poesia

ASPETTO IL SOLE – Maria Pia Monicelli

Aspetto il sole

Mi ritrovo in un gioco all’abbaglio, un diversivo per gli dei, gli stessi che demolimmo addobbati da giganti.

La giostra nuova reclama cavalieri adusi al luccichio dei ferri e non dei lustrini che mascherano bombe.

Aspetto il sole!

La maschera di latta si scioglie al sole cocente della verità e non sotto la luce fredda della retorica.

Siamo una società asociale, un nucleo frammentato di gente votata alla sodomia.

Ci piace gracchiare come cornacchie ma al primo ostacolo vero diventiamo struzzi addormentati.

La mia impotenza reclama una breccia. I miei ideali, le mie ragioni, devono uscire, volare insieme a quelle di altri candidati all’utopia, fuori da questa gabbia di matti! Fuori dal delirio di onnipotenza di una classe dirigente del nulla.

Non sono votata al suicidio e grazie ad un pizzico di follia neanche ad essere il bullone di una macchina da guerra. Non mi piace l’isolamento ma neanche essere parte di una folla assente: sono un essere umano!

Potrei svegliarmi come un automa, mettermi in fila all’idiozia che supera ogni cattiveria, o morire da aliena caduta su questo suolo inquinato dove la salvezza appartiene soltanto ai morti. Alla prossima alba, me ne renderò conto, intanto annaffio l’unica piantina rimasta sul balcone e aspetto il sole.

Maria Pia Monicelli

LE CENERI DI NOI

LE  CENERI  DI  NOI

Vanno per anime, le truppe indecifrabili di questi nomi

che scorticano ogni cosa ed ogni cosa addentano,

in questi giorni putridi, scanditi dal rumore di mascelle

e dal silenzio, le cose marcite nell’aria dell’assenza,

i ricordi detti <<illeciti>> fattisi carogne.

Le immense svendite commerciali di coscienze

andate come condannati ad un patibolo

con mille boia che scioperano,

ombre di uomini che si rincorrono riconoscendosi satolle,

frasi d’inespugnabile vergogna e inedia.

Ancora aria, che sventola le facce odiose,

quelle dei servi impazienti, scalcianti, operosi

schiavi della nuova libertà, come banderuole

di tornei e di giostre secche, ostinati volti della morte

oscena, del progresso furibondo, s’innalzano in piramidi.

D’insulti e di menzogne, con l’idolo imbalsamato

di cui hanno scartato il cervello che strascicano

dalle fosse del naso e gettano, inutile grigio avanzo,

nel pozzo nero dell’abisso senza baratro,

fanno i canòpi loro del loro faraone.

Vanno per anime, le loro mani indegne e deformi,

ottuse protesi meccaniche, ora che niente le trattiene

e invadono strade ch’ebbero un sogno,

tombe che serbarono ideali, simboli che ci furon cari,

speranze che regalaron morte e onore e eterna vita.

Tutto esse percorrono come intendessero un dovere,

quando non un diritto, il peggio,

con un comando pernicioso d’oblio nel loro petto esangue,

d’ignoto ignorano e di passato fuggono,

nati come metastasi di un nuovo e vecchio cancro.

Tacciono i vermi ciechi, aggrovigliati entro

quel corpo ch’essi muovono come vivesse ancora,

spingendosi gli uni con gli altri, scavando angusti spazi

nella carne morta, ormai già preda e patria

d’insetti avidi, verdi come le mosche verdi.

Forse sbarrammo il campo di primule

al passo del tuo corpo giovane,

fummo di meno noi che ci credemmo e fummo

come cipressi di camposanti, alti, vertiginosi

e ondivaghi cattivi esempi ad il tuo sguardo.

Noi figli di rosari e crocefissi segnati

come anonimi figli di X su schede nei seggi,

quando che quest’Italia rosa e resa,

mercanteggiata al prezzo di uno sbarco mafioso

si fece liberata dai soldati scesi dai loro padri usurpatori delle Indie.

Furono i fazzoletti rossi al collo usati come cappi,

sudati e laceri di battaglie perse (appena vinte),

quando borghesi e cattolici e preti,

come risorte carcasse galleggianti sugli scoli strinsero il nodo,

affondando le prime mani sulla Storia, per cancellarla.

Ancora i corpi resi cenere e denti d’oro e paralumi,

e immondi esperimenti, dissoluzione d’ogni umanità,

trionfo d’ogni male, nauseabonda sciagura d’alleanza e

sogno infantiloide di grandezza neoimperiale,

stavano a rigettar carezze ipocrite e a ricercar giustizia.

