Esteri

LO SVILUPPO O LO SVILUPPO DELLA CORRUZIONE? Giuseppina Meola

L’avvocato Giuseppina Meola

LO SVILUPPO O LO SVILUPPO DELLA CORRUZIONE?

In occasione della recente conferenza internazionale dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico è stato diffuso il rapporto “Italia. Dare slancio alla crescita e alla produttività”.
Il documento e gli studi che ne costituiscono il prius logico-cronologico evidenziano quanto in Italia il livello di corruzione sia superiore a quello della media dei Paesi OCSE.
Il Presidente Monti è intervenuto sul punto stigmatizzando “l’inerzia non scusabile” di alcune parti politiche, che ha ostacolato l’iter parlamentare del ddl anticorruzione.
Non un fulmine a ciel sereno, ma l’ennesimo tuono in una notte buia e tempestosa per l’italica penisola, bagnata dal mare e affondata dalle falle partitocratiche, politichesi e finanziarie.
Un’Italia corrotta nel corpo e nell’anima. Nell’immagine!
Da questo dato preoccupante, ma non nuovo, si può procedere verso una breve riflessione in termini di raffronto tra la criminalità da strada e quella dei palazzi.
Il delinquente “semplice”, il mero mascalzone, che commette reati comuni, più o meno gravi, è considerato un criminale, è il reo per antonomasia, gode di pessima considerazione da parte della società. Ciò fa sì che la commissione di un reato ordinario tenda ad unire la collettività. La “gente onesta” si compatta per esprimere ad una voce la più dura riprovazione nei confronti di un ladro, di uno stupratore, di un omicida.
D’altra parte, il white collar crime ha una forza disgregante, alienante, rende tutti un po’ più monadi alla ricerca di un clinamen che non accenna a delinearsi.
I reati dei colletti bianchi mettono in discussione la legittimità dell’ordine sociale, la fiducia nelle Istituzioni, nella Giustizia, nel “noi” elevato a sistema!
I colletti bianchi appartengono alla classe dominante; un reato commesso da un colletto bianco è un reato commesso da chi ha potere. E’ il reato nelle mani di chi detiene il potere!
La corruzione e le finitime fattispecie penali inglobano la patologia dell’atto del singolo e macchiano il sistema, sporcano tutto e tutti, colpevoli ed innocenti.
Sono espressione del male delle società avanzate, più del traffico di stupefacenti, più del tanto pubblicizzato “delitto passionale”. Sono l’emblema della perversione del privato convinto che solo influendo con offerte, doni o promesse di doni sia possibile aprire le porte sulle meraviglie del pubblico ad uso e consumo ed abuso del privato.
E’ il reato che sale sul trono, che diviene dittatore della democrazia.
E’ il cancro capace d’infettare fasce sempre più ampie e capace di farlo sempre più velocemente.
L’evoluzione tecnologica nelle strutture deputate agli scambi di moneta e titoli, la moltiplicazione delle transazioni finanziarie, le enormi possibilità di connessioni intersoggettive, lo sviluppo del remote banking fanno sparire il provincialotto che porta il cappone all’impiegato piccolo borghese.
In un mondo che è villaggio globale si assiste anche alla globalizzazione della corruzione.
Ecco perché sentirsi dire che l’Italia è più corrotta della media OCSE disgrega ad un livello maggiore: internazionale, sovranazionale.
Non si può e non si deve cadere vittime della logica da erba sempre più verde nel giardino del vicino, ma, allo stesso tempo, non si può trascurare che sentirsi etichettati quali “cattivoni più cattivi degli altri cattivi” ha un peso in termini di fiducia globale, di capacità di attrarre investitori esteri, di spread.
Nel 2013, sulla base dei dati forniti dal Consiglio d’Europa, dall’OCSE e dalle Nazioni Unite nonché da esperti indipendenti, verrà pubblicata una relazione sulle dimensioni del fenomeno della corruzione e sulle buone pratiche realizzate dagli Stati membri dell’UE per contrastarlo.
L’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione, datata 1999!!!
Quale aderente al Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO), il nostro Paese è stato sottoposto a valutazione, sfociata in un rapporto finale nel quale si rileva che, malgrado la determinata volontà della magistratura inquirente e giudicante di combatterla, la corruzione è percepita in Italia come fenomeno consueto e diffuso, che interessa l’urbanistica, lo smaltimento rifiuti, gli appalti pubblici, la sanità e la pubblica amministrazione. Il rapporto rivolge all’Italia ventidue raccomandazioni, suddivise tra il settore della repressione e quello della prevenzione, ritenendo che la lotta al fenomeno deve diventare una questione di cultura e non solo di rispetto delle leggi.
Siamo al cospetto di una minaccia allo sviluppo, alla democrazia e alla stabilità, attraverso la distorsione dei mercati e l’erosione sia del servizio pubblico sia della fiducia nei funzionari pubblici.
Il prezzo della corruzione è alto (circa l’1% del PIL dell’UE). Ancora più alto se letto in chiave sociale tout-court.
All’aumentare della crisi aumenta la percezione ed il collegamento con il dato che è sotto gli occhi di tutti, coinvolgendo il concetto dinamico di cittadinanza, profondamente intriso dell’idea di progresso economico-capitalistico.
Per i giuristi segna il passaggio dai diritti civili a quelli politici e poi a quelli sociali.
Il taglio socio-politico degli studi permette di convogliare una serie di gravissimi problemi che evidenziano, per esempio, la tendenziale incompatibilità dell’economia di mercato in relazione all’affermazione di effettivi diritti sociali.
Nella nostra tradizione giuridica, il nucleo concettuale di cittadinanza è dato dall’appartenenza. Un soggetto è ascritto ad uno Stato e perciò è titolare di diritti e doveri. Se lo Stato è la fonte esclusiva della produzione giuridica, diviene storicamente il garante dei diritti nel momento in cui, divenendo Stato costituzionale, è esso stesso a positivizzare e porre quei diritti.
Oggi evidentemente la sovranità degli Stati è profondamente in crisi, così come il concetto di garanzia dei diritti medesimi.
I surrogati (holding, banche, furbetti vari) non hanno legittimazione di sorta, non offrono l’idea di appartenenza: non si può essere cittadini di una banca, ergo manca chi tuteli effettivamente il cittadino, sempre più in balia di un meccanismo perverso e malato.
La bilancia del potere tra la politica e l’economia, tra i governi e le multinazionali pende sempre più inequivocabilmente a favore delle grandi corporazioni. Come scriveva Willke, rispetto alla politica esse possiedono il vantaggio di un’opzione strategica aggiuntiva accanto a voice e loyalty, quella di exit verso collocazioni più vantaggiose.
La partita si gioca tra lo scetticismo circa le residue capacità di governo delle istituzioni politiche ed il razionalismo giuridico che mira ad uno Stato costituzionale e cosmopolitico, capace di dare attuazione a rivendicazioni anche etiche.
Ecco dunque, l’importanza di una seria presa di posizione del legislatore italiano sul tema della corruzione, al fine di ripristinare o semplicemente rinsaldare l’asse verticale protezione-obbedienza, allo scopo d’impiegarlo come una bussola nella difficile navigazione dei cittadini irrequieti, sradicati, sfiduciati, quasi “meno cittadini”.

