poesia

LE CENERI DI NOI

LE  CENERI  DI  NOI

Vanno per anime, le truppe indecifrabili di questi nomi

che scorticano ogni cosa ed ogni cosa addentano,

in questi giorni putridi, scanditi dal rumore di mascelle

e dal silenzio, le cose marcite nell’aria dell’assenza,

i ricordi detti <<illeciti>> fattisi carogne.

Le immense svendite commerciali di coscienze

andate come condannati ad un patibolo

con mille boia che scioperano,

ombre di uomini che si rincorrono riconoscendosi satolle,

frasi d’inespugnabile vergogna e inedia.

Ancora aria, che sventola le facce odiose,

quelle dei servi impazienti, scalcianti, operosi

schiavi della nuova libertà, come banderuole

di tornei e di giostre secche, ostinati volti della morte

oscena, del progresso furibondo, s’innalzano in piramidi.

D’insulti e di menzogne, con l’idolo imbalsamato

di cui hanno scartato il cervello che strascicano

dalle fosse del naso e gettano, inutile grigio avanzo,

nel pozzo nero dell’abisso senza baratro,

fanno i canòpi loro del loro faraone.

Vanno per anime, le loro mani indegne e deformi,

ottuse protesi meccaniche, ora che niente le trattiene

e invadono strade ch’ebbero un sogno,

tombe che serbarono ideali, simboli che ci furon cari,

speranze che regalaron morte e onore e eterna vita.

Tutto esse percorrono come intendessero un dovere,

quando non un diritto, il peggio,

con un comando pernicioso d’oblio nel loro petto esangue,

d’ignoto ignorano e di passato fuggono,

nati come metastasi di un nuovo e vecchio cancro.

Tacciono i vermi ciechi, aggrovigliati entro

quel corpo ch’essi muovono come vivesse ancora,

spingendosi gli uni con gli altri, scavando angusti spazi

nella carne morta, ormai già preda e patria

d’insetti avidi, verdi come le mosche verdi.

Forse sbarrammo il campo di primule

al passo del tuo corpo giovane,

fummo di meno noi che ci credemmo e fummo

come cipressi di camposanti, alti, vertiginosi

e ondivaghi cattivi esempi ad il tuo sguardo.

Noi figli di rosari e crocefissi segnati

come anonimi figli di X su schede nei seggi,

quando che quest’Italia rosa e resa,

mercanteggiata al prezzo di uno sbarco mafioso

si fece liberata dai soldati scesi dai loro padri usurpatori delle Indie.

Furono i fazzoletti rossi al collo usati come cappi,

sudati e laceri di battaglie perse (appena vinte),

quando borghesi e cattolici e preti,

come risorte carcasse galleggianti sugli scoli strinsero il nodo,

affondando le prime mani sulla Storia, per cancellarla.

Ancora i corpi resi cenere e denti d’oro e paralumi,

e immondi esperimenti, dissoluzione d’ogni umanità,

trionfo d’ogni male, nauseabonda sciagura d’alleanza e

sogno infantiloide di grandezza neoimperiale,

stavano a rigettar carezze ipocrite e a ricercar giustizia.

Ancora la follia segnava i muri delle case spoglie

con gli slogan, ancora echi di parate sembravan dire al mondo:

“Nudi alla meta”… ma nudità ben altra scoperchiava

l’ambizione, la propaganda, la marcia ed il bivacco,

nel mezzo di macerie di quella voce studiata per la folla femmina.

Ecco, eravamo noi i figli di quell’epoca finita,

appena nati per poter scandire un vagito,

appena uomini poi per averne la paura, l’orrore,

la miseria morale, che molti invece rimpiangevano,

come la stessa madre mia, e la sorella e la sua madre.

Quanto fu dura, aspra, lacerante questa storia mia,

questo quotidiano disaffetto lordo di incancellabili scorie,

teso come la freccia all’arco, pur che fossi scoccato lontano

dalle mie radici, ch’io stesso mozzai sanguinando del mio

stesso sangue, appena adolescente, e appena orfano.

Ricordo me e mio padre, accerchiati dalla peggior grettezza,

esuli tra le mura domestiche, condannati alla guerra senza quartiere

con quelle donne riunite attorno a un giradischi a 78

che vomitava quella voce immonda, assordata dai boati

di quella stessa folla delirante, tra cui molti poi furono in piazzale Loreto…

Io ragazzetto fragile, asserragliato in maschera di forza

e di coraggio, sempre ai cortei, agli scioperi, alle occupazioni,

spesso sanguinante ma felice, sentivo in fondo alla ragione

d’esistere l’irrompere della vita, l’odore sincero della fratellanza,

la confidenza stretta e inusurpabile coi miei ideali sociali.

