angelaritaiolli

HO VISTO L’AGONIA DELLA TERRA Angela Rita Iolli

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Ho visto la terra donare frutti meravigliosi cui persino il sole ne invidiava la bellezza
Ne scaldava il colore con i suoi raggi, lasciando all’arte visiva 
l’estasi della contemplazione.
Ho visto boschi verdeggianti abbracciare con i loro rami e le loro foglie l’ossigeno di cui la nostra 
vita ha bisogno. 
I nostri passi hanno saputo solo calpestarne la dignità in segno di non riconoscenza.
Ho visto il mare palcare le sue onde quando aveva bisogno del consiglio di Nettuno, 
cullando i suoi figli prediletti nelle giornate di precario silenzio. 
L’ho rivisto incattivito quando ha scoperto di essere stato ingannato dai suoi stessi figli, 
assistendo inerme all’imbarbarimento delle sue acque.
Ha concesso passaggi a navi ed in cambio ha avuto scie d’inquinamento, che lo stanno spopolando.
Ho visto genti mantenere con forza le loro tradizioni, nessuno le ha capite, molti le hanno cacciate.
E’ rimasto il rumore delle loro lacrime e il vuoto di capanne distrutte. Nessuna pietà.
Ho visto il fuoco divorare la speranza, abbassare occhi stupiti, inermi davanti allo scempio.
Ho visto indifferenza per Madre Natura, un tempo materna adesso cattiva matrigna.
Ho visto malattie minare resistenze e certezze, lasciandosi alle spalle una gelida impotenza.
Ho visto la morte sorridere e farsi beffa degli uomini, spegnendo qualsiasi ottimismo.
Infine sullo sfondo ho visto una figura piccola, meschina, chinata su se stessa,
l’artefice di tutto ciò:
ho visto l’uomo e mi sono vergognata di lui.
Un angelo caduto a cui si sono spezzate le ali.
Ho visto l’agonia della Terra.

 

Angela Rita Iolli

ALLE PRIME LUCI DELLA SERA di Angela Rita Iolli

Rosa sul pianoforte

 

Alle prime luci della sera, quando smetti l’abito indossato di giorno e cerchi refrigerio dal caldo, improvvisamente ricordi il canto delle cicale, che non hanno più voglia di cantare, in quel loro assolo tipico a spezzare silenzi notturni scivolati su bicchieri rotti che sanno graffiare. Quando il sapore del vino ghiacciato attraversa gole assetate che non smettono di dissetarsi. Un’arsura le ferisce, e quel bicchiere tenuto stancamente tra le dita serve solo ad attirare sguardi ansiosi di bollicine. Nella stanza dalle finestre aperte appaiono tatuaggi di vita, che neppure un foglio bianco saprebbe macchiare del giusto inchiostro. C’è il pianista, che cerca accordi che non siano i soliti, cerca l’oltre, il pezzo che supera le barriere, e vede Mozart che sorride. Gli gira intorno, accarezzando il pianoforte a coda, sfiorandone i tasti in bianco e nero d’avorio, un tocco di velluto su note irripetibili. Il pianista che sognante vola, immaginando oceani e isole dove trovare esausto il naturale approdo. 
C’è il trombettista che quasi discute con Miles in quel suo don’t play what’s there, play what’s not there, inseguito da armonie che si fondono con la più struggente malinconia. E’ lucida d’ottone quella tromba, non più ascensore verso il patibolo, ma momento di gloria inseguito e raggiunto in quella ricerca di colori dell’anima, che solo un pentagramma baciato dalla sorte può regalare. 
Il fuoco dentro, l’accensione di fiati a cui dare corpo per liberare l’immenso. C’è il batterista con le sue bacchette, capace di addolcire un suono di fronte al quale sa mettersi a nudo. Non esiste nulla intorno, solo quel suono, quel parossismo senza eguali, un annullarsi completamente fino allo sfinimento, in quel fascio di nervi e muscoli tesi come corde. Assomiglia ad una statua dell’antica Grecia, tanta è la bellezza che emana. Momento in cui persino le stelle se avessero un cappello se lo toglierebbero in segno di ossequio. 
C’è il chitarrista con le sue mani che scivolano beate, sembrano intrecci di ricami, pennellate d’autore. Scivolano creando l’armonia, la catarsi e l’orecchio si adegua non potendo fare a meno di ascoltarlo.
Serenata di una notte di mezza estate, in attesa del solstizio in cui fare festa, tra danze e la sensazione fresca dell’acqua sul viso. Gioiosità di figure che girano in tondo in un unico abbraccio. Quando un gioco, un ballo, persino una parola accompagnata da musica aiutano a dimenticare.
La musica che sa giocare, ammaliare, sedurre con il suo ritmo da gustare un po’ alla volta come quel bicchiere di vino, sorseggiando quella cascata di ghiaccio e note senza provare freddo, ma uno strano fuoco dentro. Alle prime luci della sera può accadere che diversi strumenti diventino colonna sonora di un sogno che sa di cinema, di fotografia, di scrittura. Che non si abbandona in un angolo, ma ha bisogno di un palco, dell’applauso, come sangue che scorre dentro. Guardando negli occhi chi lo sa ascoltare, innamorandosene. Fuori il colore rosa del cielo rammenta che il sole è andato a dormire ad occidente, la musica invece resta sveglia, c’è voglia di lei stasera. Nessuno potrà fermarla.