Ancora la follia segnava i muri delle case spoglie

con gli slogan, ancora echi di parate sembravan dire al mondo:

“Nudi alla meta”… ma nudità ben altra scoperchiava

l’ambizione, la propaganda, la marcia ed il bivacco,

nel mezzo di macerie di quella voce studiata per la folla femmina.

Ecco, eravamo noi i figli di quell’epoca finita,

appena nati per poter scandire un vagito,

appena uomini poi per averne la paura, l’orrore,

la miseria morale, che molti invece rimpiangevano,

come la stessa madre mia, e la sorella e la sua madre.

Quanto fu dura, aspra, lacerante questa storia mia,

questo quotidiano disaffetto lordo di incancellabili scorie,

teso come la freccia all’arco, pur che fossi scoccato lontano

dalle mie radici, ch’io stesso mozzai sanguinando del mio

stesso sangue, appena adolescente, e appena orfano.

Ricordo me e mio padre, accerchiati dalla peggior grettezza,

esuli tra le mura domestiche, condannati alla guerra senza quartiere

con quelle donne riunite attorno a un giradischi a 78

che vomitava quella voce immonda, assordata dai boati

di quella stessa folla delirante, tra cui molti poi furono in piazzale Loreto…

Io ragazzetto fragile, asserragliato in maschera di forza

e di coraggio, sempre ai cortei, agli scioperi, alle occupazioni,

spesso sanguinante ma felice, sentivo in fondo alla ragione

d’esistere l’irrompere della vita, l’odore sincero della fratellanza,

la confidenza stretta e inusurpabile coi miei ideali sociali.

Vedevo nei miei stessi occhi quel futuro e quell’afflato,

quella speranza di giustizia che cancella ogni barriera,

ogni paura, ogni diversità, ogni diseguaglianza…

E navigavo con in petto la mia vela e nei capelli lunghi

i vortici tenui e imbattibili di un vento che creava un mondo.

Eravamo fratelli e sorelle… Oh sì, se lo eravamo.

Eravamo noi quelli che il mondo avrebbe odiato,

tanto la nostra idea ci tenne fermi, senza che alcuno

ci facesse vacillare mai, tanto le nostre gambe erano giù,

nel cuore della terra, piantate da meravigliosi semi di pace.

Raccoglievamo ore di gloria e giorni d’odio,

mia madre mi ribattezzò “Anarchico e Rivoluzionario”.

Divenni per lei e le sue amiche il diavolo in persona,

la vergogna, lo sconcerto, il pentimento di maternità,

mentre scorrevano imperterriti gli anni, gli anni duri, le immonde stragi.

Ricordo Brown Sugar, che falcidiò compagni deboli,

insicuri, afflitti da un suicidio lento e inesorabile.

Privi d’affetto, di sostegno al loro legno acerbo,

incapace di reggere tutto quel peso e un ideale scomodo.

Esso fece di noi dei felici reietti, ognuno ebbe il suo dalla famiglia.

Mentre ancora il mio sguardo poggia sulle sedie vuote,

d’un tratto all’accademia, nomi e cognomi iscritti tra i morti

di una guerra odiosa, senza né gloria e né giudizio di nessuno,

solo siringhe sul petto al posto di medaglie,

cucchiai ancora incrostati di quei paradisi inseguiti in fretta.

Forse lo fummo noi – i sopravvissuti – ad impedire il passo

tuo verso il tuo sogno. E quello stesso benessere ch’oggi lamenti

da noi venne: chi mai lo negherebbe? Quello che ti assedia,

ti perseguita, ti ferisce, ti annienta, ti sfigura. Orrenda maschera

del nostro corso, noi diventati odiosi padri di un’Italia spenta.

Tutto sembra crollato nella nostra via di mezzo.

E tutto ciò che vedi – se pur tuo – ti tiene altrove.

Di noi non puoi né dire bene né provare odio.

Non meritiamo l’uno e tantomeno l’altro.

Perché non siamo altro che il triste Progresso, che ha perso tutto consumando.

E, mentre ci guardi esistere, oggi siamo solo cenere.

Salvatore Maresca Serra – 25 Maggio 2011, Roma

MARIA PIA MONICELLI “Ho nel palmo il mare”

Non è passione

è solo il vento del deserto

e questa polvere rossa

non è sabbia

ma ciò che resta sospeso

di quel che mai fu.

