Il Pensiero Del Giorno

LO SVILUPPO O LO SVILUPPO DELLA CORRUZIONE? Giuseppina Meola

L’avvocato Giuseppina Meola

LO SVILUPPO O LO SVILUPPO DELLA CORRUZIONE?

In occasione della recente conferenza internazionale dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico è stato diffuso il rapporto “Italia. Dare slancio alla crescita e alla produttività”.
Il documento e gli studi che ne costituiscono il prius logico-cronologico evidenziano quanto in Italia il livello di corruzione sia superiore a quello della media dei Paesi OCSE.
Il Presidente Monti è intervenuto sul punto stigmatizzando “l’inerzia non scusabile” di alcune parti politiche, che ha ostacolato l’iter parlamentare del ddl anticorruzione.
Non un fulmine a ciel sereno, ma l’ennesimo tuono in una notte buia e tempestosa per l’italica penisola, bagnata dal mare e affondata dalle falle partitocratiche, politichesi e finanziarie.
Un’Italia corrotta nel corpo e nell’anima. Nell’immagine!
Da questo dato preoccupante, ma non nuovo, si può procedere verso una breve riflessione in termini di raffronto tra la criminalità da strada e quella dei palazzi.
Il delinquente “semplice”, il mero mascalzone, che commette reati comuni, più o meno gravi, è considerato un criminale, è il reo per antonomasia, gode di pessima considerazione da parte della società. Ciò fa sì che la commissione di un reato ordinario tenda ad unire la collettività. La “gente onesta” si compatta per esprimere ad una voce la più dura riprovazione nei confronti di un ladro, di uno stupratore, di un omicida.
D’altra parte, il white collar crime ha una forza disgregante, alienante, rende tutti un po’ più monadi alla ricerca di un clinamen che non accenna a delinearsi.
I reati dei colletti bianchi mettono in discussione la legittimità dell’ordine sociale, la fiducia nelle Istituzioni, nella Giustizia, nel “noi” elevato a sistema!
I colletti bianchi appartengono alla classe dominante; un reato commesso da un colletto bianco è un reato commesso da chi ha potere. E’ il reato nelle mani di chi detiene il potere!
La corruzione e le finitime fattispecie penali inglobano la patologia dell’atto del singolo e macchiano il sistema, sporcano tutto e tutti, colpevoli ed innocenti.
Sono espressione del male delle società avanzate, più del traffico di stupefacenti, più del tanto pubblicizzato “delitto passionale”. Sono l’emblema della perversione del privato convinto che solo influendo con offerte, doni o promesse di doni sia possibile aprire le porte sulle meraviglie del pubblico ad uso e consumo ed abuso del privato.
E’ il reato che sale sul trono, che diviene dittatore della democrazia.
E’ il cancro capace d’infettare fasce sempre più ampie e capace di farlo sempre più velocemente.
L’evoluzione tecnologica nelle strutture deputate agli scambi di moneta e titoli, la moltiplicazione delle transazioni finanziarie, le enormi possibilità di connessioni intersoggettive, lo sviluppo del remote banking fanno sparire il provincialotto che porta il cappone all’impiegato piccolo borghese.
In un mondo che è villaggio globale si assiste anche alla globalizzazione della corruzione.
Ecco perché sentirsi dire che l’Italia è più corrotta della media OCSE disgrega ad un livello maggiore: internazionale, sovranazionale.
Non si può e non si deve cadere vittime della logica da erba sempre più verde nel giardino del vicino, ma, allo stesso tempo, non si può trascurare che sentirsi etichettati quali “cattivoni più cattivi degli altri cattivi” ha un peso in termini di fiducia globale, di capacità di attrarre investitori esteri, di spread.
Nel 2013, sulla base dei dati forniti dal Consiglio d’Europa, dall’OCSE e dalle Nazioni Unite nonché da esperti indipendenti, verrà pubblicata una relazione sulle dimensioni del fenomeno della corruzione e sulle buone pratiche realizzate dagli Stati membri dell’UE per contrastarlo.
L’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione, datata 1999!!!
Quale aderente al Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO), il nostro Paese è stato sottoposto a valutazione, sfociata in un rapporto finale nel quale si rileva che, malgrado la determinata volontà della magistratura inquirente e giudicante di combatterla, la corruzione è percepita in Italia come fenomeno consueto e diffuso, che interessa l’urbanistica, lo smaltimento rifiuti, gli appalti pubblici, la sanità e la pubblica amministrazione. Il rapporto rivolge all’Italia ventidue raccomandazioni, suddivise tra il settore della repressione e quello della prevenzione, ritenendo che la lotta al fenomeno deve diventare una questione di cultura e non solo di rispetto delle leggi.
Siamo al cospetto di una minaccia allo sviluppo, alla democrazia e alla stabilità, attraverso la distorsione dei mercati e l’erosione sia del servizio pubblico sia della fiducia nei funzionari pubblici.
Il prezzo della corruzione è alto (circa l’1% del PIL dell’UE). Ancora più alto se letto in chiave sociale tout-court.
All’aumentare della crisi aumenta la percezione ed il collegamento con il dato che è sotto gli occhi di tutti, coinvolgendo il concetto dinamico di cittadinanza, profondamente intriso dell’idea di progresso economico-capitalistico.
Per i giuristi segna il passaggio dai diritti civili a quelli politici e poi a quelli sociali.
Il taglio socio-politico degli studi permette di convogliare una serie di gravissimi problemi che evidenziano, per esempio, la tendenziale incompatibilità dell’economia di mercato in relazione all’affermazione di effettivi diritti sociali.
Nella nostra tradizione giuridica, il nucleo concettuale di cittadinanza è dato dall’appartenenza. Un soggetto è ascritto ad uno Stato e perciò è titolare di diritti e doveri. Se lo Stato è la fonte esclusiva della produzione giuridica, diviene storicamente il garante dei diritti nel momento in cui, divenendo Stato costituzionale, è esso stesso a positivizzare e porre quei diritti.
Oggi evidentemente la sovranità degli Stati è profondamente in crisi, così come il concetto di garanzia dei diritti medesimi.
I surrogati (holding, banche, furbetti vari) non hanno legittimazione di sorta, non offrono l’idea di appartenenza: non si può essere cittadini di una banca, ergo manca chi tuteli effettivamente il cittadino, sempre più in balia di un meccanismo perverso e malato.
La bilancia del potere tra la politica e l’economia, tra i governi e le multinazionali pende sempre più inequivocabilmente a favore delle grandi corporazioni. Come scriveva Willke, rispetto alla politica esse possiedono il vantaggio di un’opzione strategica aggiuntiva accanto a voice e loyalty, quella di exit verso collocazioni più vantaggiose.
La partita si gioca tra lo scetticismo circa le residue capacità di governo delle istituzioni politiche ed il razionalismo giuridico che mira ad uno Stato costituzionale e cosmopolitico, capace di dare attuazione a rivendicazioni anche etiche.
Ecco dunque, l’importanza di una seria presa di posizione del legislatore italiano sul tema della corruzione, al fine di ripristinare o semplicemente rinsaldare l’asse verticale protezione-obbedienza, allo scopo d’impiegarlo come una bussola nella difficile navigazione dei cittadini irrequieti, sradicati, sfiduciati, quasi “meno cittadini”.