Angela Rita Iolli

GUARDANDO IL MONDO DA UN’AMACA di Angela Rita Iolli

mondo

 

Tira una strana aria stasera, nonostante il caldo ricominci a non dare tregua. Voci di chi ha trascorso l’intera giornata, ciondolante, davanti ad una cantina hanno il sapore di bocche impastate e disarticolate dal vino mandato giù. Cantano vecchi stornelli con l’aria di chi non ha più niente da chiedere, se non l’ennesima bottiglia da scolare. I cocci li troveremo sparpagliati l’indomani ai piedi di un muretto consumato dalle lunghe chiacchierate di comitive che vorrebbero che la notte non finisse mai. Ora che la scuola ha chiuso i cancelli dell’ennesimo anno rincorso da riforme e malumori, le comitive ritrovano la loro naturale dimensione in appuntamenti rituali in posti impensabili. Li vedi agguerriti davanti ai quadri di ammissione, dentro o fuori, alcuni ancora increduli di avercela fatta, altri con l’ennesima sconfitta da digerire, sarà per un’altra volta. Partono abbracci consolatori e di saluto all’anno che verrà, quando ognuno di loro sembrerà più grande degli anni che ha, vestito di esperienza e avventure piene di illusioni e traguardi da raggiungere. Molti resteranno indietro, affascinati da una vita senza pretese, da svogliatezze inesorabili e da rinunce, facile prede di sirene lavorative. Altri sogneranno di diventare qualcuno, l’ingegnere della monoposto in prima fila a Maranello immaginando sfrecciare la rossa ed il suo motore, dolce musica per le orecchie da intenditori, un rombo che da sempre fa sobbalzare cuori; il medico in cerca di scoperte sensazionali, in questi tempi di ricerca necessaria di cure e protesa verso vite in pericolo; il matematico alle prese con le sue formule per cambiare pensieri e arrovellare meningi già sfiniti da sudoku e cubi magici che sembrano far parte della preistoria; il filosofo amante delle sue belle parole in conflitto con uditori che desiderano altro, com’era ai tempi di Platone quando iniziò a parlare di un mito che non avrebbe pù cessato di esistere nelle fantasie dei posteri: Atlantide immersa in quel sogno che Nettuno in una notte senza tempo fece per sempre suo; lo scienziato che combattuto tra angeli e dèmoni deve convincere se stesso di vedere un altro universo, usando quello specchio capovolto in cui riflettere certezze da secoli oggetto di furioso contendere. La particella suprema da scovare per dominare il mondo non più come Atlante, che se ne caricava tutto il peso sulle spalle, ma come un folletto dispettoso che si diverte a sparpagliare le carte da bravo mazziere; lo scrittore con la sua anima fotocopiata nelle pagine di un libro che solo sa i suoi segreti insieme a chi leggendolo saprà ascoltare fino all’immedesimazione. Il lettore alla ricerca dell’autore in quel rincorrersi tra gli scaffali di una qualsiasi libreria in un patto di sangue che cambierà i destini di entrambi. Infine i tanti peter pan, eterni giocherelloni, schiavi di abitudini bambine che li portano lontano catturati da sogni ripetuti nel tempo, loro alleato principe. Sono loro a non voler cambiare, a non uscire dal guscio in cui si sono chiusi scaldando le loro anime ferite da un progresso che va avanti come un bulldozer, fregandosene delle loro aspettative, del loro fermare gli attimi per poterne respirare i giorni. In un ideale gioco delle parti con la natura, di cui sanno percepire energie a noi sconosciute, frutto di incantesimi e magìa che i loro voli pindarici sanno bene coltivare. Sono loro a regalarsi istanti vissuti tenacemente come le radici che non vogliono staccarsi dal terreno che hanno individuato come loro insediamento. Sono loro a vedere lontano, l’impossibile, l’isola che non c’è e che invece dovrebbe esserci per ognuno di noi, destinato almeno una volta nella vita ad abitarla per toccare con mano ciò che ancora fa compagnia al mare durante i suoi momenti di solitudine: quell’infinito in cui puoi disegnarci la meraviglia, il sogno, l’armonia, la vita. Quella vita che a volte non ci soddisfa, vorremmo diversa, noi che ci sentiamo naufraghi su quell’isola, ma amanti di quel silenzio che ci sa cullare maliziosamente. Come tanti Robinson Crusoe capaci di inventarsi amici immaginari, sulla soglia di quella follia che basta pizzicare per fare nostra. Inevitabile, necessaria per evadere. Guardando il mondo da un’amaca, desiderando che nessuno ci venga a cercare. Tira una strana aria stasera, mentre le mamme faticano a riportare a casa i loro bambini, chissà se conserveranno per loro una carezza o una pagina di un libro di favole, quando stanchi di giocare si addormenteranno, loro sì non fingendo di sognare. Spensieratezza da cui noi tutti dovremmo imparare. L’aria è cambiata, il sole è tramontato, la notte si prepara a vivere il suo momento di festa. Gli altri non vedono l’ora di correrle dietro, chi stremato, chi assonnato, chi spiritato, tutti allegri fantasmi di ciò che solo lei è capace di architettare. 
I vicoli stanno ad ascoltare i segreti degli amanti. Nessuno li disturberà. Qualcuno ha lasciato libero un aquilone. 