Avv. Giuseppina Meola

I FIORI INNOCENTI DELL’INVERNO – Salvatore Maresca Serra

Salvatore Maresca Serra

TEOCRAZIA O RATIOCRAZIA – EDITORIALE

Quando parliamo di comunicazione globale ci accade di immaginare prevalentemente il globo usufruttuario del progresso, beneficiario della portata, con tutti i suoi popoli, priva d’ogni barriera, quindi libera: con una parola ancora in uso “moderna”. Dimentichiamo spesso (troppo), noi occidentali e tecnologici, proiettati verso la natività digitale, che la nostra post-modernità convive con il corso storico di altre civiltà, globalizzate di fatto ma ancorate a ben altra globalità: la teocrazia.

I  FIORI  INNOCENTI  DELL’INVERNO

Quando parliamo di comunicazione globale ci accade di immaginare prevalentemente il globo usufruttuario del progresso, beneficiario della portata, con tutti i suoi popoli, priva d’ogni barriera, quindi libera: con una parola ancora in uso “moderna”. Dimentichiamo spesso (troppo), noi occidentali e tecnologici, proiettati verso la natività digitale, che la nostra post-modernità convive con il corso storico di altre civiltà, globalizzate di fatto ma ancorate a ben altra globalità: la teocrazia. Accade che il nostro dio è morto, ma lo abbiamo dimenticato nel coma farmacologico a cui lo abbiamo sottoposto, secolarrizzandolo e relativizzandolo, mentre il dio altrui è bello che vivo: sente, reagisce, presenzia la storia e v’interagisce, è capace di motivare ardentemente anche il supremo sacrificio, la vita, e attende i suoi figli martiri nel paradiso con la sua riconoscenza tangibile. Noi non ci scandalizziamo più di niente, chi ha un dio vivo sì. Noi siamo in un corpo inscalfibile perché morto agli dèi e rinato alla neodèa Ragione rivoluzionaria, non abbiamo quindi più il divino dietro o dentro le istituzioni civili, stati e rupubbliche e leggi. Non c’indigniamo neanche se il nostro comatoso dio viene fatto accoppiare e riprodurre biologicamente, o se viene tentato per l’ultima volta sulla croce, o se diventa una pop star in una commedia rock. E, in ogni caso, quello che resta nel laico del religioso è solo un dio d’amore supremo, che si offre al martirio e alla morte di croce, e che predica insegnando la non violenza perché il suo regno ultramondano vale di più di questo, ammesso che (questo) non sia solo il regno della corruzione del pensiero forte, quindi, nel post-moderno, diventato filosoficamente debole per forza di cose. Le nostre verità vacillano ormai da una sponda all’altra della logica come risposta fisiologica agli assoluti mendaci di un passato sorpassato. L’emancipazione dalla fede ci ha resi credenti neopagani, e così i nostri miti sono nostri contemporanei, possiamo ascoltarli ai concerti e magari strappargli un autografo, possiamo addirittura ancora e nuovamente anche accoppiarci, con questi dèi di un olimpo patinato, markettizato, in vendita. Senza dimenticare che il primo dio posto in vendita nell’occidente è stato precipuamente quello che concedeva indulgenze e perdono a pagamento, nell’enorme operazione di marketing di Leone X e dei frati domenicani. A nulla sono valse le proteste e le tesi di Wittenberg: ormai la vendita era irreversibile. Ciò ci ha resi tutti in vendita: puttane ansiose pronte al miglior offerente,  che ha il suo nome nel “profitto”, e la sua identità nella reificazione. E, di profitto in profitto, abbiamo incorporato nel nostro corpo debole le moschee di un dio vivo, le sue comunità di fedeli, le sue culture e subculture sfaccettate, il suo petrolio-sangue indispensabile, abbiamo anche rimosso dalle scuole il nostro povero dio crocifisso, quando ci è stato detto che tenerlo appeso costituiva un atto antipluralistico. Noi occidentali siamo sempre più riproiettati nell’imitazione dell’impero romano: lasciamo convivere le religioni e le culture e gli uomini senza volerli deformare, non c’interessa farlo, e poi perché, cui prodest? Basta che paghino le tasse, siamo protesi a dargli cittadinanza, a immetterli nel corpo civile, a occidentalizzarli depotenziandoli con i diritti, i piaceri industriali, l’infinità dei desideri pubblicitari, e dulcis in fundo con la professione di fede democratica: il libero pensiero.

Noi siamo laici. Pluralisti. Democratici. Liberi.

Ma siamo certi che tutta questa libertà gl’interessi davvero? Siamo altrettanto certi che il loro dio o il loro profeta siano entrambi inclini a prostituirsi anch’essi? Oppure, siamo in condizione di offrirgli una vera libertà? Di esemplificarla? E poi: cos’è la libertà?

Quindi se il mondo multietnico che abbiamo teorizzato con la globalizzazione ci si rivolterà in pancia, con la Medea di Seneca, dovremo dirla tutta: cui prodest scelus, is fecit…

Nel mio romanzo d’esordio – Il Costruttore di Specchi – in uscita l’anno prossimo, ho trattato della comunicazione di massa, della rete, delle religioni, delle verità contrapposte tra esse. Così ho posto una serie di domande a me stesso e al lettore, e tutte vertono su una sola cosa: l’equilibrio del mondo contemporaneo. Quanto è forte? Quanto è fragile? In quanto tempo può modificarsi? In relazione alla comunicazione globale, ho intravisto scenari nei quali le guerre acquisiscono nuove e impensabili armi come un semplice piccì e una connessione internet, a patto che li si sappia usare. Le risposte probabili a questi nodi sono sotto gli occhi di tutti: sono i fatti e non le idee. L’ideazione la fa il mondo, nel suo proprio caos perfetto. Produce fatti alla velocità digitale. E ne conserva all’infinito la memoria, almeno fino a che i server resteranno in vita. Perché di vita si tratta. In un passaggio della trama ho sfiorato anche la profezia Maya. Mi sono chiesto se le condizioni dell’estinzione della specie umana, la più predatrice e assasina di tutte, siano più presenti oggi che in precedenti periodi storici. Al di là delle condizioni cosmiche, delle catastrofi naturali, e del destino dei calendari, caduti nelle mani dei gesuiti. I fatti di questi giorni sembrano indicare che le condizioni per una guerra globale ci sono tutte. Affatto, il progresso tecnologico ha percorso una serie di avanzamenti segmentati ognuno con una sua comune stimmata: il disinteresse verso le multiple implicazioni. Gli effetti della globalizzazione asincroni, la discrasia sistemica dei vecchi poteri inoculata dalla nuova consapevolezza della comunicazione di massa, tra le culture mondiali, tutti gli elementi indispensabili ad uno squilibrio che si pone nella genesi della nuova comunicazione-partecipazione interattive: essi sono gli elementi. È normale che gli elementi vi siano, là quando e dove nasce una nuova cultura del comunicare. Un bigbang dello stare insieme. Insieme nella stessa stanza del mondo: la propria, seduti davanti ad un computer che contiene l’intero mondo.

Ma ormai è obsolescenza anche la stanza. Le guerre si fanno coi telefonini di nuova generazione, camminando, fotografando per tutti, filmando, scrivendo, comunicando.