Avv. Giuseppina Meola

PAPE SATAN, PAPE SATAN “ALEPPO” – Enrico Maria Troisi

PAPE SATAN, PAPE SATAN “ALEPPO”.
Ho preso in prestito deformandole, le famose parole pronunciate all’indirizzo di Virgilio e Dante da Pluto, guardiano del quarto cerchio nel Canto VII della Commedia, : “Pape Satàn, pape Satàn aleppe”. Secondo una delle tante interpretazioni la frase, molto oscura, potrebbe derivare dall’Arabo. Abbūd Abū Rāshid, primo traduttore arabo della Divina Commedia interpretò questi versi come la trasformazione fonetica di una espressione araba, traducendoli in arabo come Bāb al-shaytān. Bāb al-shaytān. Ahlibu (“La porta di Satana. La porta di Satana. Proseguite nella discesa”). I versi pronunciati successivamente da Virgilio in risposta alla oscura minaccia del Guardiano, tendono a rassicurare l’ormai terrorizzato Dante: Non ti noccia / la tua paura; ché, poder ch’elli abbia / non ci torrà lo scender questa roccia. Il richiamo all’inferno della guerra civile in Siria mi è sembrato perfetto. La Commedia sembra calzar bene ad Assad e a pennello per i Ribelli. Pluto incita, sfida i Poeti ad affrontare il terrore e Virgilio esorta ancora Dante al coraggio. Mi ha colpito la determinazione del tiranno Assad nell’ordinare la distruzione della sua gente e della sua terra, e la forza, altrettanto cieca, che ne ha ricavato il popolo in rivolta. Tutto in Siria finisce, davanti ai nostri occhi, in una colossale ed irrefrenabile autodigestione. Diceva Alfieri che “…Nelle repubbliche vere amavano i cittadini prima la patria, poi la famiglia, quindi sè stessi: nelle tirannidi all’incontro, sempre si ama la propria esistenza sopra ogni cosa…(De La Tiranide)”. Se le idee camminano sulle gambe degli uomini, è forse lo smisurato amore per sé che spinge Assad ad ordinare il massacro indiscriminato della sua gente, pur sapendo che non c’è alcun futuro per il suo regime, ma soprattutto per sè. Ed allora l’amore si converte in odio. Ma altrettanto, i combattenti sono animati da un desiderio di autodistruzione che si afferma sfruttando la catena di trasmissione della vendetta, e non si giustifica con la conquista di diritti negati, di legalità, di democrazia. Tutta questa autodistruttività azzera le gerarchie familiari e calpesta la morale: non ci sono bambini da risparmiare, o giovani o donne o anziani. Ovunque cadono tonnellate di esplosivo e si consumano stragi. Ragioni geo-strategiche impediscono ai soliti sceriffi di intervenire, mentre L’Europa è distratta da una guerra finanziaria senza precedenti, l’ONU è del tutto impotente, Papi e Ayatollah non riescono a tappare ll vaso di Pandora, nè invocano più la pace. Questa mi sembra una guerra civile diversa dalle altre. Più morbosa, più “sacrificale”, più “emotiva”, meno “tattica”, totale. La rete e i filmati catturati qua e là testimoniano di una carneficina senza logica se non quella della distruzione come fine, non come mezzo. Cosa accadrà ancora varcata la porta…?

