la vera sostanza delle cose, che bisogna guardare senza affettazioni moralistiche le cose del mondo, e gioirne. Se, per esempio, qualche aspirante scrittore c’è che voglia credere nella propria opera al di là di valutazioni che vengano da sedi istituzionali dell’editoria, e che potrebbero demotivarlo, farlo traballare, anche, nella sua certezza precaria in cerca di conferme da addetti ai lavori, ebbene ci si ricordi sempre e comunque che è grazie al fatto che un editore si è messo a fare anche il presidente del consiglio che tanta, cotanta verità e nudità (nuda veritas) e trasparenza sono venute a galla determinando un’Italia diversa, finalmente!, che ormai veleggia verso una totale libertà meritocratica. Se, dunque, riceverete un rifiuto da Mondadori, allora interrogatevi su quanta schiettezza ci sia nel vostro testo; quanta nudità pari a libertà abbiate scritto; quanta onestà intellettuale vi siate caricati sulle spalle e sulle penne; quanto ciò che vorreste comunicare ad ad altri possa realmente reggere il confronto con l’onestà e la limpidezza che l’editore più grosso, ma anche più illuminato d’Italia ha saputo incarnare per tutti, con la consapevolezza piena e determinata che il confronto non sarà facile per nessuno.

Se dovesse restare alla fine quale unica possibilità affidarsi a quegli angeli inviati dal Signore misericordioso che nella loro misericordia vi pubblicheranno per duemila o tremila euri, allora abbiate considerazione che comunque non avrete alterato di un micron la vostra posizione in questa società, e, in questo, ci vedo una profonda, religiosa coerenza delle cose e del fato: se, da un lato, il confronto etico con un uomo insuperabile che detiene anche lo strapotere dell’editoria libraria vi ha visti perdenti perché non abbastanza meritocratici, dall’altro le braccia aperte degli editori a pagamento avranno ristabilito la loro fraterna apertura in quell’afflato universale che fonde i perdenti in ogni caso. Per essere vincenti, è necessario o essere bellissime ragazze dispensatrici di giovinezza e spregiudicatezza e apertura (mentale), oppure essere voi quei compagni affettuosi leali rotti a tutto per autentica amicizia anche a farsi indagare e magari condannare da qualche invidioso magistrato ormai relitto di una società che va scomparendo, come Tarantini. Eppure, se tali questi ultimi voi foste, allora non avreste una ragione di scrivere: quelli veri come Tarantini non scrivono, telefonano.

Salvatore Maresca Serra, Roma febbraio 2012