Se c’è un paradosso lampante è che non siamo affatto nella babele, ma di contro in un linguaggio universale. Ognuno capisce perfettamente il sublinguaggio dell’altro. Ognuno spia le debolezze del sistema altrui. Ognuno cerca di controllarle e metterle a frutto.

È storia di adesso.

La storia di un video che ha compromesso definitivamente la potenzialità di specchiarci gli uni negli altri. Gli specchi si sono rotti. Il progresso si è frammentato in due schegge precise. La dualità riemerge. È il momento dell’assoluto. L’assoluto è forte. Manca di autocritica, e la sua forza – da sempre – è questa. Il divino – nella sua cronica condizione pre-storica – è preistorico. Non ragiona perché la dea Ragione non la conosce. Il divino uccide. Il divino condanna senza appello. Il divino ha ancora un popolo, e non siamo noi.

Non verrà quest’anno la fine del mondo? Chi può dirlo? Non verrà, ne sono certo. Ma le condizioni le abbiamo create noi, e sono lì, tutte pronte per usarle. Se i gesuiti incendiarono o inquinarono ogni possibile residuo delle conoscenze Maya, una cosa – anche senza la speculazione new-age – ci è giunta. E non ci piace.

Non siamo preparati a lottare contro un dio. Non lo saremmo mai. Certo, abbiamo ghigliottinato l’ancien régime con la nostra dea Ragione per procedere poi ad affermare libertà, fraternità e uguaglianza. Ancor prima i papi hanno riconquistato il santo sepolcro strappandolo con la guerra giusta di Agostino agli “orribili musulmani”. E, tra santa e giusta, ci è sembrato che fosse la giustizia ad uscirne vittoriosa. Abbiamo anche assegnato una patria a Sion, prima durante e dopo la shoah. La nostra sentinella, il nostro avamposto nel mondo di Maometto. L’abbiamo dotata di termonucleari. Abbiamo puntualmente derubricato ogni sua inadempienza ai trattati ONU territoriali con la Palestina. Abbiamo così forse parteggiato per il dio degli eserciti, ma il sincretismo religioso ci è sembrato una soluzione ideale per affermare con Giovanni Paolo II che, in fondo, Dio è Uno. Soltanto uno. Gli immensi e indecodificabili intrecci dei capitali ebraici non ci sono sembrati mai nemici, e nel nostro immaginario l’escalation nucleare bellica di Israele non ci ha mai visti veramente turbati, a differenza di quella iraniana, o della presunta e posticcia irachena; entrambe minacce insopportabili che hanno turbato e turbano i popoli a cui apparteniamo. Avevamo un trattato di non proliferazione nucleare che ci metteva al riparo. Credevamo. E, se non bastava, le false prove di Tony Blair ci hanno permesso di rimuovere il dittatore Saddam Hussein e di bombardare democrazia intelligente come pacco regalo ai civili. Se guardiamo attentamente l’Iraq di allora e quello di oggi, i risultati civili sono lampanti. La difficoltà connaturata alla nascita e crescita della democrazia ci fa dire che poi, tutto sommato, se scoppiano ogni santo giorno i corpi e le vite di centinaia d’innocenti è tutto sotto controllo, tutto regolare, storico, plausibile, giusto, il prezzo è giusto. È sempre la dea Ragione che ci anima e ci esenta dal poter anche pensare che ogni cultura forse trova il suo naturale equilibrio da sola. E che, forse, la nostra valorosa  e sanguinaria democrazia ha solo dato la stura a infinite e interminabili lotte tra etnie e fedi e politiche diverse, che nella libertà hanno trovato il loro campo aperto di battaglia. Ormai non riusciamo più a tenere il conto dei morti, mentre non ci sfugge mai quello dei nostri soldati, che abbiamo mandato lì per istruire sul posto alla pace, al non confliggere, alla stabilità della politica, alla cultura delle elezioni e dei governi autonomi democratici. In Afghanistan abbiamo cercato in lungo e in largo Osama Bin Laden, con azioni militari degne di un film di fantascienza, penetrando finanche il sottosuolo e le caverne con le nostre bombe magnifiche e magnificenti. Mentre i droni hanno dimostrato tutta la loro impagabile intelligenza sterminando decine di migliaia di civili d’ogni età. Abbiamo isolato i talebani rendendoli inoffensivi politicamente. Abbiamo posto alla presidenza un uomo pulito e fuori da ogni logica del crimine… Se non siamo del tutto riusciti a smantellare le coltivazioni dell’oppio, forse è perché abbiamo una forma di partecipazione umana al dramma economico di quei poveri contadini, o chissà, forse ci saranno altre ragioni. Ragioni, ragioni, ragioni. Sono tutte ragioni. Abbiamo ragione, sì: noi abbiamo sempre ragione. I torti non sono mai i nostri. Basterebbe leggere anche superficialmente Noam Chomsky per rendersene conto. Se anche è stato un insuccesso il nostro in Afghanistan, con migliaia di nostri concittadini giovani soldati, a volte rimasti uccisi, da sporadici attentati, ci siamo tolti gli schiaffi dalla faccia quando Osama lo abbiamo preso, ammazzato a casa sua, sbattuto sulle pagine dei giornali di tutto il mondo e sulla rete di tutti. La Ragione ci ha dato ancora una volta ragione. Ad libitum, ancora “forse”. E, se tutto si compie in stagioni pre-elettorali o elettorali, neanche ci sogniamo di analizzarle, le ragioni. Sogniamo d’essere fatti della stessa sostanza della realtà, scriverebbe oggi in una nuova tempesta William Sheakspeare. E avrebbe anch’egli ancora ragione. Netanyahu minaccia Obama di spostare i voti degli ebrei nell’Ohio e in Florida a Romney se non scenderà affianco ad Israele in guerra all’Iran? Questo potrebbe farci ipotizzare che dietro il filmaccio che insulta Maometto vi possa essere una strategia compulsiva a latere ebraica anti-islamica, e che potrebbe anche essere concordata con Romney? Sono “ragioni” queste?, mi domando. E perché dovrebbero interessarci più di tanto? Non è forse dotata di automatismo asettico e impersonale la Ragione che “anima” noi occidentali? Abbiamo questione etiche che ci tolgono il sonno? Abbiamo capacità di scegliere concrete? Noi, per esempio italiani, abbiamo avuto qualche chance di scelta per l’avvento di un governo di tecnici?, e di un presidente del consiglio che proviene da Bilderberg – http://www.bilderbergmeetings.org/index.php, Goldmann Sachs – http://www.goldmansachs.com/, Trilateral – http://www.trilaterale.it/, Moody’s – http://www.moodys.com/ e chi più ne ha ne metta? La ragione dovrebbe fornirci una risposta: infatti è “No!” Ma quanto è razionale questa risposta? Quanto è democraticamente plausibile che un presidente della repubblica che occulta i suoi dialoghi con un indagato, e sospettato da molti di mafia può anche decidere chi deve governare il paese? Ed è accettabile? Se non gli interessa lasciare in eredità ai suoi successori un fulgido esempio di trasparenza, ci domandiamo perché – se tanto gli sta a cuore la democrazia quella vera – vuole lasciare tutto il suo conflitto di competenza, invece? Troppo potere ai magistrati impegnati nella lotta alla Mafia? Isolarli ancora di più è democraticamente corretto? Non coincide forse col deprivarli d’ogni scudo delle istituzioni dello stato? E perché il presidente minimizza enfaticamente il boom del Movimento 5 Stelle? Non è forse il fenomeno più interessante e problematico che emerge nel paese? Un presidente della repubblica italiana non dovrebbe essere invece un acuto osservatore e ratificatore delle realtà che si fanno strada dal basso verso la politica? Non dovrebbe non perdere mai l’occasione d’essere il primo a prenderne atto in nome di tutti i cittadini? In nome della Storia? E non dovrebbero i nostri media centrare – visto che sono veramente bravi – il vortice attorno a cui si rende possibile il fenomeno Grillo? Non è forse la rete e la comunicazione globale quel medium affrancato dalla istuzionalizzazione data dalla televisione ai fatti che dovrebbe farci toccare con mano che, quando si parla di rinnovamento, bisogna non uscire mai nel ragionare dal “del veicolo oltre che della sostanza”? Non potrebbe essere che solo chi ha in mano e tiene stretto il veicolo mondiale nuovo della partecipazione può avere un futuro, da qui a qualche breve anno? E questo non dovrebbe determinare una nuova consapevolezza anche nei partiti e nei media dell’establishment mainstream? E, da qui a qualche anno, non saranno forse defunti realmente quelli di cui Beppe Grillo dice “vi seppelliremo”, con la loro clientela storica? Siamo troppo vecchi per scorgere il nuovo del rinnovamento, in Italia? Probabilmente, chi dovrebbe accusare il dovere (ché così accade coi doveri) verso se stesso e i suoi elettori di cavalcare l’onda del vero rinnovamento parla di rottamare senza sapere di cosa parla. Non sono stati i trasportati dai carri, ma le ruote la grande rivoluzione del genere umano, perché potevano salirci tutti, sulle ruote. La ruota contemporanea è destinata a far girare il mondo intero, come abbiamo visto. E si chiama internet. Può creare una democrazia liquida? Voi che dite? Diretta? Voi che dite? È così difficile fare una previsione a breve? La “maledetta primavera che fretta c’era” scritta da molti su Twitter di cinque giorni fa, primavera o non primavera, non si è affermata nella e con la rete e con i cellulari? Allora, al di là della sostanza, quanto vale la nuova ruota?  Le prime elezioni di Obama, e quelle di adesso, dove corrono?, sui fili del telegrafo? E non è stato il petrolio a cambiare il mondo dal secolo scorso in pochi anni definitivamente?