Enrico Maria Troisi

ANCORA LEI – Sandro Capodiferro

Ancora Lei

Seduto su di un divano di certezze, guardo le immagini da uno schermo colorato mentre volute di fumo accecano i miei occhi: un provvidenziale fastidio per non vedere e fingermi distratto. Nel silenzio del mio salotto asettico e piatto, mi trovo ad ascoltare la voce di un anonimo cronista che riporta la notizia assurdamente declamata tra le tante che impegnano i neuroni per il solo tempo di una frazione di secondo, quasi a fiaccarne la gravità nella scusante di un palinsesto tiranno. Un’altra lei a riempire un minuto scarso di comunicazione, a ritagliare sulle coscienze dei più l’ennesima reazione di salvifico sconforto, mentre intorno a me tutto tace come in attesa di una ribellione che non arriva, se non dentro di me. Questo ambiente che mi accoglie descrive tutto ciò che mi accomuna ad un genere, ad una stirpe, a un modo di essere solo fortuitamente cromosomico. E’ maschile una tenda bianca e ritta sugli attenti, un mobile d’acciaio freddo e lucido. Lo è un frigorifero semivuoto convinto della sua astinenza da un proprietario pigro che spaccia tutto questo per essenziale e utile; è virile una tavola di vetro dove non mangi mai perché un tappeto ha tutto ciò che può servirti ad essere più maschio durante il tuo letale pasto a ventre gonfio e irsuto. E’ così che ci si uccide di soli carboidrati e proteine proclamandosi asciutti e troppo impegnati; si riempiono le vene di insalubri sostanze fatte transitare per gozzi voraci e mal rasati, si iniettano gli alveoli polmonari di nebbia argentea e puzzo di bruciato, rigettandone con maschia decisione pezzi di vita, sprezzanti del pericolo. Quella notizia già non è più nulla e quella lei galleggia nei pensieri di chi dorme consapevole e appagato di quanto tutto questo faccia da sempre drammaticamente parte del gioco. Ma quale è gioco? E’ quello della vita ed è la sua per giunta. Non è un discorso dal quale lasciarsi annoiare nel ripetersi continuo di una storia millenaria fatta di tante lei che nell’anonimato di un istante hanno svettato, celebri un minuto, per esser dimenticate il successivo. E allora guardo ancora la mia stanza e provo a disegnarla nello spazio di un pensiero come se tutte quelle vittime fossero qui. Vedo lo sguardo attento dai mille toni d’espressione, arguto, indagatore, vero, forte ma anche scettico, disilluso, coinvolgente, freddo, colato via in una riga di rimmel che lascia traccia liquida delle proprie emozioni. Ascolto nell’aria le parole giuste, salaci, spontanee o programmate, perfide o dolcissime, di conforto, d’ira o d’amore, pronunciate da bocche morbide e taglienti mentre i denti mordono la patina vivida di un rossetto che ne accentua il lucido pensiero. Seguo intorno a me i gesti di mani capaci di essere ali per librarsi in volo oppure forti strumenti di precisione durante le innumerevoli attività delle quali sono in grado; mani che accarezzano e ora graffiano la mia anima, lucide di smalto, bagnate di saliva. Raccolgo tutto questo intorno a me e me lo metto addosso per ricordare la lei che sono anch’io come lo siamo stati tutti e ancor lo siamo. Fin dalla nascita virile che per prima ha ucciso questa lei, perché essere maschi e non evolvere in uomini è come aver sedato nel cloroformio degli istinti più terreni quella parte femminile che sostiene ogni nostro gesto. Non capire questa nostra comune radice è una bugia della quale fare scempio, è la codarda ipocrisia che è divenuta necessaria per non sentirsi poco più di nulla a confronto di quelle tante lei per le quali una dimensione non ha mai fatto la differenza, un lavoro è sempre stato soltanto una delle tante facce della vita, un amore è diventato il luogo dove essere e non soltanto comparire per sparire impaurite. Sul mio divano ora mi rivesto di me, lavando via il rimmel di quegli occhi, il rosso delle bocche e il brillio di quelle unghie, confondendoli con le mie cromie di nulla come di sottomarca, dolce amica, portando te che ridi in un ricordo di quanto poveri son gli uomini quando per esser come te ti uccidono eliminando la fonte del confronto, illudendosi così di non averne, sodomizzati dall’effimera illusione di un possesso contro natura, come la vile assuefazione alla cronaca che ancora una volta parla di te.

Sandro Capodiferro

LA POLITICA DEI PASSI INDIETRO: ROMA FARABUTTA

Le dimissioni sono sempre un atto eroico. Ammantato della più sofisticata ipocrisia ad uso e consumo del popolo, della base, dei fedelissimi, dei media, quando un leader le manovra come extrema ratio, viene fatto di chiedersi fino a che punto è sporco e quanto invece è pulito: vittima e non carnefice, idealista e puro e non colpevole, ingenuo e malato (qualche basista parla di “circonvenzione d’incapace”), quasi sprovveduto, in buona fede di fronte alla sua sciagura, e al complotto e ai complottisti, che – come da sempre accade nella storia – probabilmente si annidano nella sua stessa cerchia, nel suo raggio di fiducia: dei giuda che hanno agito ignobilmente, spinti solo dalla brama invidiosa di prenderne il posto, di usurparne il regno, di deturparne la carriera, l’immagine, la dignità (…). Insomma, Bossi con le sue dimissioni dovrebbe fare pena, non rabbia. Questa è la strategia della comunicazione in uso. Padre e figlio Bossi si dimettono e Belpietro – su Libero – scrive che «solo la Lega poteva fare piazza pulita della sua dirigenza in una settimana, gli altri non ci sarebbero mai riusciti»: non sono dei Mennea come loro. Il Trota, «era stanco di stare in regione» – dice il padre -, e «ho dato il buon esempio», afferma il figlio. Un buon esempio che svetta dal video-sputtanamento del suo bankomat-autista-bodyguard, inequivocabile. Verrebbe da dire “un  ottimo esempio”, fatto di diplomi e lauree, suoi e della badante-vicepresidente al senato, Rosy Mauro, comprati, coi soldi degli italiani, all’estero, tanto per consumare questi falsi non su territorio italiano (per evitare altri sputtanamenti). Cultura, professionalità e formazione, questi ragazzi se le comprano “altrove”. Insomma, dopo un ventennio secessionista-poi-federalista contro Roma ladrona, cominciato negli squallidi bar della provincia lombardo-veneta, tra un cordiale e un ce l’ho duro, e dopo innaffiamenti del Po sulla testa dei barbari sognanti nel cerchio magico del carroccio, tutto ciò ch’è stato legato sembra sciogliersi, i falli (o i cazzi) ammosciarsi, le corna degli elmi spuntarsi, i medi branditi artrosizzarsi, e tutto l’ogoglio padano ridursi a delle scope in mano a Bergamo – oggi -, in un nuovo simbolo della base leghista: la pulizia. Prima ce l’avevano duro, adesso scopano solo con le ramazze, come servette sull’aia, o sul porcile. Rispunta un governo romano (che dovrebbero odiare): il triumvirato, che – nel caso in questione – dovrebbe chiamarsi “trium-evirato”, anche se c’è una donna per lo mezzo. La domanda più grave sembra essere: ci sarà ancora Miss Padania?