Vedevo nei miei stessi occhi quel futuro e quell’afflato,

quella speranza di giustizia che cancella ogni barriera,

ogni paura, ogni diversità, ogni diseguaglianza…

E navigavo con in petto la mia vela e nei capelli lunghi

i vortici tenui e imbattibili di un vento che creava un mondo.

Eravamo fratelli e sorelle… Oh sì, se lo eravamo.

Eravamo noi quelli che il mondo avrebbe odiato,

tanto la nostra idea ci tenne fermi, senza che alcuno

ci facesse vacillare mai, tanto le nostre gambe erano giù,

nel cuore della terra, piantate da meravigliosi semi di pace.

Raccoglievamo ore di gloria e giorni d’odio,

mia madre mi ribattezzò “Anarchico e Rivoluzionario”.

Divenni per lei e le sue amiche il diavolo in persona,

la vergogna, lo sconcerto, il pentimento di maternità,

mentre scorrevano imperterriti gli anni, gli anni duri, le immonde stragi.

Ricordo Brown Sugar, che falcidiò compagni deboli,

insicuri, afflitti da un suicidio lento e inesorabile.

Privi d’affetto, di sostegno al loro legno acerbo,

incapace di reggere tutto quel peso e un ideale scomodo.

Esso fece di noi dei felici reietti, ognuno ebbe il suo dalla famiglia.

Mentre ancora il mio sguardo poggia sulle sedie vuote,

d’un tratto all’accademia, nomi e cognomi iscritti tra i morti

di una guerra odiosa, senza né gloria e né giudizio di nessuno,

solo siringhe sul petto al posto di medaglie,

cucchiai ancora incrostati di quei paradisi inseguiti in fretta.

Forse lo fummo noi – i sopravvissuti – ad impedire il passo

tuo verso il tuo sogno. E quello stesso benessere ch’oggi lamenti

da noi venne: chi mai lo negherebbe? Quello che ti assedia,

ti perseguita, ti ferisce, ti annienta, ti sfigura. Orrenda maschera

del nostro corso, noi diventati odiosi padri di un’Italia spenta.

Tutto sembra crollato nella nostra via di mezzo.

E tutto ciò che vedi – se pur tuo – ti tiene altrove.

Di noi non puoi né dire bene né provare odio.

Non meritiamo l’uno e tantomeno l’altro.

Perché non siamo altro che il triste Progresso, che ha perso tutto consumando.

E, mentre ci guardi esistere, oggi siamo solo cenere.

Salvatore Maresca Serra – 25 Maggio 2011, Roma

MARIA PIA MONICELLI “Ho nel palmo il mare”

Non è passione

è solo il vento del deserto

e questa polvere rossa

non è sabbia

ma ciò che resta sospeso

di quel che mai fu.

 

Esistono rare forme umane, si chiamano Poeti. Vivono ancora l’incanto del primordio del linguaggio, del segno, della scrittura e della parola che diventano Suono, e Danza. I Poeti sono capaci di dare un corpo – modellandolo tra suoni e pause – anche a tutto ciò che un corpo apparentemente non ha, o non avrebbe, se – a volte – non lo avvertissimo essere presente, e camminarci affianco, quando percorriamo quelle vie nascoste, a volte occultate a noi stessi, dei nostri sentimenti. In realtà, questi corpi celesti ci attraversano, ci materiano, sono la parte più sottile del liquor: quella “vita” intelligente che, se distrutta, non ha il potere di rigenerarsi al pari di altre cellule. Cellule che nascono e muoiono, e che vengono costantemente sostituite da altre. Il Liquor no. Maria Pia Monicelli ha fatto di questa insostituibilità una ragione di vita; una ragione che si nutre di una ragione profonda, e non razionale-logica, bensì olistica, che racchiude in sé una evidente escatologia delle cose tutte, e che – pur inglobandola nel tutto – annienta anche l’invidia che gli Dei provano per noi mortali, per noi dotati di irripetibilità: esseri unici. Mortali.

Nei versi di Maria Pia io avverto anche il riscatto degli Dei.

Lo avverto quando recita: “ma ciò che resta sospeso di quel che mai fu“, attribuendo un corpo dotato di Topos e di Logos a ciò che mai è nato – “mai fu” –, ma che pure ineffabilmente “vive” come antimateria dell’Essere, o dovremmo dire forse antichronos, per comprendere cosa è una Sospensione, se a dirlo è un Poeta.  Dobbiamo quindi (nel vero senso che abbiamo un debito con essi) ai poeti il corpo – e la consapevolezza che ci danno di esso – delle cose che fuggono, e che rapidamente scompaiono dal flebile tessuto della memoria: sono sospese. Vivono in quel tempo parallelo invisibile, anche quando mai furono, e ancor più se non lo furono. Quelle cose che chiamiamo rimpianti quando fanno parte della coscienza, la coscienza dei sentimenti. E questi rimpianti appartengono sia ai mortali che a tutti gli Dei che tutti furono immortali, per dirlo attraverso le parole di Cesare Pavese. Oppure non sapremo mai cos’è la Sospensione, e cosa il Rimpianto.