Angela Rita Iolli

NUMERI E PAROLE di Angela Rita Iolli

letteregemelle

 

“Anche all’ombra della morte due pù due non fa mai sei” (Tolstoi)

Ci sono giorni la cui somma viene data dall’esperienza che abbiamo avuto nei loro confronti, accorgendoci a malincuore che i conti non tornano quasi mai, fatti di numeri che vediamo di continuo attorno a noi. Quegli stessi numeri che maneggiamo con cura nel fare la spesa oppure con destrezza nel portare a termine un sudoku, quando ci riesce. E che proprio per questa familiarità verso di loro finiamo con il dare per scontati, senza immaginare l’universo di sogni, di idee, di scoperte e storie che ciascuno di loro può regalarci. Offrendoci una ricchezza infinita, nascosta dietro un pallottoliere di affascinanti formule. E così ci immaginiamo tanti Einstein, relativamente geni arrivando persino a convincerci che la matematica più che un’opinione è stata sempre una recondita armonia. Quella che ci porta a parlare di meccanica quantistica e di Gauss, rimanendo noi stessi catturati da quel flusso magnetico, come se stessimo ascoltando un andante allegro del divino Amadeus, un libro sui destini del mondo di George Orwell o riflettendo sul senso della vita. La vita, lei stessa ridotta ad un numero travestito e moltiplicato per gli anni della nostra età, con le sue domande infinite e i suoi calcoli infinitesimali, attraverso i quali si dipana l’intricato gomitolo della struttura del DNA, il sofferto pentagramma su cui Bach scrisse la sua Messa in Si minore, il gusto un po’ strano che caratterizza i sapori dei quark, ma assai elettrizzante. Numeri, soltanto numeri, che abbiamo imparato a conoscere ancor prima di andare a scuola, osservando quelle strane forme sulle targhe delle macchine, sui numeri civici delle vie, sulle foto un po’ sbiadite delle lire, sulle pagine di un libro, ossessionando sino allo sfinimento chi li conosceva già. Salvo poi pentirci di averli conosciuti, quando frequentando le scuole ci apparivano sotto forma di tabelline, memorizzate a pappagallo con grande gaudio di Pitagora che ahinoi così sapientemente ha saputo allinearli. Il nostro incubo dell’infanzia, appena attenuato da filastrocche e canzoncine in cui quarantaquattro gatti in fila per tre col resto di due dovevano portarci a capire che 6 per sette, da quando gli astronomi babilonesi si cimentarono con i numeri restando leggendari, avrebbe fatto per sempre 42. E crescendo avrebbero accompagnato le nostre giornate peggiori in compiti di matematica, dove iperboli assurde segnavano la nostra condanna e improbabili formule chimiche ci portavano a colorare la nostra media scolastica di uno strano rosso, che stava alla vergogna come il quattro impresso sulla pagella. Inesorabile, un