Non ragionare della tecnologia, non investire nella ricerca, non curare la scuola pubblica significa trascinare un popolo nella stessa propria morte cerebrale. Quello che ha fatto l’ultimo governo Berlusconi agli italiani vale esattamente in termini negativi: dobbiamo interrogarci sulla quantificazione oggettiva del valore di ciò che Berlusconi non ha fatto in questi anni. Ed è presto fatta la stima: la risposta è la posizione dell’Italia nell’Europa, con un governo di tecnici. In parole povere, il massimo possibile del peggio che Berlusconi e la sua inconsapevole (ma non incolpevole) ignoranza ha prodotto. Quella stessa che gli fa pronunciare goo-gle al posto di gu-gh-l…

La stessa inaccettabile ignoranza muove Mario Monti verso l’attacco allo statuto dei lavoratori. Anche qui la questione resta la pronuncia dei nomi: statuto dei lavoratori ha un suono civile, sanguinoso, storico, patriottico, italiano-puro in assoluto; per Mario Monti statuto dei lavoratori ha un suono cachettico da prolasso neuronale, amorale e immorale al contempo, sordido e subdolo come tutte le cose che pronuncia, anche sorpassando Berlusconi nella cacofonia etica di un italiano-spurio senza patria e storia. E, se abbiamo un governo senza storia né patria, che storia è questa? Dobbiamo chiederlo a Napolitano? Ad ABC? O piuttosto non possiamo domandarlo al nostro cuore ché alla Ragione? Quanto populismo vi è stato nell’inneggiare a un presidente non politico? Molti hanno ravvisato in questo uno slancio civile di onestà perché super partes. Li ho visti, li ho ascoltati per strada, nei luoghi che frequento, ovunque. Erano prevalentemente persone di mezza età, o anziani, dicevano in coro “sa il fatto suo”, “è uno onesto”, “basta politici, ci voleva Monti”, “un dono dell’onestà di Napolitano al Paese”… Ma ora siamo al redde rationem, e i dati ci dicono cosa ha fatto Monti per noi tutti, questa volta chiediamo alla ragione.

Ognuno può e deve rispondersi, ma non con un cor duplex.

Monti è super partes?… O non piuttosto è super partners?… I suoi naturali partners, per colpa o per ignoranza, siamo noi. I cittadini. Ripeto: la Ragione nel nostro mondo è solo un automatismo. Non ci vede protagonisti. Non abbastanza da sopravvivere ai soprusi. Non abbastanza da avere anche noi un dio che ci fa scendere in piazza e fare la rivoluzione. Magari un dio non preistorico, ma dentro la storia. Lo stato, per molti, è una entità distinta dalla nostra, con soluzione di continuità. Perché la soluzione è stata resa troppo facile, e quel po’ di benessere che ci hanno fatto introiettare si è reso efficace per rinunciare nonsolo all’identità, ma al pensiero. Si sa: i cani alle mense dei potenti non pensano: aspettano solo quell’osso a cui attribuiscono anche funzioni taumaturgiche che gli verrà lanciato, tra oscene risate, nell’orgia del baccanale politico. E siamo all’osso ormai. E, molti tra noi, sono stati cani. Molti ancora lo sono e lo resteranno.

Se c’è una menzogna è giudicare populista la ribellione del cittadino. La sua voce che si vuol far passare per isterica, per demenziale, per comica o capocomica o capofallica. Va da sé che siamo tutti teste di cazzo per i potenti, e da tali ci trattano. Quando la Merkel e Monti, come un suono e una meccanica eco, dicono “c’è il pericolo di nuovi populismi e disgregazioni nell’Europa”, stanno dicendo “guardate, che c’è il pericolo che le teste di cazzo si sveglino, che comincino davvero a ragionare, perché gli ossi stanno finendo, e questi vanno verso il potere”…