 

Esistono rare forme umane, si chiamano Poeti. Vivono ancora l’incanto del primordio del linguaggio, del segno, della scrittura e della parola che diventano Suono, e Danza. I Poeti sono capaci di dare un corpo – modellandolo tra suoni e pause – anche a tutto ciò che un corpo apparentemente non ha, o non avrebbe, se – a volte – non lo avvertissimo essere presente, e camminarci affianco, quando percorriamo quelle vie nascoste, a volte occultate a noi stessi, dei nostri sentimenti. In realtà, questi corpi celesti ci attraversano, ci materiano, sono la parte più sottile del liquor: quella “vita” intelligente che, se distrutta, non ha il potere di rigenerarsi al pari di altre cellule. Cellule che nascono e muoiono, e che vengono costantemente sostituite da altre. Il Liquor no. Maria Pia Monicelli ha fatto di questa insostituibilità una ragione di vita; una ragione che si nutre di una ragione profonda, e non razionale-logica, bensì olistica, che racchiude in sé una evidente escatologia delle cose tutte, e che – pur inglobandola nel tutto – annienta anche l’invidia che gli Dei provano per noi mortali, per noi dotati di irripetibilità: esseri unici. Mortali.

Nei versi di Maria Pia io avverto anche il riscatto degli Dei.

Lo avverto quando recita: “ma ciò che resta sospeso di quel che mai fu“, attribuendo un corpo dotato di Topos e di Logos a ciò che mai è nato – “mai fu” –, ma che pure ineffabilmente “vive” come antimateria dell’Essere, o dovremmo dire forse antichronos, per comprendere cosa è una Sospensione, se a dirlo è un Poeta.  Dobbiamo quindi (nel vero senso che abbiamo un debito con essi) ai poeti il corpo – e la consapevolezza che ci danno di esso – delle cose che fuggono, e che rapidamente scompaiono dal flebile tessuto della memoria: sono sospese. Vivono in quel tempo parallelo invisibile, anche quando mai furono, e ancor più se non lo furono. Quelle cose che chiamiamo rimpianti quando fanno parte della coscienza, la coscienza dei sentimenti. E questi rimpianti appartengono sia ai mortali che a tutti gli Dei che tutti furono immortali, per dirlo attraverso le parole di Cesare Pavese. Oppure non sapremo mai cos’è la Sospensione, e cosa il Rimpianto.

Scrive Pavese: Nel dialogo Le Muse si definisce la poesia – si dice, tra l’altro, di ogni gesto che l’uomo fa, che “ripete un modello divino” e giorno e notte l’uomo non ha un istante “che non sgorghi dal silenzio delle origini”.

Esiodo viene invitato da Mnemosine  a riferir questo ai mortali – nasce la poesia. *

Nella poesia di Maria Pia Monicelli il silenzio delle origini si manifesta come un’eredità che lei ha raccolto a piene mani, fatta di continui risvegli. E’ come se il Poeta cantasse  ogni parola tra una vita e l’altra, e tra una morte e l’altra, perchè di questo si tratta: di un inarrestabile e costante risveglio. Ecco la presenza di quel che mai fu. Una misura del tutto. Se vissuto fuori dal tempo, una dimensione della natura del Poeta, che ha nel suo destino cantare ciò che fugge, e scrivere di ciò che – per fermarlo – ci sfugge.

Scrivere di un altro artista non è mai cosa né sana né facile, ma sempre una cosa che ti arricchisce nell’anima. Ed è per questo – egoisticamente – che, in breve, l’ho fatto.

Salvatore Maresca Serra


 * Cesare Pavese, La poetica del destino, in Letteratura americana, cit., p. 311

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Angela Rita Iolli “NON HO TEMPO”

Non ho Tempo

“Il cuore ha relative ragioni per cui il motivo non conosce” (Pascal) 

Chiedersi e attendersi risposte non lecite, motivare perchè inutili, inseguire il tempo nel rapido trascorrere delle ore, quando non si ha più tempo. Nè per pensare, nè per riflettere. 

Non ho tempo. La fretta che divora i giorni e vite rapidamente vissute, non serve voltarsi indietro. Porte chiuse. Perdite non previste. 

Non ho tempo. Di ascoltare, gioire. Felicità scivolate tra le dita. Carpe diem. 

Non ho tempo. Di inseguire sogni, svaniti in risvegli in cui il solo ricordare fa male. Incubi. 