Ma noi non ci facciamo abbagliare dall’eroismo delle dimissioni, così in velocità consumate, e ci interroghiamo se, in vista degli avvisi di garanzia, non siano piuttosto una strategia rozza e infantile, a cui Bossi padre ci ha ormai abituati, tra un sigaro, un farfuglio ruttante incomprensibile sulla faccia di qualche intervistatrice, e quella espressione grottesca-trionfaloide che ha esibito solo fino a pochi giorni fa. Una faccia da leader incorruttibile, da uomo-simbolo, da capopolo irreprensibile, da unico-onesto possibile, in quest’Italia allo sfascio, che non ha più motivo di essere sotto il tricolore, col quale quest’individuo affermò: «ci si può pulire il culo».

Un’altra domanda tra le più gravi è: cosa farà adesso Borghezio? Si struscerà l’ano zozzo sui verdi vessilli della Lega? Sul frondame del Po come un curato buco-lico? E Calderoli? Indosserà magliette a sorpresa con le vignette che ritraggono il Trota con i cinquanta in mano prese dall’autista? E Maroni? Sarà rincorso dai barbari in un incubo? Niente più sogni? È plausibile che anche Maroni abbia rotto i marroni? Che ci faranno coi ministeri al nord? Case gratis per islamici? Tanto pagano gli italiani.

Insomma – dicevamo -, Bossi sembra essere stato bravo a fare implodere subito lo scandalo. A disarmare le invettive della base, con le sue disarmanti e immediate dimissioni. Belpietro finge d’esserci cascato. Ma noi non abbiamo motivi per fingere altrettanto: queste dimissioni della family non ci convincono, e non ci piacciono. Aspettiamo ancora qualche giorno, finache le intercettazioni non ci soddisfano abbastanza. Non crediamo in un rigurgito d’istanza etica, proprio no, no e no. Attendiamo la magistratura, ma siamo attenti anche alle esternazioni estemporanee dell’altro giorno. È stato Maroni il giuda, il traditore? La segretaria al telefono con Belsito, dove si dicono di tutto? Questi tesorieri fanno accapponare la pelle anche a un lebbroso. Che Belsito fosse invidioso di Lusi e dei suoi tredici milioni?, che fosse in cerca anche lui di visibilità? Che sia lui il vero giuda? Mi viene in mente una ovvia battuta dell’amico Peppe Lanzetta a un Costanzo di circa vent’anni fa, a cui ero presente: «Le Leghe?… Sotto i mari!» Mi verrebbe da chiedergli: e le Margherite?, i rimborsi elettorali?… i frettolosi e compulsivi disegni raffazzonati nottetempo da tutti i partiti sul cinque per per mille, i referendum dipietristi, gli alfanogeni aggiramenti parlamentari su un eventuale decreto?: troppo lenti. No! Bisogna fare in fretta! Bisogna muoversi! Ormai è un coro. Un indecente coro che cerca un’indecente distanza dai Rutelli e dai Bossi. Il rimborso elettorale?: un vero schifo! Che orrore! Sembra di ascoltare Bettino quando, in aula di tribunale, affermò: «conosco la storia dei finanziamenti illeciti ai partiti da quando portavo i pantaloni alla zuava.»

500 milioni di rimborsi ai partiti italiani contro i 5 del Regno Unito: c’è ben poco da dire. Di quello che fregano ai cittadini ne spendono una media che oscilla tra il dieci e il quindici per cento del totale. Ma che virtuosi! Lusi in testa. Rutelli fiero. 1 milione di euro per pranzi dei dirigenti. Ma quanto magnano questi? “Strafogano”, direbbe il Lanzetta, oppure “s’ingozzano o schiattano”… E quello che avanza? Si va dagli investimenti in Tanzania alle fondazioni, non c’è che dire.

Ma la verità è che questi non schiattano mai. La politica dei passi indietro è un classico all’italiana: tutti pronti!, ma solo quando scoppiano gli scandali. Ma guarda un po’.

Quali teste ha tagliato il senatùr? Deciderà il congresso a ottobre? Nel frattempo, sembra che a saltare sia stata solo la sua testa di cazzo. Napolitano invoca maggiore controllo. E chi dovrebbe controllare i controllati? E chi controllerebbe i controllori? E quelli che li controllano?

Anche il presidente dell res-publica o forse pubica sembra si sia svegliato all’improvviso. Ma tu guarda un po’: non ne sapeva nulla. Nessuno sapeva nulla. Nessuno sa mai niente. Migliaia di persone si ritrovano – per esempio – una tessera d’iscrizione al PDL con tanto di versamenti annui, senza che ne sappiano niente? E nessuno nel partito ne sa niente. Quello c’ha la casa al Colosseo già pagata? E che cazzo ne so io! Quell’altro ha passato la casa del partito al cognatino a Montecarlo? E che minchia ne so io?!