Grillo e Berlusconi sono come la Terra e la Luna. Grillo raccoglie da terra quello il senno di Berlusconi, nell’ampolla sulla Luna, ha seminato gettandolo. I cittadini morti-macerati nella terra ora fioriscono, e danno frutti. Sono semi figli d’altri semi gettati da sempre perché non valgono nulla per il politico medio. La politica non può permettersi programmi e ideazioni lungimiranti, la società civile sì! Se Monti e Casini e Fini e altri s’inventano un nuovo degasperismo e si riempiono la bocca di statismo, di una attenzione alle nuove genrazioni, è solo perché non vedono che le nuove generazioni sono già qui. Non potrebbero: la sete di potere li rende ciechi, stolti, inutili, dannosi, perniciosi, ottusi, idioti. Sine baculo. Il solo potere che gli rimane si regge solo su se stesso, nel palazzaccio che dice Renzi, sfortunatello, ma che non distingue dalla sua casa. E se si rivolge ai mentecatti-delusi di Berlusconi è perché attua un autentico neopopulismo nel definirsi “giovane”. Renzi ha perso il suo treno: non sarà mai giovane quanto lo è la storia. Perché finge di non vederla. Lo dico con simpatia, ma in realtà dico la cosa peggiore che posso perché non posso altro: fingere e peggiore ch’essere davvero ciechi. Il sogno di Renzi è essere qualcuno. E chi sogna questo è perché sente di non esserlo, e profondamente. Chi oggi “è” non ambisce ad una società verticale. La piramide lascia il posto ad uno scenario liquido, paritario e paritetico alla sua propria interscambiabilità e al suo rinnovarsi di continuo. È tardi per tornare indietro, anche per Renzi che proclama il mandato dei cittadini nella politica limitato. Ma sa bene che le sue ambizioni sono lungimiranti, se in realtà non fossero anacronistiche. Quando dico “sfortunatello” non è per dileggiarlo, ma perché appartiene ad un mondo in disfacimento. Ed è tardi per tornare indietro. Se anche ce la facesse, se raccoglierà il consenso che merita la sua intelligenza, o la sua furbizia, la sua problematica diventerebbe insopportabile. Il partito ritorna ab ovo usque ad mala. E mi sembra che siamo alla frutta. Quelli che sopravviveranno saranno sauri nei musei di scienze naturali del giurassico, da qui a poco. La sola forma futuribile è il movimento delle opinioni. Le strutture partitiche piramidali, i dirigenti, i moduli molecolari dell’architettura gerarchica territoriale, dal basso all’alto e viceversa sono fantasmi per buona metà o tre quarti. L’opinione in rete li scardinerà del tutto: frammenti di un passato obsoleto.

Avremo sempre più rapidamente un contrapporsi di obsolescenze paradossali nel mondo. Superata e a-funzionale sarà la democrazia come l’abbiamo immaginata finora. Le sue anime conservatrici repubblicane o la destra, quelle progressiste o la sinistra con tutta probabilità e in breve si ritroveranno disarticolate da una società civile a cui non interessa minimamente né stare a destra né a sinistra, e che – dove c’è ancora – ha capitalizzato già da tempo la fregatura del centro.

Il paradosso emergerà dal contrasto stridente tra un mondo evoluto e democratico e un altro che giudichiamo medievale, perché fanatico, teocratico, che ignora del tutto la libertà, i diritti, la secolarizzazione del clero, lo stato laico. E quindi la nostra dea Ragione. Eppure il loro dio cammina nuovamente su gambe giovani, e forse, per questo, “innocenti”.

E la loro primavera non a caso rischia di fiorire in inverno, il nostro inverno.

E non è quella che avevamo immaginato.

Salvatore Maresca Serra – Roma, 17 Settembre 2012

Damasco, bomba: ucciso ministro della Difesa e cognato di Assad

Morti anche il ministro dell’Interno e il capo della «cellula di crisi». Responsabile forse guardia del corpo. Slitta voto Onu

È il giorno della paura e del sangue per Bashar al-Assad e gli uomini più vicini al presidente siriano. Il ministro siriano della Difesa, Dawoud Rajiha, e il suo vice Assef Shawkat (cognato di Assad) sono morti nell’attentato contro il quartier generale della sicurezza a Damasco dove era in corso un vertice tra il governo Assad e i capi dell’intelligence. Non è ancora chiaro se si sia trattato di un attacco kamikaze o di una bomba lasciata nel palazzo probabilmente da un infiltrato. Nell’esplosione sarebbero rimasto ferito anche il capo dell’intelligence, Hisham Bekhtyar, che è stato sottoposto ad un’operazione chirurgica. Feriti «in maniera critica» anche alti funzionari della sicurezza. È morto anche il ministro dell’Interno, Mohamed Ibrahim Al Shaar. Mentre è stato ucciso anche il generale siriano Hassan Turkmani, capo della “cellula di crisi che coordina le azioni contro i ribelli».

Il ministro della difesa morto nell’attentato
RIVENDICAZIONE – Il Libero esercito siriano (la milizia dei ribelli anti-Assad) ha rivendicato l’attentato e ha smentito si tratti di un attentato kamikaze. «Questo è il vulcano di cui abbiamo parlato, abbiamo appena iniziato», ha avvertito il portavoce Qassim Saadedine. «Il Vulcano di Damasco e il terremoto della Siria» è il nome dell’operazione lanciata lunedì dai ribelli contro le forze del presidente Bashar al-Assad. Anche un gruppo islamista di opposizione al regime siriano, Liwa al-Islam, ha rivendicato su Facebook la responsabilità dell’attentato.
CIRCONDATO OSPEDALE – L’edificio dove è avvenuto l’attentato si trova sulla Piazza Rauda, nel quartiere di Abu Roummaneh. La zona è vicina alle ambasciate italiana e americana ed è sottoposta normalmente a strette misure di sicurezza. La Guardia repubblicana ha circondato l’ospedale Shami, dove sono stati portati i feriti. Nel frattempo le truppe fedeli al regime siriano di Bashar al-Assad si sarebbero ritirate dal quartiere di Midan, nella periferia di Damasco, dove da giorni combattono con le milizie dell’opposizione. Lo ha annunciato Abu Bakr, capo della brigata Abu Omar che fa capo all’Esercito siriano libero, alla tv satellitare al-Arabiya. I soldati di Assad avrebbero anche abbandonato in strada alcuni mezzi militari

Il fumo che si alza su Damasco
BOMBA O KAMIKAZE – A provocare l’esplosione potrebbe essere stata una bomba lasciata prima della riunione tra ministri e funzionari da qualcuno «interno» all’apparato di sicurezza e non un kamikaze, come riferito dalle fonti ufficiali. Ma a causare l’attentato potrebbe essere stato anche un kamikaze che indossava una cintura esplosiva. L’uomo sarebbe appartenuto alla ristretta cerchia delle guardie del corpo incaricate di proteggere i principali gerarchi del regime.
«TAGLIEREMO LE MANI AI RIBELLI» – Assad non molla. In un comunicato letto alla televisione di Stato, le forze armate siriane hanno detto che rimangono «più determinate che mai ad affrontare tutte le forme di terrorismo e a tagliare le mani di chi mette in pericolo la Siria». Il comunicato aggiunge che l’attentato odierno è opera di «mani prese in prestito da stranieri». Poi la minaccia: «Le forze armate sono determinate a finire di uccidere le bande terroristiche e i criminali e a ricercarli ovunque si trovino». «Chiunque pensi che colpendo i comandanti può piegare la Siria, si illude». Poi il governo siriano ha nominato nuovo ministro della Difesa il generale Fahd al-Furayj, in seguito all’attacco costato la vita oggi a Damasco al suo predecessore Daoud Rajiha e al vice Assef Shawkat, cognato del presidente Bashar al Assad.

PALAZZO PRESIDENZIALE – A Damasco si combatte per il quarto giorno consecutivo e la battaglia tra forze governative e ribelli si è avvicinata al palazzo presidenziale. Nel distretto di Dummar, una caserma dell’esercito – che si trova a poche centinaia di metri dal palazzo del popol – è finita sotto il fuoco dell’opposizione. «Sentiamo il rumore di armi da fuoco leggere. Le esplosioni stanno diventando sempre più forti dalla parte della base militare», ha riferito un architetto, Yasmine, al telefono dalla zona di Dummar. E una forte esplosione ha interessato una caserma dell’esercito siriano a Damasco. Secondo quanto riferisce al-Jazeera è stata colpita la sede del quarto battaglione dell’esercito. Si tratta della seconda esplosione registrata.