colpo ai nostri sogni nel cassetto, schizofrenica convinzione di diventare ingegneri famosissimi. Andando a ritroso nel tempo a quei scienziati egizi, che hanno saputo creare dei veri e propri rompicapo, quasi a voler mantenere il segreto su quei straordinari capolavori di ingegneria. Questione di numeri, questione di solitudine. E i conti continuano a non tornare e noi come piccoli Don Chisciotte a lottare contro i mulini a vento dei nostri pensieri per arrivare a farli quadrare e a scoprire i nostri portafogli sempre più vuoti. E se i mesi sono fatti di 30 e 31 giorni, salvo una rara eccezione durante l’inverno, che fatica arrivare al 15 con l’acqua alla gola e la paura di non farcela. Anoressia da numero. E noi ad ascoltare promesse che non arriveranno mai, sotto smentite spoglie di chi con un sorriso vorrebbe ingannarci, mentre c’è chi non riesce nemmeno più a sorridere, invitandoci a segnare indelebilmente a matita un segno su speranze elettorali ormai andate in fumo. E i conti continuano a fare acqua da tutte le parti, mentre c’è chi fa mettere l’abito della festa a finanziarie senza scrupolo accumulando altri debiti sulla propria personale disperazione e sui nodi alle cravatte che stringono sempre di più. E i conti che ci inseguono con i loro numeri, che moltiplicati si divertono a farci recapitare bollette aggiungendo un pizzico di suspense subito svanito dopo l’apertura della buste. Numeri approssimativi su fragili giornate dove gli orologi spietati continuano a girare le loro lancette fino alla mezzanotte, quando solo la pienezza della luna illumina stanze dove non si riesce più a dormire e se solo si potesse ci piacerebbe puntare sui numeri sognati e dettati con una smorfia dal morto che parla, assolutamente da affiancare alla paura, in un ambo che ci regalerebbe ossigeno. La teoria della probabilità, che rovesciata si chiama sfortuna, lei sì che ci vede bene. Numeri e la loro solitudine insieme a chi li sta a guardare e come un bambino felice vorrebbe soltanto contare uno.. due .. tre … stella. Ma i conti non tornano più e i numeri hanno smesso di parlarci.

 

Angela Rita Iolli

IL CAPPELLO DI MOZART di Angela Rita Iolli

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« Una tromba che diffonde un suono meraviglioso nei sepolcri di tutto il mondo, chiamerà tutti davanti al trono. La morte e la natura stupiranno, quando la creatura risorgerà, per rispondere al giudice. Verrà aperto il libro, nel quale tutto è contenuto, in base al quale il mondo sarà giudicato. Non appena il giudice sarà seduto, apparirà ciò che è nascosto, nulla resterà ingiudicato. E io che sono misero che dirò, chi chiamerò in mia difesa, se a mala pena il giusto è tranquillo? »