Non ho tempo. Di chiedere scusa, orgoglio messo in prima fila, assiduo combattente, vincitore di mille battaglie ipocrite. Guerriero silenzioso. 

Non ho tempo. Di invecchiare, lo specchio della vita riflette altro, stento a riconoscermi, un’altra me che appare. Odo il rumore dei frantumi sul pavimento. 

Non ho tempo. Di concedermi altre possibilità. Sfiducia incontrollata. Faccio fatica a ritrovarmi. 

Non ho tempo. Il cuore ha smesso di chiedersi il perchè. Il mondo continua ad andare follemente veloce. Il respiro diventa ansimo. 

Il tempo fugge via come sempre. Qualcuno sta ballando. Preferisce dimenticare.

Angela Rita Iolli

TAM TAM DI DOLORE Antonella Puccio

TamTam

 

Tam Tam di dolore

Madre,
questa notte..è una notte selvaggia
è un tam tam di dolore,
i cuori di acciaio ..verranno
e con pesanti scure ci attaccheranno e ci stermineranno.
Madre,
in questa notte
sento il sangue pulsare
e vano è il tentativo di sognare.
Madre,
stringimi al petto che ti voglio raccontare
ascoltami…
parole pesanti come il piombo
parole come spade che lacerano il cuore,
son state pronunciate sulla sorte di noi alberi giganti buoni.
Madre,
ricordi,quanta fatica per raggiungere il cielo !
noi fratelli uniti e fedeli
maestri gli uni degli altri
sapienti nello spargere amore.
Noi..respiro delle terre morenti.
Sgomento e stupore,
sui volti ,ora di un verde smunto,
di noi fratelli.
Madre,
in questa buia e interminabile notte
un taglio di luce:
dei folli saggi,
artisti d’ogni parte
poeti, pittori e musicisti,
sulla scia di un pianoforte,
su teli, con giochi di acquerelli innamorati del verde,
dentro i versi sognanti di instancabili poeti
evocano la nostra bellezza 
e ne invocano la salvezza.
Madre,
forse che il loro dire,
non sarà voce 
più forte delle pesanti scure?
In questo tam tam di dolore
le foglie, umide di pianto,
intrecciano
un canto di speranza.
 

Antonella Puccio

HO VISTO L’AGONIA DELLA TERRA Angela Rita Iolli

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Ho visto la terra donare frutti meravigliosi cui persino il sole ne invidiava la bellezza
Ne scaldava il colore con i suoi raggi, lasciando all’arte visiva 
l’estasi della contemplazione.
Ho visto boschi verdeggianti abbracciare con i loro rami e le loro foglie l’ossigeno di cui la nostra 
vita ha bisogno. 
I nostri passi hanno saputo solo calpestarne la dignità in segno di non riconoscenza.
Ho visto il mare palcare le sue onde quando aveva bisogno del consiglio di Nettuno, 
cullando i suoi figli prediletti nelle giornate di precario silenzio. 
L’ho rivisto incattivito quando ha scoperto di essere stato ingannato dai suoi stessi figli, 
assistendo inerme all’imbarbarimento delle sue acque.
Ha concesso passaggi a navi ed in cambio ha avuto scie d’inquinamento, che lo stanno spopolando.
Ho visto genti mantenere con forza le loro tradizioni, nessuno le ha capite, molti le hanno cacciate.
E’ rimasto il rumore delle loro lacrime e il vuoto di capanne distrutte. Nessuna pietà.
Ho visto il fuoco divorare la speranza, abbassare occhi stupiti, inermi davanti allo scempio.
Ho visto indifferenza per Madre Natura, un tempo materna adesso cattiva matrigna.
Ho visto malattie minare resistenze e certezze, lasciandosi alle spalle una gelida impotenza.
Ho visto la morte sorridere e farsi beffa degli uomini, spegnendo qualsiasi ottimismo.
Infine sullo sfondo ho visto una figura piccola, meschina, chinata su se stessa,
l’artefice di tutto ciò:
ho visto l’uomo e mi sono vergognata di lui.
Un angelo caduto a cui si sono spezzate le ali.
Ho visto l’agonia della Terra.