COMBATTIMENTI A DAMASCO- A Damasco «nelle ultime 48 ore si registra una escalation di violenza», con esplosioni e scontri a fuoco «in un raggio di 4 chilometri dal quartier generale degli Osservatori delle Nazioni Unite», nel pieno centro della capitale siriana. È il commento di alcuni membri della missione Onu a Damasco. «Da ieri udiamo esplosioni, continue sparatorie», anche se «non si tratta di una vera e propria battaglia», precisano le fonti. Gli Osservatori dell’Onu «non sono stati coinvolti fino a ora, anche se a Damasco tutti sono in pericolo, è ovvio». E più di sessanta soldati sono stati uccisi nella battaglia in corso nella Capitale con i ribelli dell’opposizione: è la stima dell’Osservatorio siriano sui diritti umani, che ha sede a Londra.

Combattimenti a Damasco
NUOVE DISERZIONI – Assad sempre più solo, dunque. E dopo che lo hanno abbandonato militari e diplomatici, si sono verificate nuove diserzioni tra le file delle forze armate siriane. Due generali di brigata hanno attraversato nella notte il confine con la Turchia, portando così a 20 il numero di ufficiali che hanno abbandonato l’esercito del presidente, Bashar al-Assad. «Circa 330 siriani, inclusi due generali di brigata, sono fuggiti nella notte. Sono in tutto 20 gli alti ufficiali siriani rifugiati in Turchia» ha detto un funzionario del ministero degli Esteri turco.
MOSCA – In Siria sono in corso «combattimenti decisivi»: lo ha detto il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, affermando anche che Mosca è contraria a una risoluzione in favore di un «movimento rivoluzionario» in Siria. Mercoledì il premier turco, Recep Tayyip Erdogan è arrivato a Mosca su invito del presidente russo Vladimir Putin «per una visita di lavoro» e «uno scambio di vedute sulle relazioni bilaterali e un confronto sulle principali questioni internazionali e regionali, compresa la situazione in Siria».

PARIGI – E dalla Francia è arrivata un appello affinché disertino e abbandonino Assad anche gli «ultimi appoggi del regime». «La lotta del presidente siriano Bashar Al-Assad per mantenere il potere è vana», ha aggiunto un portavoce del ministero degli Esteri francese. Bashar al Assad, ha detto il portavoce del Quai d’Orsay Bernard Valero, «deve capire che la sua lotta per conservare il potere è vana e che niente fermerà la marcia del popolo siriano verso la democrazia, che è nelle sue aspirazioni. Gli ultimi appoggi al regime – ha quindi aggiunto Valero – devono capire che la repressione non porta a nulla e li invitiamo a dissociarsi da questa sanguinosa repressione che va avanti da sedici mesi».

LONDRA – Di altro avviso rispetto a Mosca è il Foreign Office inglese. La Siria «è minacciata dal caos e dal collasso», nei quali rischia di precipitare data la situazione attuale, che è «persino peggiore di quella, terribile, prevalsa negli ultimi mesi»: così il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha commentato l’attentato suicida di a Damasco, costato la vita tra gli altri al ministro della Difesa siriano, Daoud Rajha, e ad Assef Shawkat, cognato del presidente Bashar al-Assad. «Ecco», ha spiegato il capo della diplomazia di Londra, «l’urgenza di garantire l’adozione non solo di una risoluzione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma di una risoluzione che possa condurre alla soluzione del problema, all’avvicinamento verso un processo politico di natura pacifica, e all’avvento in Siria di un governo transitorio». Hague ha quindi sottolineato che il provvedimento, sul quale il Consiglio medesimo voterà in giornata, oltre a non doversi limitare a richiamare le versioni che lo hanno preceduto, non deve neppure porre le basi per un tipo d’intervento militare quale quello della Nato in Libia.

USA -Preoccupati per la situazione in Siria sono gli Stati Uniti. Lo afferma il segretario alla Difesa Leon Panetta, sottolineando che c’è bisogno di aumentare la pressione su Assad. Il Pentagono ritiene che la guerra civile siriana stia «rapidamente finendo fuori controllo». Sulla stessa linea l’omologo britannico, Philip Hammond, a Washington, secondo il quale la situazione in Siria si sta deteriorando e sta diventando sempre più imprevedibile. Il presidente Usa, Barack Obama ha poi avuto un colloquio telefonico con il presidente russo Vladimir Putin sulla Siria. Lo rende noto la Casa Bianca spiegando che tra i due restano «divergenze».

ANKARA – La Turchia non ha nulla a che vedere con l’attentato di Damasco di oggi dove sono morti tre alti responsabili della sicurezza. Lo ha dichiarato in serata il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan. «I regimi autocratici ricorrono in questi casi ai metodi che conoscono meglio: la disinformazione. La Turchia non ha nulla a che vedere con questo attacco», ha detto Erdogan ritornando da una breve visita a Mosca dove ha incontrato il presidente russo con il quale ha parlato della crisi siriana

ONU – Dato lo stallo diplomatico slitta l’atteso voto in Consiglio di Sicurezza all’Onu di una risoluzione che proroga la missione degli osservatori sul territorio slitta a domani, confermando le difficoltà al raggiungimento di un’intesa. Da un lato la Russia rimane a fianco di Assad, dall’altro i paesi occidentali non sono intenzionati a cedere sul riferimento a possibili sanzioni. Posizioni quindi opposte, indurite dall’attentato contro il Palazzo di Sicurezza di Damasco nel quale è rimasto ucciso anche il cognato di Assad. L’Italia, con il ministro degli esteri Giulio Terzi, conferma il proprio appoggio ad Annan ma ritiene urgente un’azione dell’Onu. Sulla crisi in Siria la Lega araba convoca una riunione straordinaria dei suoi ministri degli Esteri per domenica a Doha.

CRISI ISRAELE-IRAN Burgas, bomba su bus di turisti israeliani otto morti, Netanyahu: “E stato l’Iran”

La deflagrazione all’esterno dell’aeroporto sul Mar Nero. A bordo molti giovani, appena arrivati da Tel Aviv. Trenta i feriti. Esattamente 18 anni fa strage in un centro ebraico a Buenos Aires. Il premier israeliano: “Reagiremo con forza”. Terzi: “Italia in prima linea su difesa Israele”

TEL AVIV – Terrore a Burgas, località bulgara sul Mar Nero, a 400 chilometri a est di Sofia, dove un’esplosione ha sventrato uno dei tre autobus su cui viaggiava una comitiva di turisti israeliani, in gran parte di giovani, appena sbarcata nel locale aeroporto e proveniente da Tel Aviv. Il bilancio è di 8 morti e 30 feriti: a bordo dell’autobus si trovavano 47 persone.

La polizia bulgara dopo una breve indagine ha confermato che si è trattato di un attentato, ma già le prime testimonianze non lasciavano dubbi sull’origine dell’accaduto. Secondo il ministro degli Esteri bulgaro Nikolai Mladenov a provocare l’esplosione è stata una bomba. Le autorità bulgare hanno chiuso lo scalo, dirottando i voli su Varga.