Sembra di risentire Poggiolini che c’aveva i lingotti d’oro nei cuscini e nel divano: ma chi cazzo ce li ha messi?! La Befana! No, Babbo Natale! Ma guarda che bel regalo: è perché sono stato un bravo bambino e non ho fatto arrabbiare la mamma.

È finita un’epoca, quella dei berlusca e dei bossi. È finita anche la seconda repubblica. I salvatori della patria si chiamano Rutelli e Bossi.

Ma la cosa che ci incuriosisce di più, come dire, in un’analisi sul troglodita di carattere antropologico (si fa per dire) è, appunto, l’affermazione estemporanea: Roma farabutta. Chi mi ha tradito? Maroni sapeva dell’indagine e non mi ha detto niente! Cazzo! Anche gli altri sapevano e non mi hanno detto niente! Doppio cazzo! Roma farabutta! Ancora e ancora…

Insomma, il Boss si sfoga. Si lamenta che nessuno gli è stato complice.

Ecco, vorrei fermare il lettore su questa istantanea di questa Italia. Certo che quello che verrà dopo sarà di certo anche peggiore. Non basta fare un passo indietro, se non si costruisce mai un baratro definitivo a questi “signori”. Alla fine… tutti i passi, indietro o avanti, portano sempre a Roma. Si sa. Quello che molti non sanno ancora è che Roma è solo la capitale dei figli di puttana, da quando cominciarono i papi. Ecco, quelli sì che danno il buon esempio nei secoli. Altro che il Trota, povero figlio. Ci vorrebbe una presa della Bastiglia, o una “giornata delle tegole di Grenoble”… Ma non siamo in Francia, e poi, da quando c’è Sarkò, neanche la Francia è più la Francia. Ormai, siamo in un’Europa che fa, da sempre, solo passi indietro. Mentre noi continuiamo imperterriti a indietreggiare all’italiana. Per questo, aspettiamo la terza repubblica.

Salvatore Maresca Serra – Roma, 10.04.2012

L’ULTIMO ATTO DEL BERLUSCOPISMO: Dopo di noi il diluvio

L’ULTIMO ATTO DEL BERLUSCOPISMO

<<Après nous le déluge>>!

I tuoni non rombano mai a caso, specie quando l’intervallo temporale dal fulmine è breve. È la velocità del suono – o la sua lentezza rispetto a quella della luce – a indicarci quanto il temporale è vicino, oppure lontano. Temporale e temporale: due parole (apparentemente) uguali pocanzi da me usate con valenze diverse: confondersi sulle parole e sui “temporali” può essere facile, se non si è attenti al senso, ma può anche convenire a chi sarebbe prossimo – restando nel meteo – a voler esclamare anch’esso <<Après nous le déluge>>! E sommando inevitabilmente questa volta la temporalità del disastro politico annunciato con il diluvio che spera e crede lasci nei vari ambiti dove ha messo radici, fingere di non capire ciò ch’è accaduto.

Tutto il menefreghismo per la Francia di Luigi XV non gli impedisce di restare famoso nei secoli per questa frase celebre. E quale sarà, quando sarà, la frase del nostro Luigi XV – Silvio Berlusconi I (e speriamo ultimo)? Quella che resterà nella Storia? Non credo di sbagliarmi quando penso che l’equivalente sia già stata affidata alla storia generosamente come sempre: <<Questo è il Parnaso, il bunga bunga del 1811>>. La frase è questa. Immagino la sua vocina quando l’ha esclamata: impappata e lubrìca nel suo autocompiacimento demenziale. Quella detta in risposta alla domanda sul dipinto di Andrea Appiani di Netanyahu. Uno schiaffo deliberatamente sferrato sulla faccia del popolo italiano, o mi sbaglio? La dignità dell’italiano nel mondo – grazie a queste graziose esternazioni del nostro Primo Ministro – è ormai al sicuro nello scrigno del suo fertile e paterno giudizio giudizioso. Non c’è che dire: è un vero Pater Familias. Ma l’affermazione saliente potrebbe anche essere un’altra: <<Bisogna sempre diffidare di chi si prende sempre troppo sul serio. L’autoironia è fondamentale>>. Come dargli torto su quest’ultima frase (storicizzata all’istante)? Si è mai preso sul serio Berlusconi? Non credo. È troppo ricco per essere animato da serietà d’intenti e troppo povero per conoscerli. Lui vive in una relativizzazione del tutto per definizione. Qualche logopedista “volenteroso” dovrebbe spiegarlo a segni  al Vaticano. Ruby non è la nipote di Mubarak? E chissenefrega: relatività del suo ruolo istituzionale: <<L’ha detto lei!>>. Ruby non è maggiorenne? E chissenefrega: <<L’ha detto lei!>>. Relativizzazione della colpa in quanto mai e poi mai c’è dolo. In entrabi i casi, il Rubygate è solo imbastito sul voler occultare la vera vittima, il Premier. Il Premier non sapeva, è stato preso per i fondelli da una sciacquettina che si fa passare (in tutti i sensi) per quella che non è. E poi chi sarebbe mai?, visto che l’avvocato di Hosni Mubarak dice che l’immensa fortuna dell’ex presidente egiziano ammonta in realtà a sei milioni di lire egiziane, pari a circa settecentomila euro – ‘sto poveraccio! ‘Sto morto di fame. E magari Silvio è stato fregato anche da “quelli che sapevano ma tacevano” sull’età della “nipotina” del morto di fame, sapendo che le minorenni non gli piacciono per niente. Un ottimo-pessimo e sciente ordito contro la sua buonafede e il suo buonFede, che di buono non sapremmo nessuno di noi cosa attribuirgli ad entrambi se non le scorte inesauribili di cialis e di viagra (all’occorrenza)…