Sto ascoltando Mozart, un suo andante, vecchio mio pallino dell’adolescenza e chissa perché lo immagino con un cappello in testa. Lui così straordinario eppure così normale nella sua genialità, macchiata anzi annebbiata dal suo chiodo fisso. Quello di concludere il Requiem, la sua ultima opera, quella per cui avrebbe dato tutto se stesso. Una messa qualunque ma non per il genio, tentato più volte da quei ducati che ne avrebbero risollevato l’umore caduto in disgrazia, e ispirato da mano oserei divina per quello splendido pezzo Tuba Mirum, nel quale solo lui poteva così sapientemente fondere teatralità e sacralità. Sembra di sentirle le campane sciolte in suo onore durante i suoi funerali, quasi ad invidiare quella composizione celeste e a trattenere un pianto composto dinanzi al capolavoro. Lo immagino Mozart alle prese con le sue ispirazioni, lui così baciato dalla dea della Musica, che già in età bambina poteva permettersi il lusso di passare con nonchalance dal clavicembalo alle prime composizioni. Lui così timoroso della tromba eppure un vero e proprio miracolo vivente quando si trattava di sedurre la musica. Lui così attento ad ascoltare, tanto da riuscire a memorizzare un pezzo come il Miserere di Allegri gelosamente conservato e ai più interdetto, con una semplicità fanciullesca che solo a lui era concessa. Lui che poteva diventare addirittura principe, anche se della Musica lo sarebbe stato per l’eternità, se solo quella bambina di cui si era invaghito durante un ricevimento nella Vienna di Maria Teresa, gli avesse detto di sì. Ma non aveva bisogno della mano della futura regina di Francia, Maria Antonietta, lui abituato ad essere uno spirito libero, un vero libertino per i suoi tempi, un amabile mai noioso. Diavolo di un musicista che ha saputo cambiare i tempi, il suo tempo, lasciando a bocca aperta chi aveva la fortuna di udirlo suonare e chi la sfortuna di trovarselo nemico. Lui che sapeva dare quel tocco in più a quei violini veri protagonisti di Lacrimosa dove sembrano fondersi anzi piangono davvero, perché solo i suoi violini erano capaci di non temere il silenzio, trafiggendo i cuori in ascolto. E le lacrime era difficile trattenere insieme a quella strana commozione che solo i grandi sanno suscitare. Lo sto ascoltando Teofilo, altro suo nome, e mi sembra di conoscerlo da sempre. Quasi lo vedo nella sua risata sarcastica, magnificamente fotografata da Forman nel suo Amadeus, prendersi gioco di tutti noi, perché in fondo è rimasto sempre un genio bambino. Cresciuto troppo sotto quella buffa parrucca, simbolo dei tempi, ma padrone indiscusso di tutto ciò che si chiamasse Musica. Il genio di Salisburgo. Chissà come saranno state le tue sere davanti a quel pianoforte che adoravi suonare e quando la nota proprio non voleva saperne di entrare, addirittura sostituivi le mani con il tuo naso. Quasi l’olfatto potesse risolvere l’arcano, perché la perfezione doveva essere assoluta. Chissà se il calore del camino, in quelle sere scaldava i tuoi momenti di crisi e quella miseria in cui non dovevi cadere. E quegli enormi lampadari abituati a scortarti durante quei fastosi ricevimenti in cui tu eri la star indiscussa, chissà quanto avrebbero rimpianto la tua mancanza. La loro luce non sarebbe stata più la stessa, nonostante le loro gocce sfavillanti, simili a preziosi diamanti lucidati per l’occasione. La luce eri tu, attraverso la magìa di quel flauto, di quel re pastore e di quel Don Giovanni troppo simile a te per essere solo una composizione, e quell’andante, straordinaria colonna sonora della Mia Africa. 
Attraverso quel tuo essere sbarazzino e quel concerto in re minore K. 466, in quel dialogo tra pianoforte e orchestra che dopo un quarto d’ora ha regalato ai posteri una delle più belle pagine musicali di tutti i tempi. Il solo e tutti. Tu e i tuoi ascoltatori, che ancora oggi sognano con le tue note. E non è un sogno di una notte di mezza estate, è l’apoteosi del risveglio, in quel farsi dolcemente accarezzare dal tuo genio. Che un giorno ha deciso di sposare l’unica Musa che potesse interessarti: la Musica. Che gran regalo Amadeus. Persino Antonio avrebbe applaudito.
Preferisco chiudere il sipario qui ed immaginarti altrove, a dirigere un tuo concerto mentre ti sorridono gli occhi ed il pianoforte con i suoi tasti ti regala ancora una volta l’immortalità. Rock me Amadeus.

Angela Rita Iolli