Le accuse all’Iran. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu punta il dito contro Teheran: “Tutto induce a credere che sia stato l’Iran. Israele reagirà con forza al terrore iraniano”. E dagli Stati Uniti giunge la condanna della Casa Bianca, “nei termini più duri possibili”, come ha dichiarato il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney: “Obama e l’amministrazione stanno raccogliendo tutte le informazioni sul caso, ma resta incrollabile l’impegno americano per la sicurezza di Israele”. Il Presidente ha anche chiamato Netanyahu per porgergli le proprie condoglianze.

L’alto rappresentante della politica estera della Ue, Catherine Ashton, si è detta sconvolta e scioccata dalle immagini trasmesse dall’aeroporto di Burgas. Condannando l’attentato nel modo più fermo, la Ashton chiede sia fatto tutto il necessario per individuare gli autori della strage e portarli davanti alla giustizia. Il ministro degli Esteri Giulio Terzi, sconvolto per l’attentato, ha confermato che “l’Italia è e continuerà ad essere in prima linea a difesa del diritto fondamentale alla sicurezza di Israele e dei suoi cittadini”.

Le autorità di Tel Aviv avevano avvertito la Bulgaria, destinazione molto popolare presso il turismo israeliano, sulla sua vulnerabilità agli attacchi di militanti islamici infiltrati attraverso la Turchia. In passato, turisti israeliani sono stati oggetto di attacchi in India, Thailandia e Azerbaijan. Azioni dietro cui Tel Aviv ritiene vi sia l’Iran, che a sua volta ha accusato Israele di essere il mandante degli attentati costati la vita agli scienziati iraniani coinvolti nel programma nucleare di Teheran.

I testimoni: “E’ stato un kamikaze”. Gal Malka, un testimone intervistato da un’altra tv israeliana, Channel 2, ha raccontato di aver visto qualcuno salire a bordo di un autobus, subito dopo c’è stata l’esplosione. Si sarebbe trattato dunque, secondo questa testimonianza, di un attacco kamikaze. Il racconto combacia con la versione fornita telefonicamente da Aviva Malka, una donna che era a bordo dell’autobus, alla radio dell’esercito israeliano: “E’ stato un kamikaze. Ci siamo seduti, pochi secondi dopo abbiamo avvertito la grande esplosione e siamo scappati, passando attraverso uno squarcio nell’autobus. Abbiamo visto corpi e tanti feriti”. La ricostruzione ufficiale comunque al momento parla di una bomba.

L’anniversario dell’attentato di Buenos Aires. Come ha ricordato proprio Netanyahu, l’attentato di Burgas è avvenuto nel giorno del 18° anniversario dell’azione terroristica che a Buenos Aires, nel 1994, costò la vita a 85 persone, 300 i feriti. All’epoca, una cellula terrorista colpì con un’autobomba l’edificio dell’Associazione di mutuo soccorso ebraico. Per quell’attentato vennero chiamati in causa dalla giustizia argentina elementi di provenienza iraniana ed esponenti di Hezbollah. “Diciotto anni dopo – ha aggiunto il premier di Tel Aviv – il terrore iraniano continua a mietere vittime innocenti. Questo è un attacco del terrore iraniano che si diffonde nel mondo intero. Israele reagirà con forza al terrore iraniano”.

Le altre reazioni. Channel 10 attribuisce questa dichiarazione al ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, dopo una consultazione con i suoi consiglieri: “Israele saprà trovare e punire i responsabili. Nel frattempo gli israeliani mantengano i nervi saldi e continuino a viaggiare all’estero”.

Sconvolta anche la comunità ebraica italiana: a Roma una cerimonia straordinaria per le vittime dell’attentato di Burgas si terrà questa sera alle 21 nella Grande Sinagoga, come rendono noto Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana, e il rabbino capo di Roma Riccardo di Segni. Da Tel Aviv, dove domani, sabato e domenica dirigerà la Israel Philharmonic Orchestra, il maestro Riccardo Muti annuncia: “Il Requiem di Verdi sarà dedicato alle vittime dell’attentato in Bulgaria”.

I ribelli : «Continueremo fino alla vittoria» Assad sposta le truppe dal Golan a Damasco

Português do Brasil: O presidente Lula recebe ...

Português do Brasil: O presidente Lula recebe o presidente da República Árabe Síria, Bashar al-Assad, no Itamaraty. (Photo credit: Wikipedia)

Bombardamenti nella capitale. Gli insorti hanno abbattuto un elicottero dell’esercito. Continuano gli scontro con l’esercito
I ribelli dell’Esercito libero siriano (Esl) hanno iniziato «la battaglia per la liberazione» di Damasco e dichiarano di non fermarsi fino alla conquista della città. «Andremo avanti fino alla vittoria», ha detto il colonnello Kassem Saadeddine, portavoce dell’Esl. Ma Assad non rimane a guardare. E ha richiamato parte delle sue forze nel Golan, alla frontiera con Israele, e le ha dispiegate a Damasco. Lo ha spiegato il capo dell’intelligence militare israeliana, il generale Aviv Kochavi, ai parlamentari israeliani. Per poi aggiungere: «Non ha paura di Israele in questo momento, ma vuole soprattutto aumentare le sue forze intorno a Damasco».
RIBELLI- Così non si fermano le violenze, anzi si intensificano di giorno in giorno. «Abbiamo portato la battaglia dalla provincia alla capitale. Abbiamo un piano chiaro per controllare tutta la città. Abbiamo armi leggere ma sono sufficienti: aspettatevi sorprese», ha sottolineato il colonnello Kassem. Violenti scontri a fuoco, nel frattempo, si sono consumati tra le milizie fedeli al regime di Bashar al-Assad e gli uomini dell’Esercito siriano libero nel centro di Damasco. Durante i combattimenti è rimasto ucciso il vice capo della polizia di damasco, Issa Duba e fonti dei ribelli hanno annunciato di aver abbattuto un elicottero dell’esercito nel quartiere di Qaboun, nella capitale.
DIPLOMAZIA – Mentre al Casa Bianca mette in guardia il presidente siriano Bashar al Assad sulle responsabilità nell’utilizzo di armi chimiche, e Washington fa sapere che il presidente Obama non interverrà prima delle elezioni di dicembre, fervono gli incontri diplomatici. Il puntello di Assad restano i tradizionali alleati: la Russia e la Cina, che ha scatenato i mass media ufficiali al grido di «No alle ingerenze straniere». I giornali russi non danno molte speranze all’incontro avvenuto martedì tra Kofi Annan e Vladimir Putin a Mosca. «La crisi siriana è a un bivio»: secco il commento dell’inviato dell’Onu e della Lega araba Kofi Annan auspicando che sui progetti di risoluzione all’Onu «le discussioni continuino e i membri del consiglio di sicurezza trovino formule accettabili che converranno a tutti». «Nessun motivo per non arrivare a una risoluzione», «Fin dall’inizio abbiamo sostenuto e continueremo a sostenere i suoi sforzi come inviato speciale di Onu e Lega Araba, per ristabilire la pace civile» in Siria, ha detto Putin rivolgendosi ad Annan, al Cremlino. «Faremo tutto ciò che è in nostro potere per sostenere i suoi sforzi», ha aggiunto. Il tentativo di avvicinamento diplomatico avviene alla vigilia del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che voterà mercoledì una risoluzione sulla Siria.
GUERRIGLIA – I Comitati locali di coordinamento dell’opposizione siriana riferiscono di intense sparatorie sulla Via Bagdad e nel quartiere degli Abbassidi. L’aria a Damasco si sta facendo sempre più incandescente e in città regna caos e panico, soprattutto dopo la diffusione di un comunicato stampa da parte del Libero Esercito Siriano che ha annunciato l’avvio di una controffensiva nei confronti dei lealisti denominata “Vulcano di Damasco e Terremoti della Siria”. Nel testo si afferma che l’operazione è stata decisa «in risposta ai massacri e ai crimini barbarici» del nemico. Gli attacchi sono diretti contro «tutte le basi e gli uffici delle forze di sicurezza, nelle città e nelle zone rurali, per ingaggiare con esse combattimenti senza quartiere e intimare loro la resa». E si fa appello alla cittadinanza a unirsi nella lotta.
BOMBARDAMENTI – Le sparatorie arrivano mentre sono in corso da oltre 24 ore i bombardamenti dell’esercito su alcuni quartieri della capitale, tra i quali quello di Midane, vicino al centro e dal quale si leva una densa colonna di fumo nero. Sotto la pioggia dei bombardamenti è stato anche ucciso il vice capo del Dipartimento di polizia di Damasco, generale Issa Duba. L’omicidio è avvenuto negli scontri nel quartiere meridionale di al Midan. Alcuni militari, che hanno disertato per passare con gli insorti, annunciano l’inizio della battaglia per Damasco, mentre il governo iracheno consiglia ai suoi cittadini residenti in Siria di tornare quanto prima in Patria.