 

Angela Rita Iolli

ANTICA FIGLIA Maria Pia Monicelli

L'INFINITO-POTERE-DI-UNA-GOCCIA

 

ANTICA  FIGLIA

 

La notte dei fuochi d’artificio
è per te piccolo uomo
dalle scarpe firmate
Esulti alle luci vigliacche
mentre riempi le tasche
con zampilli di brace
assassina
Scie di panico senza colore
mentre muore
per sempre il colore
Tace il ramo secolare
non ha nulla da festeggiare
Fuggono fiere spaurite
sotto ali bruciate 
di piccoli uccelli
e grandi farfalle
Pioggia di stelle rosse
marchia schiene scoperte
senza più occhi né voce
Profumi di cielo in cenere
L’ universo sanguina
con il lutto nel cuore
mentre la foresta
antica sua figlia
muore!

 

Maria Pia Monicelli

Roma, 31 Agosto 2009

MATTINO – Antonella Puccio

 

MATTINO

 

In questo fresco mattino
ascolto
i suoni che arrivano da lontano.

Il vento leggero 
che accarezza e muove le foglie,
il sole che asciuga la rugiada,
e riscalda la foresta.

Guardo tra i rami
il celeste del cielo,
dell’alba che si schiude.

Ascolto
la musica che riempie
il silenzio speranzoso e soave, 
il dolce e trillante cinguettio
degli uccelli
che festaioli si preparano 
al giorno che arriva.

In questo fresco mattino
in comunione con te,
o mio universo,
scopro cose sopite e celate
al mio animo.

Il senso del divino 
che echeggia in ogni tua parte,
illumina il mio pensiero
e muta le mie paure.

Nel petto, il mio cuore stanco e deluso,
respira il soffio della vita 
che tu, o mio universo, emani
e riprende a battere.

 

Antonella Puccio

RIO – Maria Pia Monicelli

 

 

RIO

 

Scendono raggi di fuoco
tra le fiamme di vento
e pioggia rossa
una musica spettrale
copre le voci
solista stonata
sul palcoscenico
antico
Crepita e scalda
distrugge la scena
alza il volume
accelera il tempo
nessuna pausa
nel moto perpetuo
Messa da requiem
su note trionfali
mentre un adagio lento
spegne i cuori.
Lontano il grande fiume
si gonfia
ma ha poche lacrime
per la sua foresta.

 

Maria Pia Monicelli

Roma

25/08/2009

ARTISTI RIBELLI – Antonella Puccio

alberi

 

ARTISTI  RIBELLI

 

Le nostre cime ti accarezzavano
e giocavano con te, azzurro cielo
e come pennelli di un artista ribelle
si divertivano, aiutati dal vento,
a disegnare e dipingere bianche e soffici nuvole.

Tra di noi, alberi, nelle notti
ci raccontavamo,
sentivamo il piacere della pioggia che scendeva dolce sui nostri corpi
che si adagiavano gli uni sugli altri aspettando l’alba.

Vi avremmo offerto frutti smaglianti,
su piatti di foglie di un verde smeraldo
ma il fuoco è stato devastante,
ha raggiunto le viscere della terra,
le radici delle nostre anime
rimaste nude per sempre,
senza possibilità alcuna di rigenerarsi.

 

Antonella Puccio

MADRE FORESTA – Maria Pia Monicelli

MADRE FORESTA - Maria Pia Monicelli

 

MADRE  FORESTA

 

Un piccolo mondo oltre le mura
Foresta
Là dove il tempo si è fermato
tra liane e indios
nello spazio più vicino al cielo
là batte un solo cuore
Ogni ferita un delitto
di ferro 
di fuoco
Madre dalle spade nel cuore
prega
tra le ombre pluviali
mescola lacrime
di sangue e pioggia
non solo per uno
sono tanti figli 
di carne e fiori
di frutta e legno
Madre senza angeli
in coro
accoglie straziata 
i lamenti
del suo popolo
solo.

 

Maria Pia Monicelli

Roma, 22 Agosto 2009

NEI TUOI OCCHI C’E’ QUEL MARE

Nei tuoi occhi c'è quel mare

 

Nei tuoi occhi c’è quel mare,

quel mare profondo, irrequieto e iracondo,

tremulo e giocondo, quel mare.

Sì, nei tuoi occhi c’è quel mare.

Quel mare che mi ha visto crescere,

nuotare e affondare, affondare e nuotare.

Quel mare. Quello stesso mare.

C’è il sigillo di un sogno, argenteo, oppure di cristallo

come le mie mani ignare, silenziose, promesse

a qualcosa che sì, si può ignorare, ma non fuggire.