Ma come? Ma la Legge non era quella cosa orrenda di sinistra estrema ed eversiva, puzzolente e pusillanime che sanciva che “non ammette l’ignoranza”? E allora come fa il nostro Luigi XV parnasiano bungabunghiano a farsi prendere per il naso nel Parnaso dalla sua stessa ignoranza come uomo, come Premier e come sprovveduto e ingenuotto brianzolo parvenu se vuole fare il primo ministro senza conoscere la Legge? Qualche qualunquista più ingenuo di lui potrebbe anche rischiare di credere che si può fare il premier conoscendo la Legge. Il rischio è altissimo, accidenti o cribbio! <<Prima che il gallo canti mi avrai già rinnegato tre volte!>>. Ecco che il destino accade: il Premier non volendo diffidare di se stesso non si è mai preso troppo sul serio. Lui è concreto e coerente: non si è mai autorinnegato, sono gli altri (quei porci comunisti indemoniati) che dicono che è un rinnegato. L’autoironia indispensabile gli ha fatto ignorare che la Legge non ammette ignoranza e che è uguale per tutti, finanche per gli autoironici. Il Popolo – quell’Unknown Flying Object che “ha l’intellighenzia (si fa per dire qualcosa di sinistra) media di un ultimo scolaro della prima media” -, popolo ultimamente meno autoironico (e per questo di cui diffidare) ha deciso con in mano uno strumento repellente e schifoso: il suo ultimo giocattolo: il Referendum. Che orrore! Che vergognoso esercizio della democrazia! Finanche peggio del voto amministrativo! Un vero schifo. E un vero diluvio. Una pioggia incessantemente esorbitante e indecorosa di sì per dire no: in Italia si dice sempre il contrario di ciò che si vuole e che si fa. Neanche Luigi-Silvio primo e ultimo, in fondo, in questo è diverso dal volgo volgare d’animo e di seggio. Me l’immagino, quando da Re casto e irreprensibile e incorruttibile diceva i suoi Noooo a quella ienetta minoretta di Ruby… Era referendario il cavaliere nero quando diceva no alla ragazzotta nipototta? Forse voleva dire sì? Forse che si è confuso tra il dire e il fare o tra l’abrogare, lo sbragare e lo sbrodolare? E allora perché non ha detto no anche alla sua sfrenata ambizione – la più grande, suprema, gigantiaca, immane – di voler governare ignorando l’ignoranza della legge? Si sa: la Legge è proprio ignorante, non alfabetizzata (ci avrebbe dovuto pensare l’unico ch’è più nano di lui – senza far nomi e cognomi – Renato Brunetta, l’investiprecari). Ma l’inane Legge si è sotratta all’innovazione tecnologica implacabile e implacabilmente inarginabile del doppio nano: è rimasta ignorante (sticazzi) e non si è fatta alfabetizzare come la pubblica amministrazione, ormai tutta (e dico “tutta”) informatizzata. Forse che l’unico che batte la legge per ignoranza è il Senatur? No, non ci posso credere. Bossi avrebbe detto non referendariamente <<Cel’hoduro!>>, imitando grottescamente il driveiniano Ezio Greggio dell’astatosta antesignana del celodurismo e del berluscottismo (in origine) diventato poi berlusconismo e berluscopismo, (in fine).

Abbiamo i precari che scassano le palle al blason(d)ato baronetto Brunetta? Hanno fatto la rete nella rete? E chissenefrega! Autoironia! Autoironia! Troppo seri ‘sti cazz ‘e precari! E che madonna! <<Ma lo sapete che siete infornatizzati pure voi?!>> Qua inforniamo tutto! Tracciabilità: un precario tracciato è un chiodo fisso, o fissato. E che sarà mai?!, il lavoro non è tutto: berluscopate e sorry-dete. Che “la vita è bella”!, lo dice anche quell’eversivo maligno di Benigni tra una divina commedia e un inno di Mameli. Senza capire il male che fa al popolo sovrano, che poi si sente davvero sovr-ano e rinunzia indecorosamente a prenderlo nel culo. Che tempi! O tempora o mores! O referendi o referenti: non si scappa. Come diceva una mia amica: o danti o prendenti.

Insomma è un vero schifo. Non c’è che dire perché c’è da dire troppo o troppo poco. Alla fin fine, se vuoi farti un’idea solida che non si sdereni sotto la mannaia del diluvio devi ascoltare il tiggì di Fede. Guardare imbambolatamente la sua faccia ‘a-mareggiata per i forti venti e domandarti: ma se la Legge non ammette ignoranza, ma quanto sarà colto mai uno che scambia Apollo per se stesso e le muse per delle povere e innocenti escort? Scherzava?… Non credo, o non avrebbe nominato Apicella, che nel par naso ci sta tutto e da sempre.

Fatto è che il temporale-temporale è arrivato, e chi sta bene e chi sta male nel PDL vuole abbreviare. Processo breve e prescrizione breve? E chissenfrega se tra questi processi ultimi c’è l’inchiesta sui crolli seguiti al terremoto dell’Aquila, quello per la strage di Viareggio con 32 vittime e 38 indagati tra cui l’ad di Fs, Mauro Moretti, quello per il Crac Parmalat, con 100mila risparmiatori truffati e 22 persone imputate per bancarotta e associazione a delinquere, oltre a una serie di banche indagate e imputate, il processo per il Crac Cirio, il processo Eternit di Torino (dove ci sono quasi 3.000 parti offese) e quello per lo scandalo rifiuti a Napoli! Che sarà mai! Ma scherziamo? Se approvata, la prescrizione misura Brunetta estinguerà anche il processo Mills che vede imputato il nostro Luigi XV. Anche lui sarà il Beneamato, o detto tale. Sarà l’atto ultimo del berluscopismo, questo è certo per molti, ma io vorrei essere tra quei molti che ci crede. Intanto aspetto il nuovo diluvio, quello che porterà il ramoscello d’ulivo in bocca alla solita colomba bianca.