English: THE KREMLIN, MOSCOW. With Kofi Annan,...

English: THE KREMLIN, MOSCOW. With Kofi Annan, Secretary General of the United Nations. Русский: МОСКВА, КРЕМЛЬ. С Генеральным секретарем Организации Объединенных Наций (ООН) Кофи Аннаном. (Photo credit: Wikipedia)

Berlusconi attacca la Merkel e annuncia il cambio di nome “Addio Pdl, torna Forza Italia”

L’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sul sito della Bild
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Intervista alla Bild: «Ho visto arrivare per primo la crisi. Voglio una  Germania che sia più europea, non il contrario»

ALESSANDRO ALVIANI
BERLINO
Silvio Berlusconi torna a dare un’intervista a un giornale internazionale. E per farlo sceglie il quotidiano più letto d’Europa, la Bild, la corazzata del gruppo Springer che ha un ruolo chiave per influenzare il dibattito pubblico in Germania. Nel testo, pubblicato oggi in apertura della sezione politica del giornale e intitolato «Non vogliamo un’Europa più tedesca», l’ex premier annuncia che tornerà presto al nome «Forza Italia», esclude un addio all’euro, si definisce «il primo leader occidentale che ha riconosciuto il pericolo della crisi finanziaria» e attacca l’«eccessiva» politica di risparmi seguita da Angela Merkel – anche se giura di avere con lei un rapporto «molto cordiale». «Mi chiedono spesso e molto insistentemente» di ricandidarmi a presidente del Consiglio, esordisce Berlusconi. «Posso solo dire che non pianterei mai in asso il mio Popolo della Libertà. Tra l’altro torneremo presto al vecchio nome del partito: Forza Italia».

Berlusconi nega di non poter vivere senza il potere politico: «Non ho né un trauma, né ho ceduto il potere, in quanto il premier in Italia non lo possiede affatto: in base alla Costituzione non può neanche sostituire un ministro. Il potere ce l’avevo prima del 1994, quando facevo solo televisione», ricorda. Al giornalista Albert Link, che gli chiede cosa Mario Monti sia riuscito a fare meglio di lui, l’ex presidente del Consiglio risponde che la forza del suo successore sta nel fatto che «può contare sull’appoggio più ampio che un premier abbia mai avuto. Questo è il motivo che mi ha spinto a tornare: volevo rendere possibili riforme, anche di tipo costituzionale». Io, continua Berlusconi, «sono stato il primo leader occidentale a riconoscere il pericolo della crisi finanziaria e ad avviare riforme». Se l’Italia riporta sotto controllo i suoi conti pubblici «lo si deve in gran parte al mio governo», rivendica.

Rispondendo a una domanda sulle «gelide» reazioni tra Italia e Germania Berlusconi nega poi che Merkel venga percepita in Italia solo negativamente, come un leader controverso. «Critichiamo solo una politica di austerity eccessivamente rigida, che frena la crescita. Desideriamo una Germania più europea e non un’Europa più tedesca», nota. «Desideriamo da Berlino una politica europea lungimirante, solidale e aperta». Al momento, si legge su un passaggio anticipato ma non pubblicato sull’edizione cartacea, si sente «un certo predominio tedesco in Europa».

Berlusconi nega poi che il suo rapporto con Frau Merkel sia ormai compromesso. Anzi, quello con la cancelliera è un rapporto «molto cordiale, apprezzo la sua apertura, la sua serietà, la sua competenza e il suo impegno». Quanto alle sue ultime uscite sull’euro, l’ex premier ricorda che con l’introduzione della moneta unica il bilancio economico della Germania è migliorato, quello dell’Italia è peggiorato. «Ma ciononostante un ritorno alle valute nazionali mi sembra improbabile. Ciò significherebbe l’insuccesso del progetto storico di un’Europa unita, cosa che nessuno vuole».

In un’anticipazione di una parte dell’intervista non pubblicata sull’edizione nazionale cartacea ma solo sulla versione online della Bild, Berlusconi si sofferma anche sul caso Ruby e definisce il processo in corso «una campagna di diffamazione della nostra giustizia in parte di sinistra». Le ragazze sono state messe in relazione alla prostituzione, mentre hanno soltanto ballato «come in qualsiasi altra discoteca del mondo». Tutte le accuse si risolveranno nel nulla, come anche negli altri processi condotti contro di me: «Sono stati oltre 50 e ho speso oltre 428 milioni di euro in avvocati e assistenza legale. Non credo che nessun altro abbia resistito a tanti attacchi oltre a me».

ANGELA MERKEL: NIENTE SE NON TI CONTROLLO IO

Berlino (Germania), 15 lug. (LaPresse) – Tutti i tentativi di fornire solidarietà economica senza controlli “con me o con la Germania non avranno alcuna possibilità”. Lo ha dichiarato la cancelliera tedesca Angela Merkel, parlando della crisi europea e degli aiuti economici durante una intervista rilasciata al programma Sommerinterview dell’emittente televisiva tedesca ZDF. “La democrazia si basa sul fatto che gli accordi valgono non solo nel bene, ma anche in tempi difficili”, ha detto inoltre la cancelliera.
Nel pomeriggio di oggi, intanto, il primo ministro lussemburghese e presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, ha dichiarato di ritenere che i leader dei 17 Paesi dell’eurozona non ritengono l’Italia avrà bisogno di aiuti economici europei. Lo ha dichiarato, secondo quanto riportato dal sito di Bloomberg, in una intervista al giornale tedesco Der Spiegel. Se l’Italia chiedesse aiuti, continua Juncker, dovrebbe però sottoporsi alle esistenti procedure di supervisione europee.