Scrive Pavese: Nel dialogo Le Muse si definisce la poesia – si dice, tra l’altro, di ogni gesto che l’uomo fa, che “ripete un modello divino” e giorno e notte l’uomo non ha un istante “che non sgorghi dal silenzio delle origini”.

Esiodo viene invitato da Mnemosine  a riferir questo ai mortali – nasce la poesia. *

Nella poesia di Maria Pia Monicelli il silenzio delle origini si manifesta come un’eredità che lei ha raccolto a piene mani, fatta di continui risvegli. E’ come se il Poeta cantasse  ogni parola tra una vita e l’altra, e tra una morte e l’altra, perchè di questo si tratta: di un inarrestabile e costante risveglio. Ecco la presenza di quel che mai fu. Una misura del tutto. Se vissuto fuori dal tempo, una dimensione della natura del Poeta, che ha nel suo destino cantare ciò che fugge, e scrivere di ciò che – per fermarlo – ci sfugge.

Scrivere di un altro artista non è mai cosa né sana né facile, ma sempre una cosa che ti arricchisce nell’anima. Ed è per questo – egoisticamente – che, in breve, l’ho fatto.

Salvatore Maresca Serra


 * Cesare Pavese, La poetica del destino, in Letteratura americana, cit., p. 311

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E’ questo segno

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E’ questo segno, muto e lacerato,

antico eppure nascente,

urlante sotto la pelle risarcita dai giorni

tutto il suo dolore e la sua gioia.

 

E’ questo segno,

tormentato dalle lunghe orazioni,

e scarno di peccato,

debitore e creditore della tua grazia.

 

Ignoto a se stesso e ignaro.

Scavato dall’essenza del suo nulla.

Operoso, instancabile, tremendo:

che fissa il mio sguardo senza pietà alcuna.

 

E senza alcun rancore.

Che mi ricorda il nome ignoto delle cose,

le vanità perdute nel gioco,

le saggezze noiose degli adulti.

 

E’ lui, questo Prometeo,

ladro di fuochi che brillarono,

solo nell’ore dell’attesa.

Quando invecchiai sognando d’essere ancora feto.

 

E’ questo segno,

che pullula d’immortali finzioni,

di nomi che rubai al destino,

di storie sofferte e gioite che mai vissi.

 

In fondo a quella strada,

asfaltata di derisioni

e percorsa da mille ruote,

e così, battuta da mille meretrici che vissero in me.

 

Salvatore Maresca Serra, Roma 1990

LA TERRA DEI SOGNI – Salvatore Maresca Serra

 


 

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Abbiamo lasciato indifferente la terra dei sogni

cucendo una meccanica agonia dei sensi,

una cara toppa all’abito della festa

da cui il nostro corpo ormai lacero un tempo mostrava nudo

la pelle atea, ma poi ogni ignudo è stato vestito,

e niente si è più consumato,

la vista si è spenta smarrendosi

e lasciando spazio al buio della vita.

 

Al dolore abbiamo preferito la coscienza

e alla gioia dell’idiota abbiamo mozzato la lingua

così che non dicesse mai più il nome della vita,

e siamo scivolati verso la fine

senza più temere di non farcela,

noi, ragni laboriosi, eroi vecchi e stanchi di una guerra vinta e perduta,

e tante volte dimenticata

quante sono le ore di un giorno utile al mondo.

 

Nella bella tela abbiamo catturato solo rimpianti,

il nostro corpo si è nutrito fino a scoppiare,

e cosa abbiamo concluso, se non un viaggio nel vuoto?

Se il mondo è infame, la medaglia che ci appuntammo sul petto

ne è l’esatta misura,

e a quelli di noi che coltivarono il campo a mezzodì

col fiume inesausto del sangue

resta indelebile il miasma della nostra guerra, attaccato addosso come marchio.

 

E’ così che fummo uomini

con la paura di amare:

con l’osso del vicino facemmo banchetto e clava,

con la sua prole affilammo il coltello,

con la sua donna sputammo il furore dell’odio.

E’ così che fummo uomini

col nostro dio degli eserciti

che verso l’infinito marcia coi calzari dei morti.

 

Salvatore Maresca Serra