Forse c’è vita tra le acque rotte. E tu, ti sei rotto?

Salvatore Maresca Serra

L’ITALIA DELLA FINZIONE Salvatore Maresca Serra

L’ITALIA DELLA FINZIONE

Nei secoli passati, lo spettacolo della morte era dovunque.

La morte era anche lo spettacolo offerto al popolo per divertirlo e spaventarlo e convertirlo, nelle piazze, nelle arene, sulle ziggurat, sui patiboli, nelle auto da fè, per le strade. Il nostro Dio cattolico è ancora appeso ad una croce, morto, con le mani e i piedi inchiodati, e questa croce è appesa ai muri delle case, delle scuole, è nelle chiese, nei dipinti, nei musei, sul petto della gente appeso al collo, ai capoletti di molte camere da letto degli italiani medi. Quegli stessi italiani medi che guardano la morte in televisione oggi. Una morte che di sacrificale possiede alcuni tratti distorti dalla storia che cambia le cose e gli uomini, e la stessa morte. E che, dall’arte, ha imparato a fingerla. A distanziarla virtualizzandola nelle sue rappresentazioni molteplici. Rappresentazioni che hanno per tema la morte ma non sono la morte: sono opere d’arte, sono racconti, sono film, sono fiction, etcetera. La morte ne è la protagonista, ma nelle strade e nelle piazze non c’è più come un tempo, è scomparsa la morte vera, quella che puzza, quella che nausea, quella che colpisce direttamente i sensi, senza alcuna mediazione concettuale, senza mimèsi artistica, poetica, letteraria.

Quella morte è stata fatta scomparire progressivamente nell’occidente fino a farla diventare un tabù.

Perchè? Perchè contrasta col dopaggio dei consumi, per esempio. Stride con la patinata dei giornali di gossip. Turba i sogni dei bambini, incrementa le paure degli anziani, depriva la società capitalistica del suo presunto potere di sconfiggerla in qualche modo o in qualche altro, corrompe il corpo glorioso della moda e l’avvenenza dei tronisti della De Filippi, rischia d’insinuarsi nella pianificazione del potere creando squilibri problematici, semina la meditatio come un tempo inducendo l’italiano medio a riflessioni insane, o che potrebbero diventralo laddove apparisse in carne ed ossa troppo spesso, alla portata dell’occhio di tutti, nuda veritas, troppo nuda.

Abbiamo un corpo nudo ma vivo e gaudente, e una morte paludata-occultata dalla finzione di essa.

La finzione della morte: è questo il tema della società italiana, che dimostra di non saper rinunciare allo share che totalizza quando se ne parla, in modo omicidiario, come nel caso Scazzi-Misseri, che viene frammentato in mille pezzi e poi ricostruito anche nella fiction, come un paravento di interesse giornalistico, antropologico, sessuologico, psichiatrico, sociologico, ad una morte che resta confusa sullo sfondo. Una morte come tante: quella di una ragazzina di quindici anni che – per gradi – da innocente vittima deve diventare piccola ricattatrice e sputtanatrice di una famiglia “sana” in una microsocietà bacchettona-cattolica: una classica piccola società provinciale dell’Italia del sud. Lo zio le ha palpato le natiche, per questo la ragazzina deve morire, perchè – al dire dell’assassino reo confesso – di questo gesto ha deciso di farsene un’arma di ricatto e di accusa.

Ma non è questo il punto, il punto è che tutto ciò deve diventare al più presto una storia finta: quella vera è troppo scomoda. Quella vera è fatta di orrore e di violenza, di complotto e di impietà, di meschina conservazione e di empietà. Nella storia vera, la piccola donna è morta. Nella storia finta dai media, cioè “ricostruita” fino alla fiction, la piccola donna è morta non una volta, ma mille, duemila, tremila. Muore ogni giorno cento volte ancora. Quindi perde ogni senso il suo morire, il suo essere stata uccisa, diventa altro da sé, proprio come le parole ripetute velocemente all’infinito (un esercizio che si fa all’accademia di teatro) che non significano più niente perchè il loro suono è solo una convenzione umana, e non la loro propria sostanza. E questo analfabetismo della morte si diffonde ogni santo giorno con trasmissioni televisive, dove tutti hanno il diritto di parlarne, come se la morte e la violenza fossero un bene-male comune, e dove tutti ne avessero il grado di conoscenza profondo che se ne richiede in un’arena con milioni di spettatori domenicali, tra il pranzo a base di ragù e salsicce, i parenti ospiti, i bambini che giocano e sgaiattolano tra un piatto e l’altro, lo zapping su Quelli del calcio, e lo stratificarsi di un interesse verso la morte omicidiaria che di non morboso ha solo ciò che gli è rimasto meccanicamente: il sentimento di lutto perpetuato che gli sceneggiatori televisivi tengono vivo ogni giorno per fare audience. La stessa ragione oscura per cui ci si trattiene dopo un funerale e si prova quello strano imbarazzo a congedarsi da tutti gli altri presenti. Stiamo vegliando un corpo che pur essendo morto lo si fa agonizzare meccanicamente come fosse in uno strano coma reiterativo, ad libitum. Una violenza tipica della finzione, che non si esaurisce mai avendo tutti i mezzi per non farlo. E’ l’Italia della finzione.

E’ la stessa Italia dell’accanimento popolare-mediatico.

E’ quella Italia che deve riempire il suo vuoto attraverso vuoti più grandi.