Com’io oggi ignoro tante cose,

e son tutte cose che ho fatto, io, proprio io.

In quel mare c’è ancora il mio stupito sguardo,

che oggi è nei tuoi occhi, dentro, nel profondo di te,

per fuggirti trovandoti,

per amarti perdendoti,

per soffrirti godendoti.

Per guardarti, solo per guardarti.

Io che ricordo, sì, quanto ti ricordo

mio mare.

Quando venivi incontro ai miei sogni

come fossi tu a cercarmi, tu ad essermi,

tu a bagnarmi, tu ad uccidermi.

Mio mare antico, che soggiaci al tempo,

che corre “Maledetto!”, e che mi toglie la vista,

le brame, la fame e l’orgoglio.

E mi fa avere paura, anche di te.

Nei tuoi occhi c’è la mia vergogna,

del furore ch’ebbi un tempo e che non ho,

e che se pur avessi non mi salverebbe

dalle gemme che celi, e che regali,

come valessero niente,

e che, per niente, io ti ridarei.

Nei tuoi occhi, c’è quel mare.

Che bagna altrove ormai.

E la mia terra rinsecca

perchè ancora sei.

Quel mio vecchio, arido, mare.

Salvatore Maresca Serra 

Caselle Lurani (MI) – 1999

E’ questo segno

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E’ questo segno, muto e lacerato,

antico eppure nascente,

urlante sotto la pelle risarcita dai giorni

tutto il suo dolore e la sua gioia.

 

E’ questo segno,

tormentato dalle lunghe orazioni,

e scarno di peccato,

debitore e creditore della tua grazia.

 

Ignoto a se stesso e ignaro.

Scavato dall’essenza del suo nulla.

Operoso, instancabile, tremendo:

che fissa il mio sguardo senza pietà alcuna.

 

E senza alcun rancore.

Che mi ricorda il nome ignoto delle cose,

le vanità perdute nel gioco,

le saggezze noiose degli adulti.

 

E’ lui, questo Prometeo,

ladro di fuochi che brillarono,

solo nell’ore dell’attesa.

Quando invecchiai sognando d’essere ancora feto.

 

E’ questo segno,

che pullula d’immortali finzioni,

di nomi che rubai al destino,

di storie sofferte e gioite che mai vissi.

 

In fondo a quella strada,

asfaltata di derisioni

e percorsa da mille ruote,

e così, battuta da mille meretrici che vissero in me.

 

Salvatore Maresca Serra, Roma 1990

Verrà la Morte e avrà i tuoi occhi

 

Ancora Cesare Pavese che illumina le pagine di questo Blog. E lo fa con la insostituibile voce di Vittorio Gassman, e le immagini e musica di dagherottipo. Un insieme per me esaltante che merita d’essere conservato gelosamente nella memoria.

LA TERRA DEI SOGNI – Salvatore Maresca Serra

 


 

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Abbiamo lasciato indifferente la terra dei sogni

cucendo una meccanica agonia dei sensi,

una cara toppa all’abito della festa

da cui il nostro corpo ormai lacero un tempo mostrava nudo

la pelle atea, ma poi ogni ignudo è stato vestito,

e niente si è più consumato,

la vista si è spenta smarrendosi

e lasciando spazio al buio della vita.

 

Al dolore abbiamo preferito la coscienza

e alla gioia dell’idiota abbiamo mozzato la lingua

così che non dicesse mai più il nome della vita,

e siamo scivolati verso la fine

senza più temere di non farcela,

noi, ragni laboriosi, eroi vecchi e stanchi di una guerra vinta e perduta,

e tante volte dimenticata

quante sono le ore di un giorno utile al mondo.

 

Nella bella tela abbiamo catturato solo rimpianti,

il nostro corpo si è nutrito fino a scoppiare,

e cosa abbiamo concluso, se non un viaggio nel vuoto?

Se il mondo è infame, la medaglia che ci appuntammo sul petto

ne è l’esatta misura,

e a quelli di noi che coltivarono il campo a mezzodì

col fiume inesausto del sangue

resta indelebile il miasma della nostra guerra, attaccato addosso come marchio.

 

E’ così che fummo uomini

con la paura di amare:

con l’osso del vicino facemmo banchetto e clava,

con la sua prole affilammo il coltello,

con la sua donna sputammo il furore dell’odio.

E’ così che fummo uomini

col nostro dio degli eserciti

che verso l’infinito marcia coi calzari dei morti.

 

Salvatore Maresca Serra