E’ quella Italia che si reca in pellegrinaggio verso i luoghi designati dalla tivvù: icone del vuoto e dell’orrore, perchè l’orrore della morte è stato nascosto e asportato dalle strade e dalle piazze dove un tempo giacevano per giorni e settimane i veri cadaveri, e ora la gente reclama un po’ di sano orrore, anche solo una foto del luogo, del cancello, del garage, della strada della morte.

Un rischio calcolato: non è come imbattersi in un cadavere per caso in una notte sfortunata, no.

Tutto questo è molto diverso, emblematicamente italiano.

La finzione autorizza di tutto ormai.

Esperti della morte e della psiche, docenti e consulenti del linguaggio del corpo televisivo, detectives della domenica, Holmes della porta affianco, protettori della morale comune e del senso del pudore, controllori dell’informazione, avvocati e medici della mutua, carabinieri eloquenti e procuratori scherzosi coi giornalisti che dicono: “Certo, fa piacere ma non prendeteci gusto” tra un sorriso e un ammiccamento.

Il problema non c’è. Non c’è più. Non c’è mai stato. Per gradi di amoralità.

E’ l’Italia che muore e uccide per finta: di vero, sotto la fiction, non c’è niente

Salvatore Maresca Serra – 25 ottobre 2010

“PAROLE” Angela Rita Iolli

“Che le parole dessero luogo a qualcosa, che potessero far muovere o arrestare qualcuno, farlo ridere o piangere: già da bambino aveva trovato la cosa enigmatica e non aveva mai cessato di impressionarlo. Come ci riuscivano? Non era una sorta di magia?”

 

Le ascolti e ti incanti, non importa dove, non importa quando, non importa come, sono lì a suscitare emozioni e passioni, ad accompagnare le giornate storte e quelle buone, a ridare serenità oppure preoccupazione. Sono parole, sono ombre attaccate, che accompagnano la nostra vita e camminano per strade lastricate di vicoli e di incontri, dove lasciarle sfogare.

 

Parole, quando si vorrebbe che il vento ne catturasse la lontananza, dove solo l’eco può essere ascoltata quando i muri si sono trasformati in tante insonorità rinchiuse nel loro ostinato mutismo. Parole prigioniere in ogni luogo, dove ritrovarle come per magìa, in quel posto che appartiene singolarmente ad ognuno di noi, in cui restare in ascolto.

 

Tirate fuori da un cilindro, da una bottiglia, rinchiuse dentro ad una poesia o ad una dedica, amanti di qualsiasi scrittura, avventure in prosa per dirsi qualcosa d’importante. Parole lascate al movimento di una clessidra quando non c’è più tempo di pronunciarle, simili a quella sabbia che conta le ore e insensibile ai loro richiami non conosce ostacoli.

 

Parole che accarezzano labbra capaci di incorniciarle in quadri d’autore, dove ammirarli con occhio critico, ma interessato. Parole appoggiate su una spalla, dove lasciarsi andare in quei momenti di travestita stanchezza, dove il buio sembra l’unico amico in grado di aiutarti. Parole che gridano il loro dolore, la loro ostinata solitudine, il loro folle amore, fermandosi davanti porte, dove solo le speranze hanno il potere di lasciarle socchiuse.

 

Parole vestite di brividi, da accapponare la pelle, nessuna stufa che può dare conforto e calore. Parole da abbattere i muri, quando i mattoni sono cartapesta da attraversare. Parole che fanno male, che fanno chiudere cuori e serrature, non c’è più posto ma solo cartelli con scritto non disturbare. Parole da coinvolgere il mondo, mentre abbracci e mani adoranti sembrano avvolgerlo in quel senso di protezione che a molti farebbe paura.

 

Parole rassicuranti da scaldare davanti camini in quei freddi inverni dove osservare, dietro finestre dai vetri appannati, il lento movimento della neve. Soffice e leggiadra, come una ballerina sulle punte in cerca della sua fortuna.

 

Con un vecchio carillon a far da musica di sottofondo, quando basta uno sguardo e la luce in iridi dai diversi colori per dimenticare le parole e sussurrare al mondo la propria felicità. ”Se è così, se possiamo vivere solo una piccola parte di quanto è in noi, che ne è del resto?”.

Angela Rita Iolli

IL PENSIERO DEL GIORNO

CYBORGil-pensiero-del-giorno

 

E’ sufficiente sostituire al naturale equilibrio bio-pschico dell’individuo l’indottrinamento, l’introiettamento, il comportamentismo, il ricatto, l’ideologia, la dittatura dalla nascita. Cose sempre – con consapevolezza scientifica o anche senza (in tempi remoti) – esistite. Rimuovere la paura della morte, quindi il naturale istinto di conservazione. 
Rimuovere l’aspirazione alla coesistenza col gruppo.
Isolare.
Congelare le capacità critiche autocritiche.
Stabilizzare un pensiero olistico e monodirezionale.
Coartare con la forza dei regimi gli individui nella direzione del fanatismo.
Annullare la percezione dell’altro da sé.
Macchinalizzare il pensiero attraverso categorie e schemi labirintici.
Usare applicazioni di riflessi condizionati semplici per soffocare gli istinti.
Recintare la percezione della realtà con la propaganda.

Le tecniche sono infinite.

Non è necessario impiantare parti meccaniche nel corpo, è sempre bastato impiantare protesi pschiche per produrre banali automi. Affetti da quella “banalità del male” coniata da Hannah Arendt per il caso Adolf Heickman. La storia è fatta in prevalenza da “Cyborgs” – a mio avviso – che agiscono meglio delle stesse entità cibernetiche, nel male. Pur apparentemente non essendole, ma il discorso è diaframmatico.